Architettura e liturgia (itinerario 2023) – La basilica e chiesa parrocchiale di San Giorgio al Palazzo, in Milano


Per conoscere la storia e la vita attuale di una chiesa nella grande Chiesa universale e sentirsene eredi

Il nostro itinerario in chiese milanesi non risponde a logiche da visita guidata; è cammino per tappe che pone al centro la celebrazione della messa, arricchita dal canto del coro e dall’omelia, in luoghi per il culto cattolico, antichi o contemporanei, di viva presenza cristiana in Milano. Siamo interessati a cogliere i tratti di questa presenza, a condividerli, a situarci nella concretezza della sua storia, a entrare in sintonia con i suoi fattori di stabilità e di cambiamento, così come sono visibili oggi. Più al fondo, cerchiamo di ravvivare in ogni tappa, con immediatezza di partecipazione corale e persino con curiosità personale, il nostro senso di appartenenza alla grande Chiesa universale, percepito di volta in volta dentro una delle sue innumerevoli chiese incastonate in una delle città, la nostra, che della vitalità nei secoli della grande Chiesa sono testimoni.

Pur nella brevità delle distanze tra i luoghi del nostro itinerario ci facciamo dunque pellegrini, per ritrovare la nostra esistenziale condizione di viatores nella vita terrena verso la vita che avrà la sua sede definitiva nella Gerusalemme celeste o nella grande, luminosa rosa dei beati e degli angeli attorno a Dio, evocata da Dante nella sua Divina Commedia.

Ci è di grande aiuto, in questa presa di coscienza del legame tra cielo e terra già fin d’ora iniziato ma non ancora giunto a pieno compimento, la meditazione sul senso della liturgia, del contenuto proprio del culto pubblico che nella chiesa si celebra con regolarità e che rischiamo sempre di vivere troppo passivamente, senza vera partecipazione. Per questo le nostre tappe sono concepite come occasioni di intrecci tra storia dei luoghi e loro attuale vita liturgica e devozionale. In termini, lo abbiamo verificato nelle visite già condotte nel 2022, che non si ripetono di volta in volta meccanicamente. Iniziando con questa a San Giorgio a l Palazzo quelle del 2023, portiamo con noi la novità riscoperta dell’essere noi stessi, come comunità, chiesa nelle chiese fatte di muri in mattoni, in pietre, in cemento armato.

Marcantonio Dal Re, sec. XVIII, Vedute di Milano, San Giorgio al palazzo Collegiata

Questa chiesa di San Giorgio al Palazzo prospetta su una piazzetta aperta verso via Torino nel cuore del centro urbano. Presenta una facciata di forme classiche ben identificative per noi della funzione cui risponde. Il prospetto è infatti quasi un ‘manifesto’ dell’identità del luogo. Venne realizzato nel 1774 su progetto di Francesco Croce, ingegnere architetto attivo nella Veneranda Fabbrica del Duomo, trasformando ed esaltando in solenne plasticità chiaroscurale quello precedente, più sobrio: una liscia parete in mattoni con tre portali rinascimentali, dei quali il centrale sormontato da lunetta decorata.

Facciata attuale della basilica

Appena entrati, percepiamo uno spazio interno denso di storia nella complessa stratificazione muraria; l’ultima modifica fu frutto, tra 1800 e 1821, di un radicale intervento che voleva essere conservativo quanto più era possibile del precedente assetto barocco e che oggi riconosciamo come libera reinterpretazione stilistica, opera dell’architetto neoclassico Luigi Cagnola, personalità celebre alla quale si deve il milanese Arco della pace. Ai suoi lavori si collegarono, entro il 1899, l’aggiunta di un corto transetto, la conclusione del campanile medievale e la cupola neoclassica estradossata, una rarità in città, su progetto dell’ingegnere Alfonso Parrocchetti.

