Architettura e liturgia (itinerario 2023) – La basilica di Sant’Eustorgio, in Milano


Dal Re MarcAntonio,1697-1766, Vedute di Milano, S. Eustorgio

 

Tracce di storia cristiana nel sito e nelle sue architetture

Pensando al nostro incontro in questa basilica, mi ponevo il problema di come aiutarci a percepirne l’accoglienza nella penombra che la caratterizza, senza però perdere la sua straordinaria stratificazione di fasi storiche che i restauri del XIX secolo hanno attutito, dandole un’aura di omogeneità che ci orienta a concepirla come classica architettura romanica del XII-XIII secolo. Per aver cognizione concreta, veritiera, della complessità di questo luogo, dell’intreccio nel tempo di eventi tra loro molto diversi e quindi delle loro tracce depositate nelle pietre, è indispensabile che ognuno di noi, guidato da un racconto puntuale, dia tempo adeguato ad una conoscenza fatta di notizie lette e di sguardi educati a vedere, a memorizzare, a valutare. Non illudiamoci che sia possibile prescinderne, l’approfondimento conoscitivo è indispensabile per comprendere lo stratificarsi qui di forme d’arte ed anche di vita liturgica e devozionale nel corso ormai di circa un millennio, quasi due anzi per alcune componenti archeologiche.

Pertanto, il breve momento che qui viviamo insieme ha un valore solo introduttivo da due importanti punti di vista: quello storico-artistico e quello liturgico. Esso risulta però esaltato, reso più che mai intenso dalla celebrazione eucaristica e dai canti del coro che ci accingiamo a celebrare tra poco. É un momento breve ma grande nella sua nobiltà, perché inserito nella nostra attuale esperienza di senso del sacro e di partecipazione al mistero dell’Incarnazione e della nostra Comunione in Gesù Cristo di cui ci dà certezza la Chiesa.

Nel suo insieme è infatti un momento di memoria che si fa anche vita cristiana oggi viva e di tradizione di fede che nell’azione liturgica si fa Presenza tra noi. É essenziale non perdere questa consapevolezza tenendo strettamente connessi passato e presente di questo luogo. Per questo ci sono indispensabili per ora solo alcune coordinate storiche che ci abituino ad una familiarità con il suo spazio, le sue forme e i suoi segni, ad un senso di appartenenza reciproca tra loro e noi, facendoci sentire abitanti, ospiti non occasionali di una gloriosa dimora cristiana.

La basilca di S. Eustorgio dalla piazzetta

Siamo a sud di Milano, posizionati lungo un asse viario strategico già in epoca romana poiché collegava la nostra città con Pavia ed era in direzione per Roma. Resti di una necropoli pagana e cristiana, qui rinvenuti, collegano un primo edificio cultuale a Eustorgio I, vescovo di Milano nel IV secolo. Molto più tardi sono però i documenti che lo riguardano in epoche successive. All’XI secolo risale un primo edificio romanico, che contrassegna tuttora l’area absidale e la planimetria generale, ristrutturato forse dopo la devastazione del Barbarossa alla quale è collegato il furto delle reliquie dei Re Magi, qui custodite, portante in area tedesca, a Colonia. In questa basilica si insediarono nel XIII secolo i frati domenicani, che le agganciarono un vasto convento – i due chiostri pervenutici ospitano ora il Museo Diocesano – e la suddivisero nettamente all’interno con un alto muro, detto lectorium. Esso isolava la comunità monastica in preghiera, visibile solo da piccole aperture, e lasciava i fedeli nell’area esterna dotata di altari di modeste dimensioni per il culto. Nel 1234 il convento divenne sede di un tribunale dell’Inquisizione guidato, dal 1251, dal frate Pietro da Verona protagonista di una dura opposizione all’eresia catara, diffusa in città e dintorni. La sua morte a Barlassina, poco a nord di Milano, per mano di un eretico, la sua immediata canonizzazione e la sepoltura in questa basilica, la resero luogo di culto tra i più venerati.

Interno della basilica, visto dall’ingresso

Per questo divenne oggetto di decori e abbellimenti da parte delle principali famiglie cittadine che divenne consuetudine; la più celebre fra tutte è quella del XV secolo per Pigello Portinari, opera di Antonio Solari e del Filarete. Essa proseguì, senza interruzioni, con la realizzazione di molte cappelle gentilizie fino al XVII secolo, nonostante il declino di questo convento domenicano che portò al trasferimento del tribunale nel Quattro-Cinquecento in quello connesso alla basilica di S. Maria delle Grazie. Alle scarne notizie storiche così riassunte corrispondono capolavori d’arte – in pitture, rilievi a stucco e marmi scolpiti – che trasmettono una religiosità vivissima per secoli in tutti i ceti sociali lombardi mentre documentano anche un insieme di preziose capacità artigianali di cui siamo eredi, tuttavia oggi troppo inconsapevoli. L’arte, i lavori manuali e le devozioni hanno infatti stretto da secoli, nella nostra cultura cristiana, un’alleanza stupefacente cui non erano estranee né la preghiera né la musica. Anche in questa chiesa è stato necessario un adeguamento liturgico che avrebbe potuto essere più armonico con il contesto preesistente.

