Chi si rivede (con post scriptum)


Fallito l’effimero sanguinoso putsch, il governo turco, cerniera di populismi occidentali e islamici, ha arrestato 10.000 funzionari e ne ha licenziati 50.000 «su liste probabilmente stilate ben prima del putsch». «“Erdogan ha riformato lo HSYK (Consiglio superiore della magistratura) per piazzarvi i suoi. È tutto frutto di una lunga preparazione” dice Simone Gaborieau dell’associazione Magistrati europei per la democrazia e le libertà. “Il controllo di giudici e magistrati è iniziato con arresti e sostituzioni ben prima del tentativo di putsch”». E poi stampa, tv, università, scuole, imprese. «La direzione generale dell’informazione ha chiesto al popolo di cercare nelle reti sociali i fautori del colpo di stato per segnalarli a indirizzi e-mail dedicati» [M. Jé. «Purge en règle dans tous les secteurs de l’administration turque», Le Monde, 22/07/2016, p. 2].

Mentre Erdogan apre decine di migliaia di carriere ai fedeli, in USA Trump vuole «l’espulsione di 11 milioni di persone che sono in situazione» di immigrati illegali. «Misura peraltro popolarissima nell’elettorato repubblicano. Il 17 luglio, sul New York Times, Peter Wehner, dell’Ethics and Public Policy Center e già in varie amministrazioni repubblicane, dice che “nel partito ci sono persone attirate da una politica più razziale e etnica, spinte da intolleranza e rancore. È un gruppo ben più importante di quanto immaginassi» [Nicolas Bourcier e Gilles Paris, «A Cleveland, les républicains esquivent leur divergences», Le Monde, 21/07/2016, p. 8]. Considerati i patrimoni espropriabili, è la shock-economy neoliberale che si fa populista, ma sempre antidemocratica. Tolleranza, solidarietà, piena occupazione sono beni pubblici primari che hanno radici personali ma si sviluppano solo con governi democratici competenti e responsabili. Richiedono maturità civile, prima che politica, unica alternativa all’intolleranza e al rancore esplosi in Turchia e nella convention repubblicana, «allorché la collera contro il Partito democratico si trasforma in odio brutale» [Bourcier e Paris, cit.].

Storico alla Northampton University, UK, Paul Jackson ha ricostruito l’“estremismo cumulativo” dei neonazisti angloamericani post-bellici, poche persone e piccoli gruppi spesso conflittuali, in un processo che ha negato la Shoah e avuto una svolta quando gli scritti di William Pierce, leader della National Alliance, un perno di cultura neonazista USA anni 1970, «ispirarono numerosi atti di terrore, come la bomba all’edificio federale di Oklaoma che nel 1995 uccise 168 persone, tra cui 19 bambini» [“Accumulative Extremism: The Post-War Tradition of Anglo-American Neo-Nazi Activism”, in P. Jackson and Anton Shekhovtsov (eds), The Post-War Anglo-American Far Right, Palgrave Macmillan 2014, p. 20]. «È difficile sottovalutare l’impatto sugli scambi angloamericani dei The Turner Diaries di Pierce e dei gruppi USA da essi ispirati, come The Order. La trasferibilità del materiale di propaganda di Pierce, specie i Diaries, è stata cruciale nel coltivare un estremismo transnazionale. Nel terrorismo britannico il libro fu riferimento sostanziale per David Copeland, la cui campagna nel 1999 portò all’esplosione di tre ordigni e alla morte di tre persone. Come disse alla polizia: “Se aveste letto The Turner Diaries sapreste che nell’anno 2000 ci sarà un’insurrezione e quant’altro, violenza seriale nelle strade. Il mio intento era politico. Volevo provocare una guerra razziale in questo paese”» [p. 21]. «Internet è importante perché facilita il processo di estremismo cumulativo con l’accesso a materiali prima difficili da reperire. L’osservazione-chiave di questo capitolo è che non c’è un punto “finale”. La nuova tradizione postbellica è ben viva. L’“estremismo cumulativo” produrrà nuovi riferimenti fin che gli attivisti continueranno a vedere una “causa” comune. Alla fine, in questa tradizione contano i modi in cui le innovazioni britanniche e americane si sono influenzate e ispirate alternandosi nell’azione. I protagonisti delle due sponde atlantiche hanno sviluppato rispetto per i reciproci estremismi, aggiungendo nuovi punti di riferimento alla “accumulazione”. […] Insomma, questa tradizione post-bellica ha davvero promosso, tra alcune figure chiave, un potente istinto di combattimento in comune, in una comune battaglia» [p. 33].

