“Anarchia dall’alto”: il motivo sistematico della abrogazione di Summorum Pontificum


burke

Con una fulminante definizione, 14 anni fa Gianfranco Zizola aveva colto con singolare lucidità l’effetto che SP avrebbe prodotto nel corpo ecclesiale: “anarchia dall’alto”. Nel momento in cui una istituzione assolutizza la relazione soggettiva con il “sacro”, ponendola al di fuori della storia, finisce con il disgregare se stessa. Non è difficile identificare il “principio sistematico” di questa decisione: esso appare con chiarezza non dal MP del 2007, ma dalla “lettera ai vescovi” che lo accompagnava. Vi si diceva infatti: “ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o addirittura giudicato dannoso”.

Vorrei tentare di chiarire la fragilità sistematica di questo principio, che qualcuno oggi richiama per criticare la saggia decisione con cui papa Francesco ha posto fine a questa tendenza anarchica. Procedo in tre passaggi: chiarisco per sommi capi la vicenda, ne illustro alcuni effetti “imprevisti” e ne traggo alcune conclusioni sistematiche in prospettiva.

1. Un equivoco tra rito e forma

Riepilogo per punti l’essenziale di questa storia recente:

a) Papa Giovanni XXIII, nel 1960, valutando il da farsi, aveva esitato: doveva dar corso alle riforme che Pio XII aveva già preparato, oppure doveva aspettare lo svolgersi del Concilio, che aveva già convocato? Decise di procedere alla revisione del Messale tridentino, ma in forma provvisoria. Il Concilio avrebbe fissato gli altiora principia sulla base dei quali si sarebbe fatta la riforma. E così nacque il testo provvisorio del Messale Romano del 1962.

b) Il Concilio, ai nn. 47-58 di Sacrosanctum concilium, fissa esplicitamente le linee fondamentali della riforma dell’ordo missae, che verrà realizzato e approvato nel 1969. E chiede, per questo, di modificare profondamente, di integrare largamente, di implementare e arricchire strutturalmente il rito del 1962.

c) Paolo VI, all’entrata in vigore nel novus ordo, ribadisce quello che il suo predecessore e il Concilio avevano detto: il nuovo testo sostituisce il precedente, a causa dei limiti rituali, teologici, pastorali e spirituali del testo precedente.

d) Nel 2007, con il motu proprio Summorum Pontificum, Benedetto XVI cerca di favorire la “riconciliazione” nella Chiesa e concede un più largo uso del «Messale del 1962», costruendo una ipotesi sistematicamente assai discutibile e argomentata con il sofisma della “covigenza” di un rito ordinario e di un rito straordinario. Come ebbe a dire il cardinal Camillo Ruini, alla uscita di Summorum Pontificum: «Speriamo che un gesto di riconciliazione non diventi un principio di divisione»1.

e) Negli ultimi quattrodici anni la presenza ufficiale di una “forma straordinaria”, con la sua equivoca ufficialità, ha dato forza a tutte le forme di Chiesa “anticonciliare”. Non era certo questa la intenzione di Benedetto XVI, ma questo è stato uno dei suoi effetti principali. Questo rito “antico” ha coagulato intorno a sé, accanto ad attaccamenti convinti e ad intenzioni sincere di custodia della tradizione, interessi della reazione ecclesiale e civile, passatisti di varia stoffa, aristocratici decaduti, insieme a qualche soggetto poco equilibrato. Nel frattempo, la Commissione Ecclesia Dei conduceva trattative di accordo con i lefebvriani in cui non si capiva mai del tutto da quale parte del tavolo ci fossero i nemici del Concilio Vaticano II. Di amici, del Concilio, se ne vedevano sempre pochi.

f) Da ultimo, la Commissione, avendo in molti casi superato gravemente i limiti delle proprie competenze, è stata soppressa. Tuttavia, le sue competenze sono state trasferite ad una sezione della Congregazione per la dottrina della fede.

