L’economia di carta


«Borse, un rally da 20mila miliardi», titola su cinque colonne in prima pagina Il Sole 24ORE del 24 marzo 2024. A p. 3 Vito Lops informa che la capitalizzazione delle Borse (118mila mliardi di dollari) ha superato il Prodotto Interno Lordo globale (105mila), “soglia di allarme” di mercati sopravvalutati secondo il guru degli investimenti Warren Buffet. Dopo di che il driver dell’intelligenza artificiale, Nvidia, è balzato di oltre il 7% (e supera il prodotto interno italiano). Lops ricorda che «l’economista Robert Schiller ha scritto un libro intitolato ‘Esuberanza irrazionale’, sottolineando che a volte i mercati si sganciano dai fondamentali per farsi guidare da quelli che l’economista britannico John Maynard Keynes definiva gli ‘animal spirits’». «Le Borse salgono perché crescono gli utili, a loro volta gonfiati dall’inflazione». «Questo accade fin che la barca va. Fintanto che le aziende riusciranno a vendere beni e servizi a prezzi più alti. La recessione arriva proprio quando questo meccanismo si inceppa», ma «di questo i mercati azionari non si preoccupano, perché il loro cannocchiale non si spinge molto lontano: 6-12 mesi». Vecchia storia.

«Keynes fu il primo a capire che sulla scena delle decisioni economiche, nel mondo dell’industria come in quello della finanza, ci fossero sempre,  invisibili, anche gli aspetti umorali della mente umana. Tali umori possono tendere al pessimismo, come ai tempi della grande depressione del 1929 negli Stati Uniti, quando la disperazione era il sentimento prevalente, ma il termine ha di solito una connotazione positiva, di ‘voglia di fare’, di ricominciare. È proprio l’imperscrutabile psicologia della persona a far germogliare quella sorta di ‘ottimismo ingenuo’ che spinge un imprenditore a allontanare l’idea di una perdita e a insistere nell’intrapresa, accantonando il pensiero di una sconfitta come “un uomo sano allontana il pensiero della morte”. Nella realtà, la fiducia di cui parla Keynes, e di cui gli animal spirits sono i portatori, è l’ingrediente essenziale di ogni ripresa economica ma, secondo l’economista, vi sono circostanze in cui l’alleato più forte degli animal spirits è una politica economica attiva [in «The general theory of employment, interest and money (1936)», Dizionario di economia e finanza, Treccani, 2012, online].

Con intelligenza strategica e molti animal spirits, un amico imprenditore sollecita una politica attiva della Banca Centrale Europea. Insieme a un Governo UE più responsabile verso il Parlamento Europeo e meno soggetto agli Stati, è la posta in gioco nelle elezioni del prossimo giugno. La crisi terminale degli stati nazionali – con i loro meriti e demeriti storici – è evidente anche in Europa che li ha inventati. Per dire, il laboratorio Italia va tanto più fuori mercato quanto più si fa mercato trasformandosi, via  detassazione, in intermediario finanziario atipico a servizio degli interessi cosiddetti forti, sul modello Thatcher. Intanto il mondo va da un’altra parte, scrive Anthony Padgen, docente di storia e scienza politica nella University of California. «Tutte le nazioni, tutti gli stati, benché isolazionisti, sono costretti a condividere gli spazi globali in cui si trovano a spartirsi le risorse del pianeta in costante diminuzione, tanto che nessuno  potrebbe a lungo sopravvivere lontano dagli altri. Nessuno stato è oggi, e probabilmente dalla fine del XVIII secolo, autosufficiente» [Oltre gli Stati, tr.it. il Mulino 2023, p. 61].

Dopo la seconda guerra mondiale, la necessaria ricostruzione materiale del mondo fu realizzata grazie alla politica economica keynesiana di affiancare agli animal spirits le istituzioni nazionali e internazionali necessarie per realizzare lo sviluppo epocale, di produzione ma non solo, dei Gloriosi Trenta anni dal secondo dopoguerra fino alla crisi del 1973. Al crollo dell’URSS seguì l’illusorio trionfalismo della globalizzazione neoliberista, tutta animal spirits che, nel voluto vuoto di politica economica, oggi sono tornati a fare leva sull’inflazione a spese degli stati e dei loro cittadini presunti sovrani. In Italia, ci informa ancora in prima pagina Il Sole 24 ORE del 14 aprile 2024, «l’inflazione taglia la spesa reale: dalla Pa (-4%) alla sanità (-6,2%)». Vecchia storia, l’economia di carta.

