Festa di congedo per Elmar Salmann a Sant’Anselmo


La mattina del 3 marzo 2012 si è svolta a Sant’Anselmo sull’Aventino in Roma la festa per il congedo del prof. Elmar Salmann, dopo 30 anni di insegnamento presso l’Ateneo anselmiano e presso l’Università Gregoriana. Ecco uno dei saluti che gli sono stati indirizzati


Il romanzo della teologia:
 piccolo glossario salmanniano

Non ho altra pretesa che raccontarvi – alla mia maniera – il modo del tutto straordinario con cui il nostro docente e collega prof. Elmar Salmann, dell’ordine di S. Benedetto, ha saputo fare teologia nella forma di un romanzo sempre molto avvincente ed è riuscito a trarre dal suo modo di “raccontare le cose divine” una teologia appassionata e appassionante. Egli ha affrontato l’impresa teologica con un piglio del tutto particolare, singolarissimo e sorprendente. Cosi ha saputo attestare in modo efficacissimo la possibilita’ di una teologia elegante come una sonata di Mozart e avvincente come un romanzo di Dickens. Sarà anzitutto una galleria di personaggi – piu o meno strettamente legati al suo lavoro e al suo pensiero – ad accompagnarci in questa piccola riconsiderazione del modo speciale di teologare e di insegnare che P. Elmar Salmann ci ha offerto in tutti questi anni.

I. Prima parte: una galleria di “imagines”

Anzitutto, per un uomo tedesco come P. Elmar, mi ispirerò a un grande tedesco come W. Benjamin, che ha scritto sui tedeschi un libretto tanto gustoso dal titolo Deutsche Menschen, “Uomini tedeschi” (=UT). In questo libro Benjamin ospita lettere di grandi personaggi della cultura tedesca del 700 e 800, dalle quali scaturiscono aspetti sorprendenti e impressionanti della loro personalità. Useremo alcune di queste lettere per capire meglio il pensiero e la parola di E. Salmann, ponendoci quasi davanti a una serie di “imagines” di tradizione sallustiana. Lo stile di Salmann apparirà meglio alla luce di queste imagines.

A) Lo sguardo sapienziale e la sprezzatura verso il progresso. Lasciamo la parola a Goethe che scrive a Zelter nel 1832:

“Ricchezza e velocità è ciò che il mondo ammira e verso cui ognuno tende. Strade ferrate, poste rapide, navi a vapore e tutto quanto può facilitare la comunicazione sono le cose di cui il mondo istruito va in cerca per sovraccaricarsi di istruzione e quindi rimanere fermo nella mediocrità…E’ proprio il secolo per le teste capaci, per uomini pratici e di intelletto pronto, i quali, forniti di una certa destrezza, sentono la propria superiorità sulla massa, pur non ssendo loro stessi dotati per quel che c’è di più elevato. “ (UT 11-12)

Questo è un primo luogo comune della prosa salmanniana: un certo distacco, quasi una forma di disagio della civiltà, del progresso, senza troppa nostalgia, ma con una certa chiaroveggenza circa i limiti della esperienza che diciamo “contemporanea” o “attuale”. La teologia di Salmann ha la attualità della inattualità, non solo nella teoria, ma anche nella pratica del computer, usato come macchina da scrivere, e nel rifiuto – direi ideologico – del telefonino e della posta elettronica, dai quali il nostro collega si è sempre difeso sine intermissione.

B) Di qui viene il secondo aspetto che vorrei mettere in luce con un’altra curiosa citazione. Essa riguarda l’esercizio di una critica lineare, diretta, ispirata, che troviamo qui esemplificata dalla contestazione che a Immanuel Kant fece, nel gennaio del 1795, Samuel Collenbusch, quando con una sorprendente franchezza, tutta pietista, scriveva queste parole allo stesso Kant:

“L’estate scorsa mi son fatto leggere un paio di volte la Sua etica e la Sua religione, ma non posso convincermi che Ella pensi sul serio quanto ha scritto. Una fede del tutto priva di ogni speranza e una morale del tutto priva di ogni amore è uno strano fenomeno nella repubblica dei dotti.” (UT 32)

