I limiti dell’organizzazione


È il titolo di un aureo libretto (1975) di Kenneth J. Arrow, Nobel con John Hicks nel 1975 per le pionieristiche ricerche sulla teoria del benessere e dell’equilibrio economico generale, ora affidati al libero mercato. Fiducia, lealtà, sincerità non si possono comprare. «Se lo devi fare, non sai quel che compri». Fanno degna la vita e hanno «un valore pratico molto importante» anche per il mercato. Se li paghi, svaniscono. Sono economie esterne, fuori mercato anche se ne sono i pilastri [the limits of organization, Norton&Norton, p. 23]. Ma il mercato può distruggerli, e con essi l’economia.

Nel 1991 era chiaro a Cristos N. Pitelis, University of St Andrews, UK, che «la sintesi dei motivi per diventare multinazionale è indicata con molta forza da uno dei meno disputati principi di teoria economica, la massimizzazione del profitto. Se diventa un fine, è davvero difficile spiegare a un osservatore esterno, spesso un nostro studente, perché un’impresa non dovrebbe realizzarlo con ogni mezzo. L’arsenale può includere la riduzione dei costi di transazione di mercato e del lavoro, o l’aumento dei prezzi con mercati monopolisti. L’effettiva capacità della multinazionale di realizzare tutto ciò può ben essere, dal lato dell’offerta, una ragione in sé per diventarlo. È istruttivo che, diversamente dagli economisti, le stesse multinazionali non esitino a riconoscere di perseguire politiche del ‘divide et impera’ per ridurre la competizione e aumentare i profitti, eloquentemente lo ha fatto nel 1985 un ‘insider’ come Stanley Adams, della svizzera Hoffman La Roche. Dobbiamo davvero sentirci molto soli, noi economisti, nel rifiutarci di vedere ciò che chiunque vede» [The Nature of the Transational Firm, Routledge, p. 199]. Lo confortano oggi i due Nobel 2016 per l’economia (d’impresa), Bengt Holmström e Oliver Hart: «per entrambi i contratti riflettono il mondo qual è, non quale lo vorrebbe la teoria economica» [Antoine Reverchon, «Deux Nobel au plus près de l’entreprise», Le Monde Éco&Entreprise, 12/10/2016, p. 5].

«Le multinazionali tendono a eliminare le inefficienze del mercato internalizzandolo a scala globale. Possono creare nuovi mercati in paesi ‘ospiti’, esportare tecnologia e sfruttare mercati non ancora sviluppati. Ma al contempo le multinazionali possono chiudere i mercati, ridurre il benessere dei consumatori e il potere contrattuale di lavoratori e stati (domestici e ospiti). A più lungo termine, la nostra analisi indica la possibile tendenza verso la stagnazione globale» [Pitelis, p. 208].

Dopo 25 anni, siamo in stagnazione globale, le multinazionali chiudono i mercati e si impongono agli stati nazionali. La Commissione Europea ha condannato Apple a restituire 13 miliardi di euro all’Irlanda, tasse non pagate considerate aiuti di stato «in base a due accordi fiscali giudicati troppo vantaggiosi da Bruxelles». Il governo irlandese farà ricorso «per non scoraggiare Apple e le altre imprese high-tech installate in questo paese europeo notoriamente lassista sul piano fiscale», ma «anche tutte le vendite di Apple in Europa (e in Medio-Oriente, Africa e India) sono state versate sul conto delle due filiali irlandesi del gruppo. Molti Stati perciò possono reclamare parte del rimborso assegnato all’Irlanda»  [Cécile Ducourtieux et Anne Michel, «Apple doit régler 13 milliards d’euros avant le 31 décembre», Le Monde Éco&Entreprise, 08/10/ 2016, p. 4].

L’UE pone limiti alle multinazionali, ma non ha un governo per farli valere preventivamente. In un’asimmetria catastrofica, le imprese si fanno sempre meno concorrenza, gli stati sempre più. Le due cose si tengono, perché «il nazionalismo è questione di profitto, non di sentimento» [Dubravka Ugrešić, Europa in seppia, trad.it. Roma 2016, p. 12].