Oggi il grande complesso architettonico di Sant’Eustorgio appare dall’esterno integrato senza soluzione di continuità con la città; è anche l’estremo lembo dell’importante Parco delle Basiliche il cui confine è segnato dal suo campanile di 75 m., il più alto della città con l’orologio pubblico più antico d’Italia e con una stella a otto punte sulla cima, che ricorda la cometa guida dei Re Magi. Nei sotterranei del cortile dell’edificio affacciato sulla piazza sulla quale prospetta la basilica, dal lato opposto a quello dell’ingresso al primo chiostro, è ancora visibile l’antico fonte battesimale, detto di San Barnaba poiché si tramanda che il santo battezzò qui i primi cristiani milanesi.          Maria Antonietta Crippa 

Stratificazioni visibili e non visibili nella basilica

Nella basilica di San Giorgio al Palazzo abbiamo potuto notare delle stratificazioni aventi soprattutto la forma di sovrapposizioni; lì la nostra lettura, pertanto, è stata simile a un ‘carotaggio’.

In questa chiesa, invece, ci troviamo in un ambiente (la navata centrale) in cui apparentemente non sembrano esserci sovrapposizioni e in cui lo spazio sembra rimasto perlopiù inalterato nel suo impianto medievale (grazie ai restauri del XIX secolo orientati a far riemergere in modo chiaro le forme medievali). Ci troviamo quindi in assenza di stratificazioni significative? Credo di no. Al contrario, il fatto che non siano visibili, rende le stratificazioni forse ancora più efficaci. Mi pare che sia possibile individuare come operanti, in questa chiesa, due tipi di stratificazioni:

  • stratificazioni per ‘risemantizzazione’
  • stratificazioni per ‘rimozione’

1) Con la locuzione ‘stratificazioni per risemantizzazione’ intendo le rivalorizzazioni successive: gli elementi architettonico-liturgici (ma anche rituali) ereditati non vengono materialmente modificati, ma, in relazione ad un nuovo contesto teologico-liturgico e culturale, si attribuisce ad essi un diverso significato o un’altra ‘funzione’ rituale. Questa chiesa, proprio in virtù del fatto che nei secoli ha mantenuto l’impianto medievale, ha consentito numerose risemantizzazioni dell’edificio liturgico in quanto tale; a titolo di esempio, potremmo elencare, semplificando: nel medioevo era principalmente luogo della presenza di Dio, dopo l’anno Mille luogo del culto legale a Dio e della devozione personale (in questa chiesa resa molto evidente dalla venerazione del corpo di San Pietro martire nella cappella Portinari e dalle stupende capelle gentilizie aggiunte sul lato meridionale della chiesa), nel post-tridentino luogo eminente del sacrificio incruento, dopo il Vaticano II luogo dell’assemblea liturgica riunita con il Cristo. Lo spazio liturgico fonda e giustifica tutte queste interpretazioni e nessuna di queste è sbagliata o cancella le altre; ma l’emergere di ciascuna di queste visioni ha comportato la reinterpretazione dell’esistente, rivelando, nello stesso tempo, come lo spazio liturgico sia capace di essere forma di tutte queste esperienze e interpretazioni, e, più radicalmente, di generarle. Ogni nuova interpretazione della liturgia e dello spazio liturgico nasce, infatti, da un nuovo modo di vivere i riti e gli spazi. Questa possibilità di rivalorizzazione vale sempre sia per gli spazi rituali, così come per i riti. A riguardo, gli esempi nella storia della liturgia sono tanti; ne cito soltanto due, di cui uno attinente al rito e uno relativo allo spazio liturgico:

  1. Il miscelare vino e acqua nella preparazione dei doni nasce da una consuetudine diffusissima nell’antichità: il vino puro (merum) non veniva consumato in purezza, ma veniva sempre previamente mescolato con acqua, e così avveniva anche durante la celebrazione eucaristica. Questo gesto nel corso del tempo ha assunto un valore teologico-liturgico, in riferimento alla natura divino-umana di Gesù e al senso complessivo del rito eucaristico come divinizzazione dell’uomo, nello scambio tra umano e creaturale e divino[1]. In sintesi, questo uso è stato risemantizzato in chiave cristologica.
  2. Le balaustre vennero introdotte nelle aule liturgiche per delle finalità pratiche: “Per prima cosa era necessario tutelare gli oggetti sacri: l’altare più importante, la sepoltura venerata, la cattedra episcopale, la vasca battesimale. Quindi occorreva assicurare uno spazio adeguato ai fedeli e ai gruppi selezionati di devoti; in maggior misura era fondamentale rendere razionale l’azione dei protagonisti dei riti sacri, ossia il vescovo-presidente dell’assemblea e il clero. Infine, bisognava garantire un’unione funzionale tra i celebranti e i fedeli che secondo le esigenze liturgiche pratiche, consentisse ai ministri del culto di non essere ostacolati dagli spostamenti della folla. La connessione di queste diverse necessità fu stabilita impiegando utilmente cancelli, transenne (a lastra forata) e plutei (a lastra piena)”[2]. Con il passare del tempo, le transenne da strumenti destinati a consentire una celebrazione ordinata, acquistarono un sempre più forte valore teologico ed ecclesiologico di separazione del presbiterio dalla navata e, quindi, di separazione del clero dai fedeli laici, e assunsero così la forma di balaustre.

