Vederci chiaro, o almeno meglio (con post scriptum)


Uscire dalla confusione si può, se si vuole.

Le grandi migrazioni che ci fanno sentire impotenti riproducono la secolare esperienza italiana che Costantino Ianni, studioso brasiliano figlio di italiani, ha documentato fin dal 1963 in Homens sem paz [trad.it. Il sangue degli emigranti, Milano 1965]. «L’emigrazione è uno dei molti problemi che di solito non vengono studiati con serietà e obiettività, e ponendosi dal punto di vista degli interessi umani e sociali dei milioni di persone che, direttamente o indirettamente, vi partecipano. E ciò avviene perché intorno all’emigrazione si sono costituiti e di essa vivono interessi che qualche volta si confondono con quelli dello Stato, abbastanza potenti per imporre limiti alla libertà di coloro che conoscono la verità e potrebbero divulgarla. Perciò la verità, cioè i fatti e i rapporti che li legano e danno ad essi significato, sono meno noti di certi luoghi comuni del tutto falsi, come quello secondo cui certi paesi non possono fare a meno dell’emigrazione perché hanno eccedenza di popolazione … Gli stessi emigrati e i loro discendenti – centinaia di milioni di persone d’ogni paese – ignorano cosa c’è veramente dietro l’emigrazione, la quale, come è stato ampiamente dimostrato, in modi diversi è stata una specie di commercio di uomini» [pp. 13-4].

«Ma i centri di emigrazione – nell’ottobre del 1955 abbiamo visitato quello di Milano, in piazza Sant’Ambrogio – continuano a operare come un mercato nel quale il governo italiano offre allo straniero il frutto dell’”esuberanza demografica” del paese, in condizioni che ci rammentano le parole di Luigi Einaudi, scritte a commento delle leggi fasciste del 1931 regolanti le migrazioni interne: “Ho vivo il ricordo di un libro sulla schiavitù dei negri, nel quale l’incisione riproduce il negriero, il quale palpa le carni e guarda in bocca ai prigionieri africani destinati all’imbarco come schiavi, per assicurarsi se siano sani ed a quale mestiere atti”…» [p. 19].

Ci sono volute la dichiarazione universale ONU dei diritti dell’uomo del 1948 e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 per chiarire a tutti che non ci sono schiavi o liberi, ma esseri umani. Il cui commercio, oggi sul libero mercato globale, massimizza però i profitti come pochi altri, inclusa la droga, che va prodotta e distribuita, mentre gli esseri umani, in cerca di dignità e salvezza, basta intercettarli e gestirli a profitto di azionisti privati e pubblici, illegali e legali.

Meno forte dei diritti umani, il denaro è in sé una potente leva d’azione. Come acqua irrora affari buoni e malvagi, ma fa disastri se il suo corso non è regolato. The Economist ci aggiorna sul «The barbarian establishment». «Il capitale privato [extra banca e borsa] ha prosperato mentre quasi ogni altra tecnica di business ha avuto problemi. Cosa buona e preoccupante insieme». «Le procedure operative del capitale privato – comprare imprese, far debiti, minimizzare le tasse, tagliare i costi (e strutture e posti di lavoro), ricavarne grosse commissioni – sono proprio quelle che più attizzano la collera popolare contro la finanza». «Secondo Preqin, centro di ricerca basato a Londra, nel 1980 le imprese private-equity erano 24. Nel 2015 6.628, di cui 620 fondate nell’anno» [October 22nd-28th 2016, p. 15]. «Strutture che distorcono i benefici a pro dei privilegiati sono sempre soggette alla collera popolare. Ma questa potenziale vulnerabilità è anche una fonte di forza. Raccogli i soldi dai grandi ricchi e dai fondi pensione statali e municipali, dai fondi sovrani e dalle università ricche, e avrai molta influenza» [p. 18].

Così è, da molto tempo. «Cruciale è l’interrelazione tra ineguaglianza e politica. L’ineguaglianza economica è un motivo fondamentale di preoccupazione perché le concentrazioni di benessere e reddito convogliano potere politico e influenza. È famosa la battuta di Mark Hanna, senatore USA ottocentesco, che “ci sono due cose importanti in politica. Primo il denaro, e non riesco a ricordare la seconda”. La crescita dell’ineguaglianza di reddito post-1980 ha rafforzato l’opposizione alla redistribuzione e l’appoggio a politiche economiche, come la liberalizzazione di mercato, che contribuiscono alla ineguaglianza: è in atto un processo cumulativo» [Anthony B. Atkinson, INEQUALITY. What can be done?, Harvard University Press, 2015, p. 305].

Ma la storia ci dice che è l’eguaglianza a funzionare. «La conquista di una società meno ineguale nella seconda guerra mondiale e nei successivi decenni non è del tutto persa. A livello globale, la grande divergenza tra territori del mondo, connessa alla rivoluzione industriale, si sta chiudendo. È vero che dal 1980 abbiamo visto una “svolta di ineguaglianza” e il secolo ventunesimo porta le sfide dell’invecchiamento demografico, del cambiamento climatico e degli squilibri globali. Ma le soluzioni a questi problemi sono nelle nostre mani. Se abbiamo la volontà di usare l’attuale maggior benessere per affrontare queste sfide, e accettare che le risorse debbano essere ripartite in modo meno ineguale, abbiamo senza dubbio motivo di ottimismo» [p. 308].