Ci sorprende una tale franchezza. Ma non è forse questo uno dei registri più tipici, più efficaci e più disarmanti, della parola e della prosa salmanniana? Non vi è nella sua analisi del pensiero, dei fenomeni culturali, delle tendenze teologiche, dei tic di una civiltà, una grande spregiudicatezza che deriva proprio dal più grande distacco da ogni accademismo formale e di maniera?
Un grande pietista insoddisfatto, come Collebusch, solleva una critica al più pietista dei filosofi. Se lo ascoltiamo ancora per un poco, come possiamo non riconoscervi l’eco lontano di una caratteristica strutturale dell’approccio salmanniano alle questioni, diretto, disarmato e disarmante. Ascoltiamo l’incipit di questa stessa lettera sorprendente di Collenbusch a Kant:

“ Mio caro signor professore,
la speranza rallegra il cuore. Non vendo la mia speranza nemmeno per mille tonnellate d’oro. La mia fede spera una meraviglia di bene da Dio. Sono un vecchio di settant’anni, quasi cieco; come medico ritengo che fra breve sarà cieco del tutto. Non sono nemmeno ricco, ma la mia speranza è così grande che non mi cambierei con un imperatore!”

Di questa speranza, che viene dalla fede, dalla fede tedesca e dalla fede protestante, è ricca la teologia di Elmar Salmann

C) Ma un’altra caratteristica, molto diversa, è la consapevolezza del limite e la lucidita’ nella sua ammissione. Ancora una volta Goethe ci introduce in questo aspetto, con una delle sue ultime lettere:

“Ma la vita che passa davanti rumoreggiando, fra altre stranezze, ha anche questa, che noi, così impegnati in attività, così avidi di godimento, raramente sappiamo apprezzare e trattenere i particolari che l’attimo ci offre. E così, nell’estrema età, ci rimane ancora il dovere di riconoscere l’umano, che mai ci abbandona, almeno nelle sue peculiarità, e di consolarci, attraverso la riflessione, di quelle mancanze che non possiamo del tutto evitare di imputarci” (UT, 109)

Non solo umanamente, ma direi teoreticamente Elmar Salmann ha sempre meditato queste parole, dimostrando una acutezza per l’umano che raramente è dato incontrare. Essendo ancora piuttosto lontano dalla età estrema, egli ha come estremizzato la sua sensibilità, sapendo cogliere come un rabdomante  i più lievi fruscii del cuore, le più lontane ombre della mente, i più piccoli scricchiolii delle strutture e le più sommesse esitazioni della voce. Anche quando ci è sembrato sommamente distante, tutto notava e registrava, con una cura quasi certosina, nel centro del suo pensiero e del suo cuore.

D) Infine, consideriamo un’ultima qualità del suo modo particolare di “tenere”, di “offrire”, di “ porgere” la lezione. Proviamo a capirlo per differenza, ascoltando alcune righe da una lettera che David Friedrich Strauss scrisse a Maerklin il  giorno 15 novembre del 1831:

“Il professor Hegel è morto ieri sera…che stai a fare a Berlino senza Hegel?” e più avanti egli rievoca il modo con cui Hegel faceva lezione: “A prescindere da ogni particolare esteriore, il suo modo di esporre dava l’impressione di uno spirito tutto assorto in se stesso, inconsapevole della propria esistenza per quanto riguarda gli altri; era, cioè, molto più un riflettere ad alta voce che un discorso rivolto agli ascoltatori” (UT, 102)

Questa descrizione ci permette di considerare brevemente che cosa sia stata e sarà ancora a lungo la vis rethorica della lezione salmanniana, che è molto più alla Schleiermacher che alla Hegel, dove una improvvisazione del tono, del linguaggio, della scelta della parola – per assonanza, per contrasto, per sinonimia, per arcaismo – si sposa sempre con una struttura rigorosa, ma duttile, costruita all’antica, con elenchi lunghi  anche 14 punti, come non si sente più da nessuno, come faceva qui a S. Anselmo ancora Vagaggini, molti anni fa…La “estroversione” della lezione salmanniana ha richiamato il pubblico degli studenti più diversi, e, come alle olimpiadi, qualcuno veniva per ascoltare il pensiero, qualcun altro per lasciarsi sorprendere dalle battute, qualcuno per sentire un bel discorso, qualcun altro per ritrovare la fede…ma dallo stesso prato l’ape, il bue, la lepre e la lucertola uscivano sempre soddisfatti e invariabilmente toccati e commossi..

