La “actuosa participatio” abroga Summorum Pontificum: ma perché SC 48 viene citato in modo errato?


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Non vi è dubbio che il testo del MP Traditionis Custodes, insieme alla “lettera ai Vescovi” che lo interpreta autorevolmente, ha un centro sistematico molto solido, che trova nel Concilio Vaticano II il motivo fondamentale per ritenere che non sia possibile configurare una Chiesa con “due forme parallele” del medesimo rito romano, una ordinaria e una straordinaria, che agiscono contemporaneamente all’interno della medesima Chiesa. Questo punto è chiarissimo sia nel MP sia nella Lettera ed è il vero motivo della svolta voluta dal provvedimento.  Emerge in modo limpido il fatto che è stato il Concilio Vaticano II ad esigere la “riforma del rito romano”. L’accesso a quella tradizione può avvenire mediante la forma del rito romano che il Concilio ha chiesto che fosse rivista. Vi è dunque una sola forma del rito romano vigente. Proprio in questo passaggio Francesco cita il testo più famoso, che sta a giustificazione della riforma liturgica. Riporto qui di seguito l’intero passo della Lettera, che ristabilisce l’unica forma vigente in ragione della unità della Chiesa e ne evidenzio in grassetto il passo problematico:

Rispondendo alle vostre richieste, prendo la ferma decisione di abrogare tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le consuetudini precedenti al presente Motu Proprio, e di ritenere i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, come l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano. Mi conforta in questa decisione il fatto che, dopo il Concilio di Trento, anche san Pio V abrogò tutti i riti che non potessero vantare una comprovata antichità, stabilendo per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum. Per quattro secoli questo Missale Romanum promulgato da san Pio V è stato così la principale espressione della lex orandi del Rito Romano, svolgendo una funzione di unificazione nella Chiesa. Non per contraddire la dignità e grandezza di quel Rito i Vescovi riuniti in concilio ecumenico hanno chiesto che fosse riformato; il loro intento era che «i fedeli non assistessero come estranei o muti spettatori al mistero di fede, ma, con una comprensione piena dei riti e delle preghiere, partecipassero all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente»[28]. San Paolo VI, ricordando che l’opera di adattamento del Messale Romano era già stata iniziata da Pio XII, dichiarò che la revisione del Messale Romano, condotta alla luce delle più antiche fonti liturgiche, aveva come scopo di permettere alla Chiesa di elevare, nella varietà delle lingue, «una sola e identica preghiera» che esprimesse la sua unità[29]. Questa unità intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano.

Il ragionamento è impeccabile e supera la teoria, fallace, per cui ciò che è stato santo in passato debba esserlo anche oggi, argomento centrale del preteso parallelismo tra diverse forme rituali. Qui però si apre una questione delicata. Mi chiedo, infatti, perché mai nel punto più decisivo della argomentazione di Francesco, si ricorre ad una versione del testo di SC 48 che è errata? Sì, errata! Perché riproduce in traduzione italiana (e anche in traduzione inglese) il testo precedente a quello approvato, che è stato emendato e che è stato sostituito, in latino, dalla notissima (e incompresa) espressione: “per ritus et preces id bene intelligentes”, a cui si riferisce correttamente la nota 28 del testo. Come ho già sottolineato qualche mese fa ( nel post che si può leggere qui) sul sito del Vaticano continuano a circolare “versioni erronee” del testo di SC 48, che non traducono il testo approvato dal Concilio, ma un testo precedente, meno impegnativo, più classico. Così troviamo in nota il rimando al testo latino pubblicato su AAS nel 1964, ma nel testo viene tradotto una versione precedente, non ufficiale! E questo accade sia per l’italiano, sia per la traduzione inglese.

Dove sta la differenza? Credo che si tratti di un dettaglio decisivo, soprattutto per risolvere la questione di “Summorum Pontificum”. Ed è la funzione di mediazione dei riti rispetto alla intelligenza del mistero. Non si tratta di “comprendere bene i riti e le preghiere” – come diceva il testo prima di essere emendato dal Card. Bea – ma di “comprendere bene il mistero attraverso i riti e le preghiere”. Per questo può esservi una sola “forma rituale”: perché i riti sono mediazione originaria della identità ecclesiale. E’ quindi paradossale che, in modo del tutto inatteso, noi troviamo al centro della argomentazione di Francesco una citazione del testo di SC 48 che non è quella approvata dal Concilio, ma il testo precedente, ancora bisognoso di correzione e di precisazione.

Come è  stata possibile una simile svista da parte dei “compilatori” del testo? I motivi sono almeno due. Da un lato circolano non solo in italiano, ma anche in inglese e in portoghese, versioni di SC che ignorano in traduzione il testo approvato come definitivo. Anche sul sito di vatican.va troviamo traduzioni ufficiali di SC 48 sbagliate. Ma il motivo forse più decisivo è di carattere teologico: siamo ancora legati ad una visione “intellettualistica” dei riti. Che cerchiamo di nobilitare attribuendo loro un “significato”. Per questo “comprendere bene i riti e le preghiere” sembra la via della partecipazione attiva. Ma se fosse così, le due forme rituali, vecchia e nuova, potrebbero tranquillamente convivere. Alla radice di SP vi è precisamente questa “irrilevanza formale” del rito in quanto tale. Viceversa possiamo superare la logica di SP solo se entriamo del tutto nella sfida di una liturgia che ha carattere non solo di “culmen et fons”, ma di “mediazione simbolico-rituale” della relazione con Cristo e con la Chiesa. Recuperare al più presto il testo corretto e sostituirlo a quello errato è un dovere di verità. Perché la bontà di argomentazione di un testo così importante non sia macchiata dalla citazione sbagliata di un testo così decisivo per la “mens” del provvedimento.

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