Spiegano gli economisti George Akerlof (Nobel 2001) e Robert Shiller (Nobel 2013): «“Quando i mercati sono totalmente liberi, la libertà di scelta si mescola con la libertà di imbrogliare, di manipolare. È vero che l’equilibrio sarà ottimale. Ma quest’ottimo corrisponderà non a ciò che desideriamo davvero noi, ma a ciò che desidera la ‘piccola scimmia’ sulle nostre spalle”, scrivono. Questa ‘piccola scimmia’ simbolizza la differenza tra ciò di cui abbiamo davvero bisogno e ciò di cui crediamo di aver bisogno e che il mercato vuole venderci a caro prezzo “raccontandoci delle storie”». «Robert Shiller evoca un nuovo “racconto” oggi dominante, “La paura di perdere il lavoro, vivere meno bene”. “Nata dalla mondializzazione, è aggravata da un’accelerata mutazione tecnologica: si teme di essere sostituiti da un robot, da un pc”». «I politici non ne parlano, semplicemente “perché non hanno soluzioni da dare! Preferiscono utilizzarne dei frammenti, per esempio erigendo muri contro l’immigrazione”» [Antoine Reverchon, «Robert Shiller, le “petit singe” et Donald Trump», Le Monde, 25-26/09/2016, p. 5].

In Europa, dice Pisani-Ferri, direttore di France Strategie, «“la distanza tra realtà e percezione è enorme”. I francesi hanno più degli altri paura della povertà, ma il loro tasso di povertà è tra i più bassi nell’UE. Ciò è tanto più importante perché il mondo occidentale, secondo Pisani, è in “grande regressione” con le menzogne di Brexit e il fenomeno Trump: “Il fact-checking su Trump non porta a nulla. Che si faccia fortuna in politica negando la realtà è impressionante e sta facendo scuola”» [Arnaud Leparmentier, «Les vérités qui dérangent», Le Monde, 22/09/2016, p. 22].

Eroso dall’esterno dalla corsa delle multinazionali al massimo profitto e all’interno da cittadini a caccia del massimo benessere, sfuggendo al fisco, lo stato nazionale «gira a vuoto, i rappresentanti non si sentono impegnati dalle parole della società e i rappresentati non si sentono impegnati dalle loro leggi. Il legame rappresentativo è rotto in quieta indifferenza. Quieta, ma forse ingannevole» [Dominique Rousseau, Radicaliser la démocratie. Propositions pour une refondation, Paris 2015, p. 29]. «Le risposte di un tempo, che hanno dato agli individui un senso di appartenenza comune, non funzionano più: Dio, Nazione, Stato, classi sociali» [p. 75]. I governi rappresentano sé stessi, manipolano le maggioranze e, nei casi peggiori, minoranze travestite da maggioranze.

Da manuale l’Ungheria. «Col referendum sull’accoglienza dei rifugiati Orban tentava di sostenere la sua visione e sperava di scatenare una serie di analoghi plebisciti in Europa. Dopo la più grande e controversa campagna di comunicazione nella storia ungherese, però, Orban ha fallito l’obbiettivo di attirare abbastanza votanti» [Patrick Kingsley, «Hungarians snub poll on EU refugee policies», the guardian, 03/10/2016, p. 1]. «Se l’Ungheria ha svolto un ruolo tradizionalmente minore nella politica europea, per ambizione Orban è diventato la voce guida del populismo in Europa. Il referendum di ieri era il suo nuovo tentativo di dare la svolta per un futuro europeo illiberale – e Orban dichiara il voto una vittoria “eccezionale”» [p. 11].

