Peggio della censura c’è solo l’autocensura. Il caso Lintner e il servizio ecclesiale dei teologi


Ci sono diverse questioni che il negato “nihil obstat” alla promozione a Decano del prof. Lintner sollevano nel corpo ecclesiale di una Chiesa cattolica che da anni è impegnata in un “cammino sinodale”. Con la solidarietà al collega, colpito per aver scritto idee in ambito morale e sessuale diverse dal Catechismo della Chiesa Cattolica, vorrei esprimere una preoccupazione più generale, che riguarda la funzione che la teologia deve esercitare al servizio del cammino ecclesiale di annuncio del Vangelo. Il punto dirimente è, a mio avviso, che la Chiesa ha bisogno di una teologia veramente libera, perché solo così può assumere davvero il compito di illuminare la tradizione alla luce della parola di Dio e della esperienza umana. Proprio questo delicato raccordo, che GS 46 esprime nel modo più limpido, impone al “governo pastorale” un rapporto sincero e schietto con una parola teologica che sia, allo stesso tempo, audace e paziente. Senza audacia non si è teologi e la Chiesa, senza la loro audacia, manca di qualcosa di fondamentale per sé. Teologi addomesticati rendono la Chiesa più sola e più vecchia.

Nel campo della morale sessuale un ideale burocratico, che certo ha una forza seduttiva grande negli uffici delle Congregazioni romane, sarebbe quello di assumere il punto di vista del Catechismo della Chiesa Cattolica e svilupparne ordinatamente le conseguenze. Ma questo, evidentemente, risulta non un vero ideale, ma una via di fuga rispetto al compito ecclesiale effettivo: di fronte alla esperienza umana e di fronte al rinnovarsi della interpretazione della Scrittura, la sapienza dottrinale cammina, evolve, si trasforma e si precisa. Per questo abbiamo bisogno di teologi, per aiutare la chiesa a interpretare i “segni dei tempi” di cui la storia sa continuamente cospargere i vissuti personali, sociali ed ecclesiali.

Tutta la teologia richiede questa capacità di leggere la storia con profezia e con lungimiranza. Non solo il campo morale esige questa forza di superamento di principi ritenuti insuperabili, di fronte a nuove evidenze della storia e della coscienza. Anche il campo liturgico-sacramentale, che conosco meglio, ha avuto bisogno di profeti negli ultimi decenni per configurare diversamente la celebrazione eucaristica, la iniziazione cristiana, per pensare in modo nuovo l’esercizio del ministero, per considerare anche la donna come soggetto ministeriale, per ripensare il rito della penitenza o il ministro della unzione dei malati. In tutti questi ambiti abbiamo avuto profeti, che hanno pagato anche di persona le nuove evidenze che mettevano in primo piano, grazie al loro studio e alle loro pubblicazioni.

Anche oggi abbiamo ancora “sfide aperte”, che non possono essere chiuse da un ufficio romano: non solo per pensare diversamente il concetto di omosessualità, o quello di benedizione, ma anche i criteri di traduzione dal latino, l’accesso della donna al ministero ordinato o il ruolo della inculturazione nella prassi celebrativa nei 5 continenti. Tutto questo chiede teologi coraggiosi, capaci di interpretare ciò che di buono appare dalla storia per il sapere teologico comune, in queste grandi sfide al pensiero e alla prassi della Chiesa.

Eppure, proprio su questi punti delicati, ma decisivi, spesso i teologi restano troppo timidi e tendono a nascondersi. Nelle grandi discussioni sul parallelismo rituale inaugurato da “Summorum Pontificum” o in quelle generate da “Liturgiam authenticam” nel delicato campo delle traduzioni liturgiche, moltissimi miei colleghi hanno soltanto taciuto. Non erano d’accordo, ma tacevano.

Di fronte ad una presa di posizione di una Congregazione Romana, che censura una apertura dottrinale, si può prendere posizione. Ma molto peggio è se i teologi, ancora prima di essere censurati, si “autocensurano” identificando una serie di temi su cui “non si deve scrivere”. Non danno neppure occasione alla Congregazione per dare il peggio di sé. Lo assumono in prima persona. Questo diventa la mortificazione del ministero del teologo, che deve occuparsi sempre anche di ciò che è diventato problematico per la vita della Chiesa. E deve farlo anche contro il proprio interesse e contro la propria carriera. Pagando anche di persona. Solo così permette alla Chiesa di valutare fino in fondo l’intero quadro delle questioni in campo. Questo è il suo mestiere e il suo ministero.

Un caso di censura solleva la giusta reazione. Ma molto più grave è accondiscendere ad una pretesa burocratica, che pretenderebbe una teologia esercitata solo nell’ambito circoscritto delle evidenze catechistiche: non importa se degli uomini non vengono riconosciuti, delle donne vengono emarginate, delle dinamiche personali sono ignorate e dei giudizi sommari e ingiusti vengono ribaditi. La cosa più importante diventa “quieta non movere et mota quietare”. Ma questa logica, che non è mai del tutto giustificata neppure per un ufficio burocratico come una Congregazione, è la più lontana dal ministero del teologo.

Si ricorderà che nel 2012, 50esimo dall’inizio del Concilio, la Congregazione per la Dottrina della Fede sovrappose a quell’anniversario l’anno della fede e mise in concorrenza l’anniversario del Concilio con l’anniversario del CCC, pretendendo di fare del CCC il criterio di lettura del Vaticano II. Agli uffici può capitare anche di commettere svarioni di questo genere, che non possono minimamente condizionare i teologi.

I teologi, se hanno un senso nel servizio alla Chiesa, debbono offrire chiarimenti e salvare i fenomeni, con rigore e con parresia. Lo fanno alla luce della Parola di Dio e della esperienza di uomini e donne, nella reciprocità esigente tra queste due fonti. Anche le critiche agli assetti dottrinali acquisiti fanno parte del loro ministero, anche duro ed esigente, ma mai addomesticabile. Se la censura ad un teologo ottiene il risultato di alzare il livello comune di autocensura, questo va solo a detrimento della comune esperienza ecclesiale. Perché la Chiesa non è né una caserma né una associazione mafiosa, ma una comunità di discepoli del Signore. Il controllo sulla “comune dottrina” non può più avvenire nelle forme anonime del Consiglio dei X della Repubblica Veneziana. Ma la autocensura, che trova mille pretesti per giustificarsi, sottrae alla Chiesa un elemento vitale della sua identità: la audacia critica di una lettura diversa, con cui il magistero pastorale è obbligato a confrontarsi con serietà, senza ricorrere alla squalificazione dell’interlocutore. La censura ha spesso come obiettivo di alzare il livello di autocensura. Se questa censura a Martin Lintner contribuirà a mostrare che la autocensura non cresce, ma diminuisce, allora sarà possibile che del merito – ossia della morale sessuale – si possa parlare davvero in modo profetico e non solo a partire dalla evidenze tramontate (e comunque violente) di una società chiusa. Una tale società perfetta, basata su differenze insuperabili, non è più l’ideale della Chiesa cattolica, anche se resta la ideologia persistente di qualche ufficio di Congregazione. Non sarà una censura a invertire il corso della storia. Una pesante autocensura può invece rallentare la maturazione della coscienza ecclesiale.

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