Interno della basilica, visto dall’ingresso

Lo spazio interno, nella pianta a croce latina con tre navate, transetto poco sporgente e profonda abside, ci risulta però familiare, persino un poco scontato ad un primo impatto come per un déjà vu, perché caratterizzato da spazialità e linguaggio dai tratti stilistici utilizzati dei nostri predecessori fino alla prima metà del secolo XX. Eppure, benché non altisonante per qualità, esso ci attrae per la sua intensità di storia e per una discreta armonia complessiva del lungo volume, intervallato dalla cupola neoclassica a cassettoni, con le figure dei Quattro Evangelisti nei pennacchi, e concluso nell’abside con lanterna che ospita il presbiterio con il pregevole altar maggiore barocco in marmi policromi. Interessato intorno al 2000 da opere strutturali per suo adeguamento ai canoni conciliari, esso è preceduto, davanti alla balaustra di delimitazione, da una pedana rivestita in marmo che ospita, al centro, la nuova mensa.

In un luogo di tanta complessità storica e formale è essenziale soffermarsi in un ascolto di sé stessi, delle nostre vibrazioni percettive sia stando seduti che muovendosi liberamente, osservando ogni particolare, visitando le opere d’arte nelle cappelle, soprattutto soffermandosi davanti al ciclo di affreschi cinquecenteschi con le Storie della Passione di Bernardino Luini, nella Cappella Corpus Domini. Partecipare alle celebrazioni liturgiche o pregare da soli, dopo che ci si è immersi in questa esperienza personale, ha un’intensità e una ricchezza di umanità altrimenti impensabile: perché la celebrazione liturgica e la preghiera si inscrivono nella dignità e nella bellezza di una dimora cristiana comunitaria, luogo di comunione di Dio con gli uomini aperto a tutti. Ci rendiamo conto di essere eredi di una straordinaria storia di cui siamo chiamati ad essere responsabili continuatori.

Ci è più facile allora comprendere anche la necessità di cura per questi luoghi, non come problema solo artistico e tecnico ma anche di fede. Qui, in San Giorgio, nel 2014 si è rinnovato l’adeguamento tecnologico dell’impianto di illuminazione; nel 2016 sono state avviate opere di consolidamento e restauro conservativo del campanile.              Maria Antonietta Crippa

Dipinto del Luini, sec. XVI, particolare

Le stratificazioni liturgiche nella basilica di San Giorgio al Palazzo

“Stratificazioni” è il tema guida del percorso di lettura delle prossime tre chiese in questo 2023. Il suo approccio non vuole essere “filologico” ma “liturgico”. Ovvero, non si guarderà agli aspetti e alle componenti della stratificazione delle chiese con sguardo esclusivamente storico, ma si cercherà di comprendere se e come uno spazio, concepito in un tempo passato, riesca ancora oggi a parlarci, possa essere compreso da noi e agire nel nostro attuale vissuto liturgico, nonostante che, col passare del tempo, il senso originario di alcuni suoi aspetti non sia più evidente per noi.

Occorre aver presente che non vi sono chiese che non abbiano subito questo processo, dal momento che il fenomeno dell’adattamento liturgico è un’esigenza che la Chiesa ha sempre avvertito e a cui ha sempre cercato di dare adeguate risposte. Nello stesso tempo, ogni determinato ambiente liturgico, progettato e costruito in preciso momento storico, mantiene comunque una “impronta” del tutto propria, una sua “specificità” che ne connota il vissuto liturgico in ogni tempo. Le successive stratificazioni, fin quando una chiesa viene abitata dalla comunità cristiana non risultano tracce inerti del passato, bensì stimoli attivi. Anche in modo sommesso, esse agiscono, talvolta interferiscono con l’esperienza attuale dello spazio continuamente connotando il vissuto liturgico e così riuscendo ad essere fonte di sensibilità spirituali antiche e nuove insieme.