II. Seconda Parte: lo stile teologico e la parola di benedizione

Salmann è stato, come Schleiermacher, un oratore mai del tutto traducibile sulla pagina scritta. Ha usato l’ironia di Swift  e la pietas di De Luca, il moralismo non moralistico di Fenelon e la accuratezza dei camerieri con cui inizia il Convivio di Dante. Ascoltiamone il folgorante inizio:

“Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li sergenti prendere lo pane apposito, e quello purgare da ogni macula”

Nel romanzo della teologia salmanniana la forza del pensiero cerca una sapienza che è insieme strutturale e mistica, elementare e piena di sprezzatura…a quale ideale si è ispirato p. Salmann se non a quello del cameriere o del “sergente” dantesco?

Potremmo dire, senza troppo forzare le cose, che Salmann ha adottato, fin dall’inizio, il paradigma della complessita’ per fare teologia.

Quante volte gli abbiamo sentito dire questa frase:

“se uno non e’ integralmente teologo non e’ ancora teologo. Ma se uno e’ soltanto teologo, non lo e’ piu'”.

Da questa frase, lungamente ripetuta e meditata, applicata in fondo a tutti gli stati di vita, trapela una visione della irriducibilità dell’oggetto e del soggetto della teologia. Qui il pensiero di Salmann ha toccato le sue vette piu innevate e gli abissi piu oscuri. Ha dischiuso orizzonti ignoti e ha attraversato deserti solitari. Ma lo ha fatto – si badi bene – all’interno di una “scuola”, nonostante tutto: di quella scuola che da Anselm Stolz, attraverso Cipriano Vagaggini e poi Magnus Loehrer, è arrivata a lui, mediata dalla cattedra di teologia sistematica qui a S. Anselmo. Scuola di teologia monastica, ossia teologia non immediatamente scolastica, non razionalistica, neppure positivistica, ma attenta al lato sapienziale, mistico, corporeo, contingente, positivo della esperienza. In questa tradizione Salmann ha preso la parola, a modo suo, con il suo stile.

Di questa parola forte, di questa risata contagiosa, di questa lucidita’ impressionante, di questa sovrana liberta’ di giudizio vogliamo qui ringraziarlo di cuore. Lo abbamo ascoltato per 60 semestri, qui a S. Anselmo e alla Università Gregoriana, in centinaia di corsi, per migliaia di ore, tutte sempre ben costruite, con il gusto della compiuta conferenza, in grande stile e con smisurato senso della misura, intrecciando i pensieri come collane di perle, piene di scorribande per deserti e oasi di pacificata meditazione, con confessioni e con ironie, senza mai invettive, senza condanne troppo accese, cercando sempre una ragione piu profonda e lasciando spesso la parola al silenzio, senza mai prendersi troppo sul serio. Questo e’ il senso originario di quella sprezzatura che tante volte gli abbiamo sentito nominare e qualche volta abbiamo anche pesantemente frainteso.  Le sue pause, che non si possono trascrivere – come neppure i suoi occhi sgranati o la voce che si assottiglia e poi si fa profonda – hanno detto sempre questa interruzione dell’autocompiacimento di ogni pensiero troppo sicuro di se’. Le pause – proprio perché intrascrivibili – esattamente come i toni e i ritmi del discorso –  fanno sempre torto ai suoi scritti. Essi mancano di quella sprezzatura che viene dal tono, dal silenzio, dallo sguardo, forme di comunicazione tipicamente “non verbali” e quindi “non verbalizzabili”

Per questo Elmar Salmann ci ha soprattutto parlato, senza fidarsi mai solo del linguaggio verbale e lo ha fatto in tanti modi. Proviamo a farne una piccola rassegna:

Ha parlato come un bambino che dice: il re e’ nudo. Ma anche come un re, che se lo lascia dire divertito, senza nascondere quel poco di turbamento che non puo mancargli, se vuole essere davvero un re.

Ha parlato come un monaco che prende del tutto sul serio la propria regola di vita e i 7 gradi della umilta’, ma anche come un semplice uomo vivente, vestito di scuro, che “non scapola allo scapolare”, ma che non si illude di aver trovato rifugio in una ideologia monastica per sfuggire alla serieta’ sempre imbarazzante e promettente della vita.

Ha parlato come un cattolico che ammira la superiore intelligenza dei protestanti ma anche come un protestante che non si fida mai del tutto della propria teoria straordinariamente raffinata e calibrata.

Ha parlato come un ebreo che conosce la forza e il fascino della legge e del comandamento, ma anche come un cristiano che non dimentica mai la grazia sovrabbondante, con la sua beata capacità di relativizzare ogni legge.