La libera circolazione di persone e beni ha fatto superare il grande divario e aperto la via politica a una maggiore eguaglianza globale, ma la malizia (di alcuni) e l’ignoranza (di molti) l’ha trasformata da mezzo a fine, in una stagnazione globale che, nata dalla speculazione finanziaria, è cresciuta per l’impossibilità politica degli stati nazionali di promuovere l’eguaglianza, perché «l’implicito legame tra allocazione di fondi, investimenti e lo stato crea terreno fertile per la corruzione e il capitalismo clientelare» [The Economist, cit., p. 17]. Il superamento della grande divergenza di sviluppo tra Europa/Occidente e resto del mondo, prima mistificata come fatto culturale e etnico, genera mutamenti globali che mettono fuori gioco gli stati nazionali, chiusi nei loro confini e interessi, inclusi gli USA, che in questo si sono oggi ricongiunti all’ex-partner-antagonista URSS.

Trump «ha subito attirato il voto dei bianchi della classe media e bassa, che appunto sentono il Paese sfuggire loro di mano. […] Il voto di ieri, quindi, è diventato davvero l’ultima occasione per questo gruppo di imporsi e decidere la Casa Bianca. È difficile, se le tendenze demografiche in corso continueranno, che l’operazione possa ripetersi fra quattro anni. Nel frattempo, però, se la presidenza andrà a una persona decisa dai bianchi, e non ci saranno tentativi seri di tendere la mano alle minoranze, le violenze che abbiamo visto dopo Ferguson col movimento “Black Lives Matters” diventeranno solo l’inizio di una instabilità che rischia di durare a lungo» [Paolo Mastrolilli, «La demografia cambia gli Usa. Per i bianchi l’ultima occasione di decidere il Presidente», LA STAMPA, 09/11/2016, p. 5].

Oggi il pivot è l’Europa col suo progetto di pace, dopo due guerre mondiali e una fredda. La sua unione politica esiste da «quando, a partire dal 1938, la Germania impone la sua egemonia all’intera Europa con la sua potenza economica e militare, essa trova dovunque, tra i poteri in carica e le forze sociopolitiche tradizionali, persone pronte a collaborare con i suoi dirigenti alla organizzazione del nuovo ordine europeo (in realtà germanico e nazista)» [Yves Durand, Il nuovo ordine europeo. La collaborazione nell’Europa tedesca (1938-1945), trad.it. Bologna 2002,  p. 221]. «Nell’ora in cui un diverso ordine europeo prende forma, nuovamente accompagnato per molti dalla speranza della scomparsa definitiva del comunismo, ci auguriamo che gli europei di oggi non dimentichino, dopo due generazioni, che in nessun caso il progetto hitleriano degli anni quaranta può essere ritenuto un modello precursore, né coloro che accettarono di collaborarvi, in un modo o nell’altro e più o meno a lungo, possono essere considerati alla stregua di esempi da seguire» [p. 225].

Come e non se noi europei ci uniamo politicamente è la questione-chiave, non solo per noi, perché il ritorno nel mondo di movimenti neonazisti e governi autoritari conferma la lezione appresa a costi disumani nell’Europa nazista del 1943: il rifiuto «di uno stato di cose basato sulla unificazione coattiva di una società disorientata e atomizzata, e sulla conseguente oppressione dell’individuo» [Burleigh, Il Terzo Reich. Una nuova storia, trad. it. Milano 2003, p. 766].

Il futuro oggi si costruisce in Europa, da tre generazioni unita dalla sua stessa storia. Per inciso, col favorevole auspicio di Brexit, problema che con la presidenza Trump evita quello ben più grave di un insider costretto a giocare tra due sponde.

 PS. Movimentatissimi, il curriculum imprenditoriale e la piattaforma elettorale di Trump hanno il solo punto certo dell’incontenibile bisogno di denaro, anche perché le tasse ai ricchi diminuiranno. Un dollaro svalutato e un debito federale in crescita esporteranno molti problemi. Ma ci vuole chi paghi e l’Europa è la più ricca dopo gli USA. Invece del trattato di libero scambio transatlantico si profila un fronte anglo-americano-europeo di governi populisti, democrazie illiberali che fabbricano con ogni mezzo maggioranze da scagliare contro minoranze emarginate per averne i beni e distrarre l’attenzione dalle promesse non mantenute. Come già il nazismo, a opera di movimenti neonazisti. Rimarremo padroni di noi stessi se, nell’area euro, ci daremo finalmente un vero governo europeo, pagandone i costi anche della difesa e sicurezza, con le risorse che un ormai dubbio alleato vuole in nome di interessi comuni che di comune hanno solo il nazionalismo aggressivo. Il rapporto speciale angloamericano, e con Putin, oggi sta in un’Europa divisa e manipolabile.

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