Le chiese infatti sono state – e sono ancora adesso – luoghi in cui il vissuto liturgico genera e rigenera la vita della Chiesa, luoghi in cui la catechesi trova la sua fonte e espressione, in cui le sensibilità spirituali di ogni epoca si trasmettono nella loro origine e nel loro compimento. Si potrebbe arrivare a dire che il tesoro della Tradizione ha un proprio luogo eletto proprio nelle chiese, nelle loro molteplici e variegate stratificazioni.

In virtù della sua lunga storia, la basilica di San Giorgio Palazzo raccoglie in sé molte stratificazioni; ne sono segni evidenti gli elementi architettonici antichi che gli ultimi restauri evidenziano esattamente in modo “stratigrafico”, facendoli emergere, grazie allo “scavo” di alcune pareti. Le sue molte stratificazioni ci permettono di riflettere sul tema dell’adeguamento il quale, ogni volta, dipende da “riforme liturgiche”. Ma queste non individuano semplicemente una decisione dall’alto di modifica degli usi, manifestano invece anche un cambiamento in atto concretamente ratificato dalle stesse.

Vi è una lunga catena di “riforme” nella storia della Chiesa. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, esse sono iniziate agli albori del Cristianesimo: nel I secolo d.C. la prima comunità cristiana scelse di passare da un assetto “ebraico” di liturgia, probabilmente in lingua aramaica e comunque legato strettamente alla preghiera ebraica, ad uno che abbracciava lingua e stile della koiné greca. I vangeli testimoniano in modo evidente questo passaggio: dopo una prima testimonianza apostolica di matrice e di lingua semitica, la comunità cristiana scelse infatti il greco per favorire la traducibilità del messaggio evangelico nel contesto culturale dell’epoca.

Successivamente si produsse un seguito di “riforme”: in Occidente, per esempio, nel IV secolo con papa Damaso si passò dal greco al latino e si scelse una forma rituale rispondente alle esigenze del al contesto romano; in seguito ci si avvicinò alla cultura dei popoli cosiddetti “barbari”, poi a quella carolingia e così via nel corso di quasi due millenni fino ad arrivare all’ultimo passo: la riforma liturgica del Concilio Vaticano II del 1962-1963.

Si è però già fin d’ora aperto il problema di adeguamenti liturgici successivi al Vaticano II; si tratta anzi di una questione molto sentita anche perché, si dice, spesso quelli collegati all’ultimo concilio non sono riusciti: risultano sciatti, non rispettosi dell’esistente, ‘brutti’… Si accusa la stessa riforma del Vaticano II di esserne causa; sempre più spesso, specialmente negli ultimi tempi, si crede di poter risolvere il problema ad esempio tornando a celebrare “voltando le spalle” al popolo dei fedeli …

Al contrario, io credo non solo possibile ma anche doveroso sia accogliere la sfida che essa ha proposto sia affrontare un conseguente e coerente adeguamento, perché ritengo che alla radice delle incomprensioni e degli errori vi sia una mancata consapevolezza dei diversi “livelli” del tema. Innanzitutto la riforma liturgica e l’adeguamento che ne discende non sono, si potrebbe dire, che a metà del loro svolgimento per una motivazione molto evidente. Nota giustamente Paul de Clerck: “la liturgia è fondamentalmente un fatto corporeo: ora il corpo è molto più conservatore dello spirito”[1]. Come è inevitabile infatti, i gesti del rito tridentino, tramandati dalle generazioni precedenti, sono stati assunti inconsapevolmente da noi.

Nonostante la positiva affermazione della riforma dei testi e dei riti, essi influiscono tuttora molto sul vissuto liturgico postconciliare. Si deve pertanto acquisire consapevolezza che, perché un adeguamento sia “liturgico” come indica l’etimologia, occorre innanzitutto adeguare l’“ergon”, l’azione, la qualità cioè degli atti. Più precisamente, celebrare, dopo il Vaticano II, richiede maggior profondità di coscienza nelle azioni rituali, occorre non solo ritenere fondamentale il significato teologico dei gesti, ma anche considerare teologale l’azione liturgica stessa in quanto esperienza di Dio.

