Le buone ragioni della riforma liturgica – Veglia Pasquale




Postfazione al libro di
Fr. Michael Davide

E’ la Pasqua del Signore
Celebrare meglio per vivere bene,
San Paolo, 2012



Le buone ragioni della riforma liturgica, a partire dalla Veglia Pasquale

“Eucharistia non est officium, sed finis omnium officiorum”
San Tommaso D’Aquino


Questo scritto sulla Veglia Pasquale, illuminata da luci orientali e occidentali, commentata da voci antiche e moderne, ripensata da idee consuete o desuete alle nostre menti, svolge una funzione liberante da molti punti di vista.
Anzitutto per il fatto che ritorna ad un “luogo comune” della esperienza ecclesiale del secolo scorso, che fino agli anni 70 era ovvio e condiviso dalla Chiesa intera, salvo le inevitabili ma sempre risicate sacche di nostalgia disperata e di sentimentalismo presuntuoso. Ed è il fatto che, molto prima del Concilio Vaticano II, già dalla metà degli anni 40, Pio XII, opportunamente consigliato, avesse indicato nella “riforma della liturgia” la via maestra per rinnovare la Chiesa, la sua prassi e la sua spiritualità. Se già negli anni ‘40 coloro che dovevano rinnovare la liturgia avevano progettato di “riformare” la Veglia pasquiale e poi la Settimana santa, ciò rende del tutto chiaro all’uomo di oggi il ragionamento contorto di chi – tanto corto di memoria quanto lungo di lingua – pretende di scoprire che il problema della liturgia sarebbe stato causato dalla Riforma liturgica. Nulla di più sbagliato e di più ingiusto dello scambiare l’effetto per la causa. Dobbiamo riconoscere – e qui il merito di fr. Michael Davide è davvero notevole – che alla crisi di senso della liturgia (pasquale e domenicale) ha risposto con notevole vigore la Riforma Liturgica, già quella della Vegli Pasquale.
Certo, già allora, come ora, non mancarono le voci critiche verso queste “attese” liturgiche. Ma ciò che deve essere meglio compreso, in tutto questo, sono le ragioni della necessità della Riforma, che non si indentificano con le ragioni della sua sufficienza. Leggendo il libro di fr. Michael Davide appare chiaramente questa tensione insuperabile e feconda. Da un lato, infatti, era del tutto necessario ripristinare i riti della veglia in tutta la loro articolazione temporale, spaziale, biblica, rituale. Senza questo passaggio riformatore, nulla avrebbe potuto accadere. Ma senza una adeguata “formazione” e “iniziazione” a nulla avrebbe valso l’aver riformato il rito.
Oggi viviamo, in tutta la liturgia, ciò che nella Veglia Pasquale ha cominciato ad essere percepito nella Chiesa: la necessità della Riforma, insieme alla sua non sufficienza. Ciò significa, in altri termini, che proprio oggi si fa più forte la tentazione della nostalgia, come quella della presunzione. Da un lato potremmo pensare, ingenuamente, che se tornassimo a prima della Riforma della Veglia, tutto sarebbe migliore. Ma qui, veramente, pochi hanno il coraggio di fare una tale affermazione. D’altra parte, ci si accontenta di una Riforma estrinseca, che non cambia né le abitudini, né l’immaginario, né il linguaggio ecclesiale. Se così fosse, a nulla sarebbe valso riformare.
Nel fondo di questa problematica specifica si annida un vizio antico e assai rischioso: ossia la riduzione della liturgia a “cerimonia esterna”, da controllare semplicemente con il “rispetto delle rubriche”. Una cornice esteriore di contenuti dogmatici, che è facila ridurre a “rito essenziale”, a semplice “dovere”, a “ufficio”, a “compito”, a “esecuzione scrupolosa di rubriche” e ad “applicazione di norme”. Quando oggi, anche autorevolmente, si riduce l’arte di celebrare alla scupolosa esecuzione delle rubriche, si rischia di cadere nella stessa incomprensione che aveva caratterizzato la tradizione moderna, nella quale, al sorgere delle nuove istanze di riforma, le resistenze e le riluttanze ad assumere il nuovo stile di manifestarono in maniera paradossale, ma ancor oggi molto istruttiva. Come racconta utilmente l’Autore del nostro libro, uno tra i più autorevoli teologi e prelati italiani del tempo, Giuseppe Siri, obiettava alla introduzione della Veglia pasquale due argomenti che, a suo avviso, erano in grado di sgomberare il campo da queste fumose fantasie liturgiche: il sabato santo doveva essere dedicato alle confessioni e non si doveva violare l’istituto naturale della notte, che è fatta per dormire e non per celebrare la Pasqua. Disciplina ecclesiale e senso comune sembravano allora sconsigliare ogni “avventurismo vigilare”. Questi erano gli argomenti dei primi anni ’50. Ma oggi, non siamo forse continuamente tentati di restare bloccati, sostanzialmente, dalle medesime preoccupazioni? Non è forse vero che anziché celebrare la Pasqua pensiamo soltanto a fissare diritti e doveri intorno al Risorto? Non è forse vero che, senza usare i paroloni ingenui di quella teologia preconciliare, svicoliamo ad ogni costo alle logiche del vigilare, fissando l’ora di inizio della “veglia” alle 19.00 o alle 18.30, cosicché alle 21.30 tutti possono essere già sdraiati sotto le loro brave coperte? Come si fa a chiamare “veglia” una esperienza dove nessuno veglia? Non vi è forse, a 60 anni di distanza da quelle Riforme e da quelle incomprensioni, una resistenza sorda e ostinata ad entrare nella logica nuova – ma antichissima – che la Veglia stessa ripropone come prioritaria per tutta la Chiesa? Una logica che non domanda certo di negare problemi di disciplina e di ordine pubblico, di trascurare i diritti e i doveri dei soggetti e delle istituzioni, ma invita a “celebrare” il mistero grande di un dono che Dio ha riservato gratuitamente all’uomo e che l’uomo può ricevere e riconoscere con un atto di sovrana disponibilità, di passiva attività, corporea e mentale, dell’ascolto e del pasto, della vista e dell’oscurità, del vegliare e del dormire?.
