Nel volume curato da P. Sorci dal titolo “La celebrazione cristiana delle esequie” (Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2012) ho scritto un articolo (pp.19-31) di cui riporto qui l’inizio.






La morte interpretata dai riti cristiani
Nuove teologie della morte e rimozione del morire



“Ci sono delle culture della morte. Passando un confine, si cambia la morte. Si cambia morte, dove non si parla più la stessa lingua, si cambia la morte”
J. Derrida


L’acquisizione di una prospettiva corretta nel campo della coscienza ecclesiale circa la morte e la sua rilevanza nell’esperienza di fede deve procedere in modo equidistante rispetto a due orientamenti, che appaiono in realtà come difetti di prospettiva, i quali assillano la comune coscienza contemporanea (ecclesiale e civile). Da un lato l’affidamento cieco alle abitudini tradizionali (del pensiero e della prassi) che riconducono il “senso cristiano” della morte a luoghi comuni senza più spessore autorevole e incapaci di parlare al popolo di Dio e a ogni singolo cristiano. D’altra parte le diverse forme di “trascendentalizzazione” del morire, che in modo più o meno accentuato prendono congedo dalla rilevanza della elaborazione rituale del lutto, confidando su evidenze di carattere coscienziale e soggettivo, che sarebbero capaci in qualche modo di sostituire il fenomeno “lutto” con il suo significato. Il fenomeno della “rimozione della morte”, che oggi insidia buona parte dell’esperienza tardo-moderna (anche ecclesiale) deriva proprio dalla alleanza imprevista di questi due aspetti della questione. Da un lato, infatti, la ripetizione del medesimo non garantisce per niente la tradizione, pur mantenendone un sostrato corporeo tutt’altro che secondario; viceversa, la riduzione trascendentale, mirando al rinnovamento del senso intenzionale di un dato atto, sospende e spesso sopprime il ruolo dei “sensi” e confida solo nel primato del “senso”, creando così un opposto, ma coerente ostacolo alla tradizione medesima. Né la ripetizione corporea senza intenzione, né l’intenzione senza contingenza corporea garantiscono le tradizioni. E la morte ha terribilmente bisogno di tradizione, in modo almeno tanto urgente quanto le altre grandi esperienze della vita. Non solo una “ars moriendi”, ma anche una “ars celebrandi” ne è dunque la condizione essenziale.
Così, come a me sembra, la discussione di entrambe queste “apparenti soluzioni” s’impone come compito preliminare a ogni possibile ricostruzione storica delle forme assunte dal cordoglio cristiano nello sviluppo di quell’esperienza di comunione con Dio mediante il Figlio nello Spirito Santo che chiamiamo “Chiesa”. Anzi, in larga parte, la nostra fatica corrisponderà precisamente nel definire meglio i limiti di queste due prospettive erronee, con particolare riguarda alla “riduzione trascendentale” del morire, che appare come il caso estremo di una tendenza della “prima svolta” antropologica, rispetto a cui cercheremo di additare qualche percorso di una “seconda svolta antropologica”, che non cada nell’errore di svuotare di senso le “Pratiche categoriali” dei cristiani intorno al morire. Pertanto a un primo paragrafo che fotografa la situazione ambigua del nostro accompagnamento del morente (§.1) seguirà un’ampia discussione dei nuovi modelli trascendentali di “teologia della morte” (§.2) per poi concludere sommariamente con brevi prospettive di riscoperta della importanza di “pratiche rituali” di elaborazione del lutto (§.3) per l’avvenire della comprensione cristiana del morire.
Share