2) La brevissima analisi del caso delle balaustre ci permette di passare alla seconda forma di stratificazione, quella che ho denominato ‘per rimozione’. In questo tipo di stratificazione, il nuovo strato viene posto non aggiungendo bensì eliminando qualcosa che precedentemente era evidente, dal momento che nella fase successiva viene ormai percepito come superfluo o ‘ingombrante’. È stato così per gli amboni monumentali medievali, smontati nelle epoche successive, ed è stato così anche dopo il Vaticano II con la rimozione delle balaustre dalle chiese che avevano un assetto preconciliare.

Questa chiesa di Sant’Eustorgio nel XIII sec. era stata dotata di un jubé o lectorium, ossia un pontile-muro, che suddivideva di fatto la chiesa in due parti, separando il coro dei frati domenicani dallo spazio riservato ai fedeli laici, e ostacolando, così, almeno in parte, la visione della celebrazione e dell’ufficio ai laici pur presenti alla celebrazione.[3]

Il lectorium deriva, come le balaustre, dalle transenne, includendo molto probabilmente anche il modello delle iconostasi ortodosse (non è un caso, infatti, che inizino a diffondersi in Europa specialmente a partire dal periodo delle crociate). Non è difficile immaginare come dovesse essere sensibilmente diverso il vissuto liturgico quando il lectorium non era stato ancora rimosso. Ora, in questa chiesa la rimozione del lectorium – dal momento che è avvenuto sulla base della nuova sensibilità liturgica sorta con l’epoca moderna[4] – non è stato un semplice ritorno ad una forma basilicale precedente, ma ha costituito la sovrapposizione di un nuovo strato. Pertanto, è stato aggiunto un nuovo strato liturgico, rimuovendo.

Quando, poi, dopo il Vaticano II si è tolta la balaustra, che era stata nel frattempo aggiunta nell’area antistante l’altare maggiore, e l’altare è stato posto più avanti, ecco che un ulteriore nuovo strato si è aggiunto, tornando, sì, ad una spazialità più semplice, ma sulla base di una nuova o rinnovata sensibilità. In sintesi, in questa breve riflessione ho cercato di porre l’attenzione su un aspetto non marginale del processo storico di adeguamento liturgico e di stratificazione dei vissuti liturgici: essi non si realizzano soltanto attraverso aggiunte o per accumulo, ma anche risemantizzando elementi esistenti e, spesso in modo più potente, rimuovendo. Oggi, porre attenzione a questo aspetto ci permette di interrogarci sulla logica e sulla prassi della ‘semplificazione’ (riguardo sia agli adattamenti sia alla progettazione di nuove chiese). Spesso si crede che semplificando, ovvero rimuovendo ciò che si reputa essere superfluo, si torni ad uno stato più originario e autentico, sebbene in realtà si aggiunga comunque un nuovo ‘strato’: se ciò è realizzato in modo adeguato e consapevole, si riesce a compiere una ‘ripresa’, in grado di restituire piena vitalità ad un aspetto rimasto latente e si giunge così a collegarlo vitalmente col presente. In caso contrario, si aggiunge inconsapevolmente soltanto un nuovo strato: si intende semplificare e, invece, si finisce per complicare.                               Girolamo Pugliesi

[1] Cf V. Raffa, Liturgia eucaristica, CLV, Roma 2003, pp. 396-398.
[2] G. Liccardo, Architettura e liturgia nella Chiesa antica, Skira, Milano 2005, pp. 166-167.
[3] Per un approfondimento sulla storia del lectorium della chiesa di Sant’Eustorgio rimando all’articolo molto puntuale C. Travi, Antichi tramezzi in Lombardia: il caso di Sant’Eustorgio, «Arte Lombarda», 158/159 (1-2) (2010), pp. 5-16. http://www.jstor.org/stable/43106460.
[4] «Come ben noto agli specialisti, ma ancora poco al largo pubblico, uno dei principali rinnovamenti degli edifici ecclesiastici messi in atto in Italia nel XV e XVI secolo fu senza dubbio lo smantellamento dei tramezzi eretti in epoca medioevale», ibidem, p. 5.
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