E lo UK di May? Al congresso conservatore a Birmingham il 2 ottobre, «“Le nostre leggi saranno fatte non più a Bruxelles ma a Westminster”, ha squillato la prima ministra, peraltro negando al Parlamento – dove i pro-europei sono largamente maggioritari – ogni voce in capitolo. I deputati hanno “messo nelle mani del popolo” la decisione su Brexit, “ora sta al governo portare avanti il lavoro”. Questo cortocircuito di Westminster da parte di un primo ministro non eletto ha fatto digrignare i denti non solo ai laburisti. E il suo ammonimento ai nazionalisti scozzesi (che vogliono restare nell’UE) che “non c’è ritirata possibile da Brexit» ha scatenato la collera del governo di Edimburgo» [Philippe Bernard, «Theresa May, championne du “Brexit dur”», Le Monde, 04/10/  2016, p. 2]. «Tutto ciò che May ha da offrire sono simboli, ma coi veri credenti i simboli sono moneta più potente di quanto gli agnostici abbiano mai capito». «Ai milioni che non hanno votato per Brexit il messaggio è chiaro: sarete tollerati, ma non aspettatevi di essere rappresentati» [Rafael Behr, «We are witnessing nothing less than a Tory reformation», the guardian, 05/10/2016, p. 35].

Dichiarando il 5 ottobre che «se vi sentite cittadini del mondo, non siete cittadini in nessun luogo» [«Verbatim», Le Monde, 07/10/2016, p. 6], Theresa May è poi in continuità con la sentenza di un tribunale «del Regno unito, il quale, nel ricorso Al-Skeini e altri deciso con la sentenza del 7 luglio 2011, ha sostenuto che l’applicazione della Convenzione europea [dei diritti dell’uomo del 4 novembre 1950] in Iraq avrebbe significato un ‘human rights imperialism’. Di fronte a una tesi così stravagante, da un punto di vista giuridico, e così cinica, sotto un profilo morale, ci sembra che la risposta più appropriata sia quella data dal giudice maltese Giovanni Bonello nell’opinione individuale annessa alla sentenza: “[…] È come se uno Stato ostentasse la propria insegna di banditismo internazionale, ma poi inorridisse per l’impressione di essere sospettato di promuovere i diritti umani» [Ugo Villani, Dalla Dichiarazione universale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Bari 2016, p. 159].

Dopo Brexit, in effetti, il governo britannico intende consentire alle proprie forze armate di ritirarsi in futuro dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e «la prima ministra ha detto che così si “porrebbe fine all’industria di ricorsi vessatori contro i combattenti dei conflitti precedenti”». Non è d’accordo il reverendo «Nicholas Mercier, già tenente colonnello e consigliere militare legale anziano della 1st Armoured Division nella guerra in Iraq. “L’idea che i ricorsi sono falsi è insensata. Il Ministero della Difesa ha già pagato oltre 20 milioni di £ alle vittime di abusi in Iraq. In totale 326 casi, un numero scioccante di abusi e un bel po’ di indennizzi. Chiunque sia stato coinvolto in ricorsi contro il Ministero della Difesa sa che ha pagato solo se il caso era eclatante o se voleva coprire qualcuno in alto» [Peter Walker and Owen Bowcott «Move to withdraw UK military from European rules on human rights», the guardian, 04/10/2016, p. 8].

Nessuna fiducia, lealtà, sincerità in mercati globali senza limiti e in stati nazionali impotenti che, nella loro asimmetria, ci rinchiudono in una stagnazione globale cinica e banditesca. Il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». È il frutto di sofferenze terribili e chi ne voglia la prova, in negativo, non ha che da guardarsi intorno. «Scriveva Giuseppe Capograssi nel 1950, in un celebre studio introduttivo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, “Non sono gli Stati, siamo noi stessi, che abbiamo la responsabilità della storia”» [Villani, p. 35].

Sta a  noi volere un governo europeo che, ponendo i limiti necessari al loro funzionamento, riapra i mercati, a cominciare da quello del lavoro, ci porti fuori dalla stagnazione e attui la Convenzione del 1950. Due facce della stessa medaglia, la storia continua.

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