Per questo motivo si dovrebbe prestare attenzione in primo luogo, come scrisse Guardini, alla “formazione liturgica”. Egli affermò negli anni sessanta del secolo scorso: “Il Concilio ha posto le basi per il futuro – e come questo evento si sia verificato e abbia comunicato verità rimarrà per sempre un esempio tipico dell’operare dello Spirito Santo nella Chiesa-; ora però si pone la questione del punto in cui debba prendere avvio il lavoro, affinché la verità conosciuta divenga la realtà. Naturalmente assume urgenza una coppia di questioni, rituali e testuali […]. Ma di che cosa si tratti soprattutto, mi sembra sia qualcosa d’altro, vale a dire la questione dell’atto di culto- in termini più esatti, dell’atto liturgico. Se vedo bene, l’uomo tipico del diciannovesimo secolo non era più capace di quest’atto, anzi non ne ha più avuto cognizione. […] Se deve essere attuata l’intenzione del Concilio, allora è necessaria una giusta istruzione ma anche un’autentica educazione, esercizio, mediante il quale l’atto è appreso”[2].

Da questo dipende direttamente, ritengo, la riforma rituale e l’adeguamento liturgico degli spazi. Lo stesso parlarne dovrebbe essere sempre essere correlato a una riflessione sulla natura e sulla qualità degli atti liturgici. In concreto, il Movimento Liturgico ha sperimentato “adeguamenti” entro il contesto di un rito precedente ad essi ma dando grande attenzione alla natura del vissuto liturgico; è questo il modo con il quale ha aperto la strada alla riforma del Vaticano II (caso emblematico al riguardo può essere ritenuto l’adeguamento della cappella nel castello di Rothenfels, luogo molto importante per Guardini e per l’intero Movimento Liturgico tedesco).

Oggi, invece, siamo spesso tentati di capovolgere, in un certo senso, la situazione: puntiamo a partecipare a celebrazioni col nuovo rito ma con “ri-adeguamenti” che in sostanza guardano ancora al suo assetto precedente. Questo accade perché ci accontentiamo di modifiche estrinseche alla nostra coscienza del senso del rito e della chiesa. Ma non basta per adeguare collocare nella chiesa un nuovo altare-mensa, così come non basta eliminarlo per tornare a celebrare sull’altare a dossale quando si deve risolvere un problema difficile. Se non si comprende che l’adeguamento liturgico degli spazi deve tenere insieme tutti i livelli (rituale, estetico, ecclesiale, storico) in modo armonico, esso risulterà sempre inadeguato.

Nella maggior parte dei casi un adeguamento buono è possibile. Qualora, in casi estremi, ci si rendesse conto che una chiesa non può essere adeguata in modo soddisfacente, è meglio persino non celebrarvi più o valutare cosa sia possibile ancora celebrarvi. Non bisogna forzare un luogo ad accogliere qualcosa di nuovo, così come non bisogna costringersi al passato rinunciando a partecipare a ciò che oggi vive. Gli spazi custodi insieme del sacro e dell’umano, come sono le chiese, possiedono una vitalità che va protetta e coltivata con la frequentazione. Perché sono Chiese vive, appunto.                                                                                      Girolamo Pugliesi

Veduta dall’alto della basilica

[1] P. De Clerck, Principali acquisizioni del convegno e nuove prospettive, in AA.VV., Spaio liturgico e orientamento, Qiqajon, Magnano 2007, p. 245.

[2] R. Guardini, L’atto di culto e il compito e il compito attuale della formazione liturgica [lettera scritta da Guardini nel 1964, in occasione del III Congresso Liturgico di Magonza], in Id., Formazione Liturgica, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 27-28.33.

 

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