Ha parlato come un tedesco della Westfalia che non si fida mai del tutto della propria strategica vocazione per l’ordine e per la dignità, ma ha parlato anche come un italiano di adozione che scopre quanto possa essere efficiente e giusta una improvvisata, estemporanea e quasi spudorata disorganizzazione.

Ha parlato come un uomo moderno che rimpiange di aver perso la forza e la saggezza della tradizione, ma anche come un uomo antico, che aspira a  una nuova e piu profonda liberta’ e guarda ai fenomeni con grande spregiudicatezza, anche se diffida del computer e non si lascia contaminare dal “telefonino”.

Ha parlato come un padre di famiglia, che sa ammonire e consolare tutti i suoi figli numerosi e indisciplinati, ma anche come un figlio devoto, molto rispettoso della autorità e del tutto obbediente ai superiori.

Ha parlato come un serio orologiaio che si guadagna il pane con la diuturna dedizione al proprio mestiere, ma anche come un giocoliere o come un acrobata che si diverte a iimprovvisare ogni volta di nuovo, lanciandosi in uno spettacolare salto mortale da un trampolino all’altro, senza rete ma non senza criterio.

Tra ufficio e  circo, tra bottega e foresta, tra cucina e mare aperto si e’ mosso il suo pensiero e la sua parola. E forse proprio cosi, per la promiscuità di queste frequentazioni culturali, spirituali, umane, ha saputo generare figli molto diversi, liberati alla ricerca dalla imprendibilita teorica del maestro, che si convertiva sempre, al momento giusto, in parola sapiente e in sentenza consolatrice. Parola che diventava di volta in volta pacca sulla spalla, sferzata al fianco, freno alla irruenza, spinta al coraggio, realistica assunzione del limite, profetica speranza di inveramento, sapiente attesa di luce. Le sue prese di parola sono state – allo stesso tempo- gesti teatrali pieni di sprezzatura e umanissime forme di vera accoglienza e considerazione. Le due cose sempre insieme, indisgiungibili e inconfondibili, con tutti.

Ma ora qualcosa cambierà. E non sarà indolore, per nessuno. Tra qualche giorno p. Salmann non sara’ piu presente regolarmente a s. Anselmo e a Roma. La sua regolata devozione – esercitata altrove – tornerà però a farsi vedere, a farsi sentire e ci toccherà ancora. A questa benedetta contingenza chiediamo che possa essere non “meno di una necessita’”, non un caso dolorosamente eventuale, ma “più di una necessita’”, la ripresa piu alta di quanto di meglio abbiamo gia conosciuto: insomma una grazia piu che necessaria.

Concludo. Ovviamente con un romanzo.
Alla fine dell’intreccio di Hard Times ci imbattiamo in alcune pagine davvero sorprendenti in cui Dickens riprende in modo toccante tutti i personaggi principali confrontandoli con il loro destino e con le loro attese. Ognuno viene soppesato e riconsiderato, dopo tutto quanto è capitato di tragico e di comico lungo il corso del romanzo. Forse è proprio il capo del circo, con la sua parlata sapiente, a dire la parola piu adeguata alla nostra conclusione. Egli esprime una pietas di fondo che piacerebbe al nostro collega Salmann: egli dice, con la sua inconfondibile “evve moscia”:

“Siate saggi, signovi, e buoni anche, pvendendovi pev il lato migliove e non pev il peggiove.”

“Prendere per il lato migliore, non per il peggiore”: forse sta tutta qui la sapienza salmanniana. Nel dare uno statuto teorico elementare e squisito alla prevalenza del bene, ma senza facili ottimisti; nel far spazio alle forme del rispetto, ma senza alcuna idealizzazione dell’altro; nel coltivare le proprie buone maniere, senza confidare troppo in quelle altrui. Dunque sta forse nella benedizione il segreto del romanzo teologico salmanniano.

A questa teologia sapienziale – a un tempo circense e cortese, giocoliera e meticolosa, scapigliatamente monastica e evangelicamente cattolica – sentiamo di essere stati garbatamente avviati dalla compagnia stabile del prof. Salmann in questo Ateneo, per tutto questo tempo, per 30 anni giusti giusti, per 60 semestri, per 360 mesi, per oltre 10.800 giorni, per più di 270.000 ore…Ne avevamo quasi guadagnato la pretesa: ora possiamo solo riceverla gratuitamente, come all’improvviso, per grazia.
Padre, le siamo davvero grati per tutto questo. E le assicuro che non ce lo dimenticheremo.

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