L’economia di carta [The Paper Economy, tr.it. Edizioni di Comunità 1964, ed.or. 1963] fu scritto sessanta anni fa da David T. Bazelon. Laureato in legge a Yale e poi consulente a New York di società per azioni, si rese conto che «nel complesso l’ideologia corrente del mondo economico è soltanto un’evasione dalla realtà della vita, accompagnata da pugni sul tavolo. Faceva il gallo nel pollaio prima del New Deal e resta oggi l’interpretazione più onnipresente di Quel che Stiamo Facendo. Ma si è messa sulla difensiva, e da qualche tempo il suo principale contenuto è sempre più: Quel Che Stiamo Facendo di Sbagliato» [p. 29]. «È infatti manifesto che gli interessi economici non sono controrivoluzionari, bensì decisi a sabotare risolutamente un ragionevole adattamento alla trasformazione» [p. 39]. È tuttora il nostro problema.

«La posizione classica decisamente sbaglia nel descrivere la nostra attuale situazione, perché, per noi, la proprietà non è più decisiva. Ora ciò che più conta è il controllo della proprietà. La proprietà resta importante nella distribuzione ultima dei beni, ma è sempre meno importante nella fase della produzione. Il riconoscimento dell’importanza prioritaria del controllo, e la sua dissociazione dalla proprietà, sono ciò che in generale si intende con il termine ‘managerialismo’. Il nostro è un sistema manageriale, di dirigenti, non un sistema capitalistico tradizionale. Questa grossa trasformazione è stata chiamata la ‘rivoluzione manageriale’, o rivoluzione dei tecnici. Questa felice definizione è di James Burnham» [p. 225]. Sessant’anni dopo, questa trasformazione ha prodotto gli stati-azienda, ci informa Anthony Padgen [cit., p.128] e mentre l’economia di carta dilaga, la crisi climatica impone un ragionevole adattamento alla situazione. Padgen indica come.

«L’unico mezzo per contrastare il potere e l’influenza senza freni delle grandi multinazionali è accrescere, come afferma Ulrich Beck, l’universalizzazione dei diritti umani, dei lavoratori, delle popolazioni. Le federazioni transnazionali e le varie forme di confederazione costituiscono l’unico strumento in grado di dominare il potere delle multinazionali. L’Unione Europea, per esempio, dagli anni Novanta del Novecento svolge un ruolo sempre maggiore nella governance globale, costruendo uno “Stato regolatore europeo” basato su un sistema di regole intergovernative. Oltre a garantire il libero scambio, queste ultime si sono anche adoperate affinché tutte le parti coinvolte fossero tutelate attraverso condizioni di sicurezza e di correttezza. Nessuno stato democratico sarebbe potuto arrivare a tanto per proprio conto, dato che quello che Thomas Piketty chiama il “supermercato elettorale di stampo occidentale” indirettamente – e in certi luoghi come gli Stati Uniti direttamente – dipende troppo dalla finanza aziendale. Tuttavia una federazione, essendo ampia a diversificata, può farlo, come possono farlo gli istituti di credito, commerciali e monetari internazionali» [cit., p. 128]. Può farlo l’economia politica.

Di fatto, scrive Padgen, è l’UE a svolgere un ruolo sempre maggiore nella governance globale che, fallita la globalizzazione neoliberista, è la posta in gioco delle ambizioni imperiali americana, russa e cinese. Dopo due guerre mondiali in una generazione, abbandonato a caro prezzo l’imperialismo tanto praticato, l’Europa ha scelto la strada dell’unione economica e quindi politica. E non a caso, «dopo decenni in cui aveva smarrito la via, lacerata da divisioni e paralisi politica, l’Unione europea ha innalzato il Green Deal europeo a propria visione normativa, imperativo strategico, strategia di crescita economica e percorso verso un’unione politica» [Nathalie Tocci, Come l’Europa può superare la grande crisi, Solferino 2023, p. 163]. Ma, c’è un ma.

«Se si decarbonizza ma gli altri non la seguono o se il divario di transizione tra l’Unione e il resto del mondo si allarga troppo, le resistenze sia internazionalmente sia all’estero potrebbero rivelarsi eccessive. A livello interno, Bruxelles rischierebbe di subire un contraccolpo dalle imprese e dalle famiglie a basso reddito che si ritroverebbero ad affrontare costi energetici intollerabilmente elevati; a livello internazionale, se la nostra leadership non venisse seguita dal resto del mondo, il rischio sarebbe quello di un disaccoppiamento tra economie verdi e marroni, piuttosto che tra emissioni e crescita. L’Europa si troverebbe in uno splendido isolamento, incapace di navigare nel triangolo tra sicurezza energetica, decarbonizzazione e sostenibilità economica. Se lasciata sola, gli europei dovrebbero affrontare gli sconvolgimenti geopolitici che la loro transizione energetica potrebbe scatenare nelle regioni circostanti, sopportando al contempo le conseguenze della crisi climatica stessa, esacerbata da un’azione insufficiente a livello globale» [pp. 170-1]. Madre delle rivoluzioni, l’Europa è al centro di un’ennesima rivoluzione scientifica e tecnologica che diviene politica e economica. Modi e tempi dipendono anzitutto dalle elezioni europee di giugno.