Condivisa in Germania dal “National Socialist Underground (NSU)”. Fondato da tre neonazisti e scoperto si dice per caso nel 2011, «in 14 anni ha commesso almeno 10 omicidi, due attentati alla bomba e 15 rapine in banca. […]. Contava su molti affiliati multipli, anche di gruppi tra loro ostili. Parteciparvi era una scelta strategica, per sfruttare le situazioni. C’erano clandestini, estremisti di destra e gruppi legali di estrema destra populista»  [Daniel Köhler, “The German ‘National Socialist Underground’ and Anglo-American Networks. The Internationalisation of Far-Right Terror”, nel libro citato, pp. 123-4]. «Quasi tutti i contatti più vicini e i membri stessi facevano parte di Blood & Honour [gruppo neonazista fondato in UK nel 1987], per lo più in posizioni-guida e con legami internazionali» [p. 129]. Dopo l’omicidio della funzionaria di polizia Michèle Kiesewetter nel 2007, «le autorità rivelarono che due suoi colleghi, tra cui il diretto superiore, erano membri della sezione tedesca del Klu Klux Klan», che non risultò implicata: «i due colleghi vennero solo ammoniti», ma «è noto che anche altri poliziotti ne facevano parte» [pp. 136-7]. «I tre NSU accettarono i rischi di infiltrazione in una base di supporto più ampia e affidabile, che ebbe successo perché la confusione informativa affossò le indagini. La relazione tra fortuna e calcolo in quei 14 anni probabilmente non sarà mai chiarita del tutto» [p. 138].

Concludono Jackson e Shekhovtsov: «poiché di solito i responsabili di governo valutano i gruppi di estrema destra britannici incapaci di mettersi in rete internazionale, la storia va evidentemente  raccontata anche fuori dall’accademia. I network islamici come Al-Qaeda sono spesso spiegati con generalizzazioni sui terroristi ispirati dall’Islam come una minaccia internazionale molto coordinata e professionale, mentre i network internazionali di estrema destra sono visti con le lenti distorte del dilettantismo, se pure li si vedono. Una più attenta valutazione sottolineerebbe l’eredità postbellica di gruppi di estrema destra uniti oltre i confini nazionali, in modi sempre più complessi» [p. 145].

Internet, ovviamente («gli ambienti neonazisti sono stati spesso precursori nell’adottare le nuove tecnologie»: Jackson, p. 30), studiato da Manuela Caiani e Linda Parenti dell’Institute for Advanced Studies (Austria) in European and American Extreme Right Groups and the Internet (Ashgate, 2013). Nel concludere osservano che «i paralleli tra mobilitazione di estrema destra online e offline non sembrano tuttavia riguardare la violenza (violenze e morti in manifestazioni di estrema destra) […]. Inoltre, la nostra analisi mostra che i principali protagonisti delle attività di destra di solito non sono organizzazioni collettive, bensì singoli o pochi attivisti che, come osservato, possono trarre dal Web istruzioni e risorse ideologiche per motivare e organizzare le loro azioni» [p. 138].

«Che cosa suggeriscono i nostri risultati? Una certa debolezza organizzativa dell’attuale estrema destra o una (strategica) forma di struttura organizzativa “senza leader”, cioè una organizzazione e “resistenza” flessibili? In quest’ultimo caso Internet può divenire un attrezzo di complemento per l’estrema destra organizzata su appartenenze fluide, impegnate in spontanee e sporadiche campagne di violenza. Di fatto importanti violenze di estrema destra, come il recente attacco a Oslo [77 persone uccise da Behring Breivick nel luglio 2011], sono opera di veri “lupi solitari”, spesso con poche affiliazioni formali organizzative e molti contatti online». «Anche le peculiarità organizzative sono importanti per spiegare in parte l’uso di estrema destra del Web, una sorta di “divisione del lavoro” tra i vari tipi di organizzazione, fra il più tradizionale approccio al Net dei partiti politici e i più innovativi gruppi giovanili sub-culturali e nazisti, che sostituiscono Internet alle interazioni sociali face-to-face nel mobilitarsi e nei contatti internazionali. […] In ogni evento, i nostri risultati provano che gli attori sociali non si collegano a Internet come unità monolitica, ma l’utilizzano per formare piattaforme nuove di partecipazione e organizzare l’azione collettiva in modi largamente dipendenti da altri fattori, quale la struttura delle opportunità sociali e politiche. Di fatto, come si è visto, le risorse dell’estrema destra sembrano interagire con le opportunità politiche, culturali e tecnologiche del paese e l’attivismo Web è più elevato dove ci sono più opportunità» [p. 147].