Ed ecco, allora, comparire il lato più promettente e più importante di queste pagine dedicate alla “madre di tutte le veglie”: dobbiamo riscoprire che l’atteggiamento di tutto il celebrare cristiano non è quello di assicurare i “minimi necessari” alla vita di fede, non è quello di assestarsi sui “valori non negoziabili”, ma quello di lasciare la parola originaria al “mistero” e ai suoi “massimi gratuiti”. La grande celebrazione vigiliare della Pasqua è il “seno” di cui sono frutti tutti i battezzati. Da lì veniamo, tutti. La migliore interpretazione del battesimo, della cresima, della eucaristia, ma anche della guarigione e del servizio cristiano, possono accadere soltanto in questo contesto ricchissimo di parola e di sacramento, di riti e di preghiere. Per questo non ha senso “risparmiare sulle letture” e attestarsi sui minimi!
Così, secondo questo criterio che ho voluto ripetutamente sottolineare, ancora oggi troviamo un duplice fronte che fatica a “lasciarsi formare” dai nuovi riti pasquale.
Da un lato possiamo individuare tutti coloro – pochi, isolati, ma influenti – che diffidano della Riforma e che, con atteggiamento nostalgico, rimpiangono un “vetus ordo” che tanto più esaltano quanto meno conoscono. E i loro argomenti, molto spesso, assomigliano ancor oggi a quelli del card. Siri: o per impedire gli abusi si confida solo sulla disciplina, o per non cadere in “modernismi” ci si chiude in evidenze ormai del tutto inevidenti. Se poi, in virtù di questi sogni, si riesce a configurare una comunità che, proprio al momento della veglia, possa celebrare pasqua contemporaneamente con diversi “ordines”, tutti parimenti vigenti, allora anziché un ragionevole compromesso si ottiene soltanto un clamoroso pasticcio, disorientato e disorientante.
Dall’altro ci sono invece coloro che, sia pur con tutta la coscienza del cambiamento necessario, confidano troppo nella Riforma e ritengono che essa, in quanto tale, risulti sufficiente a mutare le cose, a insegnare la comunione, a catechizzare sulla Pasqua e a orientare le vite. Nulla è così poco opportuno quanto questo atteggiamento sbagliato. Per restare fedeli alla Riforma non basta applicarla, ma occorre darle radice, corpo, carne e sangue. Non basta eseguire precisamente le nuove rubriche, piuttosto che le vecchie. Bisogna piuttosto mutare stile e approccio alla liturgia vigiliare in quanto tale, certo grazie alle nuove rubriche, ma non solo mediante esse. In fondo, noi celebriamo in vista di altro dalle rubriche: esse sono mezzo, non fine, sono media, non res.
In tal modo appare ancora più evidente la buona opzione privilegiata dall’Autore: egli scrive, nelle ultima pagine, un appassionato testo in difesa delle “ragioni della Formazione liturgica” alla Pasqua. E non fallisce il centro della questione: se oggi la Riforma Liturgica conosce una crisi non è certo perché siano venuti meno i motivi della sua necessità – anche se pochi sedicenti teologi di memoria corta e di competenza cortissima, ma con aderenze a prova di bomba, provano vanamente a confonderci le idee, protetti da ombrelli sempre troppo grandi – bensì perché essa deve lasciare il campo alla Formazione. Era necessario che l’esperienza ecclesiale mettesse mano ai riti pasquali della veglia, li riportasse alla antica luce e li riproponesse alla ordinaria vita pastorale. La Chiesa ha preso in mano i propri riti e li ha riformati. Ma ora questo atto deve capovolgersi in un atto reciproco e prezioso: i nuovi riti devono prendere in mano la Chiesa e riformarla, riconducendola alle sue fonti e ai suoi culmini, al racconto, al per-corso, all’in-segnamento di cui essa vive e al quale non può mai rinunciare.
Nello stile intenso, appassionato e documentato di questo volumetto troviamo sintetizzata tutta la gioia e la fatica di un atto che ha qualificato la vita cristiana dell’ultimo secolo. Perché non sia vissuto come “atto mancato” deve diventare capace di dare un nuovo inizio ai nostri pensieri e alle nostre parole. Solo così la celebrazione della Pasqua diventerà non il “compito” o il valore del cristiano, ma il dono e il mistero da celebrare, che apre la vita in Cristo al riconoscimento della propria verità. Lasciando sporgere il dono sul compito, il gratuito sul necessario, la festa sul lavoro, S. Tommaso ha sintetizzato tutto questo dicendo:

“Eucharistia non est officium, sed finis omnium officiorum”

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