È il coerente sviluppo della rivoluzione politico-economica europea, perseguita e attuata nel mercato comune, poi sviluppata nell’UE e nel Parlamento Europeo. Se consolidata nelle prossime elezioni europee, è la via di pace per l’Europa – e il mondo – mentre si stanno realizzando le fosche, realistiche previsioni di Klaus Dodds, professore di geopolitica alla Royal Holloway University of London, che nel 2021 pubblicò Border Wars [tr.it. Einaudi, Guerre di confine, 2024]: guerre di aggressione a tutela dei regimi interni. Dodds cita Walled States, Waning Sovereignity – stati murati, sovranità in declino – in cui nel 2010 Wendy Brown ha analizzato «in modo molto convincente il fenomeno in questione, sostenendo che ormai i governi e l’opinione pubblica si stanno via via rendendo conto, sebbene con una certa lentezza e riluttanza, che il controllo esclusivo di un territorio, confini compresi, è una pia illusione. L’analisi di Brown parla in ogni caso di “declino” e non certo di “scomparsa”» [p. XVII].

Lo conferma, coi casi di scuola di Putin e Netanyahu, il sovranismo, frutto della globalizzazione neoliberista che Sheldon Wolin, professore di scienze politiche a Berkeley e Princeton, fa risalire agli USA degli anni 1990 [non a caso berlusconiani nel laboratorio Italia, ndr], «quando i neo-conservatori si unirono ai managerialisti liberisti per proclamare il ‘Nuovo Secolo Americano’ e formulare i piani di espansione del potere americano» [Democracy Inc.: Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism, Princeton University Press 2010,  p. 223]. Crearono così una situazione in cui «non ha senso chiedersi come il cittadino democratico possa ‘partecipare’ alla politica imperiale» perché «in questo contesto la democrazia diventa pericolosamente vuota» e sempre più ricettiva degli appelli a «cieco patriottismo, paura e demagogia» [p. 245]. Come constatiamo.

Con le conseguenze analizzate nel 2015 da Stephen J. Rosow, professore di scienza politica alla State University di New York, e Jim George, lecturer alla Australian National University. «All’inizio del ventunesimo secolo, con George W. Bush alla Casa Bianca e crescenti influenze neoconservatrici negli ambienti di impresa e di politica estera, negli Stati Uniti una concezione sempre più ristretta di democrazia finì per dominare, così come i suoi classici valori di libertà, uguaglianza, libertà, giustizia sociale furono ridicolizzati come “utopici”, impregnati di un significato economicista e/o usati come retorica di guerra e di ‘cambio di regime’. In un contesto culturale come questo, sono divenuti sempre più evidenti un totalitarismo rovesciato e, insieme, una poliarchia. Tutto ciò ha portato all’attuale disprezzo per una democrazia in cui i governi mentono regolarmente e sistematicamente ai propri cittadini». Alcuni dei critici della democrazia neoliberale lo fanno risalire alla «”promozione della democrazia” e/o alla strategia “a bassa intensità” al centro della politica estera USA fin dall’era di Reagan negli anni 1980 e intrinseca al progetto di guerra al terrorismo dell’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001» [Globalization & Democracy, Rowman & Littlefield 2015, p. 51].

Come quotidianamente siamo costretti a constatare e Il Sole 24 Ore documenta, il risultato è una economia sempre più “di carta”: beni, servizi, imprese e mercati sempre più privi di valore concreto per una crescente maggioranza della popolazione – italiana e mondiale. Come a Bazelon sessant’anni fa, ci «è infatti manifesto che gli interessi economici non sono controrivoluzionari, bensì decisi a sabotare risolutamente un ragionevole adattamento alla trasformazione». Oggi più di allora «l’alleato più forte degli animal spirits è una politica economica attiva» [J.M.Keynes, cit.,] perché senza di essa subiremo passivamente le conseguenze devastanti del cambiamento climatico.

Gli animal spirits che disprezzano le politiche attive e nella loro esaltazione accumulano carta, sono fantasmi [«immagine non corrispondente a realtà, cosa inesistente, illusoria, fantasia», Vocabolario Treccani, online]. Fantasmi che provocano sofferenze enormi e, peggio, non necessarie. Nella sua ennesima rivoluzione, l’Europa ne è (a fatica) consapevole e (a fatica) lavora per un’economia di beni e servizi (anche ambientali) reali, prodotti per i cittadini europei e, nella crisi ambientale, del mondo.

Con questo vantaggio strategico in politica e negli animal spirits, non sorprende abbia dei nemici.

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