Ad esempio in Francia. «Nel 2004, uno studio commissionato dal ministero degli Interni francese stabilì che circa 2 milioni di persone vivevano in ghetti urbani, tormentati da emarginazione sociale, discriminazione razziale e alti livelli di violenza domestica. In alcuni di questi quartier chaud il tasso di disoccupazione giovanile aveva raggiunto il 50 per cento: i più colpiti erano di origine algerina e marocchina. Sin troppo spesso, questa sottoclasse era definita non solo secondo criteri razziali, ma anche religiosi» [Tony Judt, DOPOGUERRA. Come è cambiata l’Europa dal dopoguerra a oggi, Mondadori 2005, p. 915]. E «dal 2003 non passa settimana senza parlare del velo o senza scandalizzarsi per la moda dei foulard islamici o invocare la laicità come igiene identitaria, ciò che non è. Poco a poco questo discorso ansiogeno che mescola tutto consente ai delinquenti di passare nel campo dei terroristi». Manna dell’estremismo online. «L’Isis è superato dal suo successo di marketing: una inquietante de-professionalizzazione, non più kalashnikov, basta un semirimorchio, un’arma bianca. Un crimine in sé malvagio può ottenere incredibile visibilità». «Soprattutto, dato che Internet cambia radicalmente i fondamenti del terrorismo, è necessario un osservatorio europeo delle identità con specialisti di Internet, sociologi, psicologi ecc., per capire come si costruiscono queste identità, le frustrazioni, gli odi» [Raphaël Liogier, intervistato da Anne-ClémenceDrouant, Le Monde, 21/07/2016, p. 6].

Incipit di polizia europea, in effetti «Europol scrive che “l’attentatore di Nizza soffriva di un serio disturbo psichiatrico ed era in trattamento”». «Del resto anche “per un’ampia parte di ‘foreign fighters’ (europei andati a combattere in Siria e Iraq, ndr) sono stati diagnosticati problemi mentali prima di unirsi a Daesh». «Al momento invece “non c’è alcuna prova – scrive Europol – che i terroristi nei loro spostamenti usino sistematicamente il flusso di rifugiati per entrare in Europa senza farsi notare”. La vasta maggioranza dei terroristi, del resto, è cittadino Ue» [Giovanni Maria Del Re, «Non è il Daesh, sono malati mentali», Avvenire, 21/07/2016, p. 6]. E disturbati mentali anche gli stragisti tedeschi del 22 e 24 luglio. È la storia, oggi in pieno sviluppo, del terrorismo in Europa nutrito dal populismo nelle sue varianti transatlantica neonazista, eurasiatica, islamica. «Che questo ‘popolo’ segua delle norme religiose non cambia niente. Bisogna rendersene conto, poiché ciò che si prospetta è un ritorno del mondo all’estasi del populismo. Un accumulo di atti spontanei e azioni di gruppo suscita poco a poco un movimento di coscienza collettiva. E questo movimento, amplificandosi, diventa la logica costitutiva del ‘vero buon popolo’, un’insurrezione violenta del ‘popolo’ che assume una forma politica implacabile e che si traduce in una radicale ostilità nei confronti di chi è stato dichiarato nemico»  [Philippe-Joseph Salazar, Parole armate. Quello che l’ISIS ci dice e che noi non capiamo, Rizzoli 2016, p. 165]».

Questione politica, non militare, per un bersaglio importante e facile qual è l’Europa degli stati, specie dopo Brexit. Il suo sponsor Rupert Murdoch ha definito «‘meraviglioso’ il voto britannico di uscire dall’UE e Donald Trump un ‘uomo molto abile’», dal ponte del suo impero transatlantico, col popolare Sun crociato anti-UE, e the Times e Wall Street Journal a presidiarne le sponde [Jane Martinson, «Murdoch. Brexit vote ‘like a prison break–we’re out’», The Guardian, 29/06/2016, p. 6]. Trump salutato dall’ungherese Orban, come lui e altri populisti europei in affari con Putin.

La buona notizia è che ora la guerra nasce fuori d’Europa – in Medio Oriente, Eurasia, Atlantico – con un odio contrastato solo dal progetto politico di un’Europa (dell’euro) federale: Tony Judt [cit., p. 988] scrive che «nonostante gli orrori del loro recente passato – anzi, in larga misura proprio a causa di essi –, erano gli europei i più attrezzati per offrire al mondo qualche modesto consiglio su come evitare di commettere gli stessi errori. Ben pochi lo avrebbero predetto sessant’anni prima, ma il ventunesimo secolo potrebbe ancora essere il secolo dell’Europa». Dipende da noi, anche perché, come un secolo fa, la crisi è scaturita dalla fenice russa e dalla sregolata finanza americana.

PS Jackson e Shekhovtsov ricordano ai politici britannici che avrebbero dovuto da tempo accorgersi della pentola dell’estrema destra inglese e americana, in crescente pressione da oltre mezzo secolo. Corta visione o, come scrivono, lenti distorte. I politici nazionali (non solo) britannici sono fuori dal mondo perché estremismo e terrorismo crescono da decenni in forma cumulativa e sovranazionale, innovando i mezzi e alternandosi nell’azione in una lotta comune. In nome degli egoismi nazionali, che ci hanno dato solo guerre, i governi nazionali sono impotenti, perché il mondo globale impone strategie, cultura e mezzi sovranazionali. Altrimenti, come scrive The Economist dell’UK post-Brexit, «dopo il voto, caos» [June 25th 2016, p. 23]. Col loro continuo appello al nazionalismo i populisti rivelano da che parte stanno

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