2. L’eccesso anarchico sta nel principio

Voglio soffermarmi brevemente su questo ultimo punto. Perché la Commissione Ecclesia Dei è arrivata spesso a travalicare rispetto a quanto previsto da SP? Perché ne ha applicato con zelo non solo il dettato, ma il principio radicale: ossia la “autorità intoccabile” di ogni forma storica del rito romano. In particolare questo è accaduto a proposito del “Triduo Pasquale”, che è un ambito su cui la riforma liturgica si è messa in moto prima del 1962. Ciò ha generato una situazione paradossale. Infatti, se per quanto riguarda il Messale nella sua generalità, il testo del 1962 risulta “antico” rispetto al testo del 1969, per quanto riguarda il Triduo il testo del 1962 recepisce già le riforme compiute da Pio XII nel 1951 e nel 1958 sulla Veglia Pasquale e sulla Settimana Santa. Se vale il principio “ciò che è stato sacro per le generazioni anteriori…”, allora diventa possibile, per non dire necessario, concedere la facoltà di celebrare il Triduo con le forme “precedenti” le riforme di Pio XII. Ma questo, come è evidente, può non aver mai fine. Perché si trova sempre una “forma precedente”, che è stata “ritenuta sacra” e che come tale si impone come alternativa alla forma successiva. In questo modo l’intera tradizione cattolica diventa il banco di un incontrollabile “self-service liturgico”. E’ quindi evidente come il principio che giustifica la “duplice forma” in realtà introduce una “moltiplicazione infinita delle forme possibili”, e quindi una “deformazione”, perché tutto ciò che storicamente è stato prima si impone su ciò che è vigente e il passato esercita un paternalismo ad oltranza sul presente e sul futuro.

3. La lacerazione della “doppia forma”

Sul piano della teologia sistematica questa impostazione della “riconciliazione liturgica” introduce alcune astrazioni pericolose, che di fatto ampliano piuttosto che ridurre il conflitto. Dire che sono vigenti contemporaneamente due forme dello stesso rito, di cui la seconda è nata per correggere, emendare e rinnovare la prima, è una argomentazione debole e fallace, che fin dall’inizio ha gravemente alterato le competenze liturgiche nella Chiesa cattolica. Tanto che, dal 2007, non solo i vescovi delle diocesi non potevano sovrintendere alla liturgia nella loro diocesi, ma anche la Congregazione del culto divino non poteva esercitare il proprio discernimento in materia liturgica, perché una “forma straordinaria” veniva controllata e modificata prima dalla Commissione Ecclesia Dei e poi dalla Congregazione per la dottrina della fede. Questo “stato di eccezione” non costituiva causa di riconciliazione, ma di lacerazione.

La “invenzione della duplice forma” introdotta dal motu proprio Summorum Pontificum era orientata ad una riconciliazione: una riconciliazione con il “tradizionalismo”, sia esterno alla Chiesa cattolica, sia interno alla comunione cattolica. Ma il nobile fine di una Chiesa liturgicamente riconciliata è stato perseguito mediante uno strumento troppo fragile, troppo astratto e non poco insidioso: ossia attraverso un “parallelismo rituale generalizzato”. Ci si era convinti, nel 2007, che la presenza parallela di una “forma straordinaria” accanto alla “forma ordinaria” avrebbe riportato la pace nella Chiesa. L’esito dell’esperimento di questi quattordici anni ha però mostrato ampiamente che il mezzo della “doppia forma dell’unico rito romano” è non soltanto una costruzione teologicamente astratta e senza solido fondamento teorico, ma è anche un rimedio istituzionalmente incontrollabile, ecclesialmente alquanto lacerante e spiritualmente insidioso. Non alimenta la riconciliazione, ma la divisione e la sedizione, su entrambi i versanti: rende il rito antico sempre più oscurantista e il rito riformato sempre più intellettualistico. Ed è singolare che, sul piano strettamente teologico, non pochi teologi si siano semplicemente “adattati” – con scarsa responsabilità – a sostenere in modo acritico una tesi tanto debole sul piano teologico, quando pericolosa sul piano pratico2.

Nell’individuare la impossibile coesistenza di due forme diverse del medesimo rito romano, la via della riconciliazione – questa sorta di “ecumenismo intracattolico” – non deve essere più pensata a livello di “forme parallele”, ma come evoluzione dell’unica forma celebrativa, da assumere proprio nella serietà della sua natura di “forma rituale”. Il bisogno di una riconciliazione liturgica, dal Concilio Vaticano II potentemente introdotta nella coscienza e nel corpo ecclesiale, deve abbandonare la strategia dello “stato di eccezione”, che ha caratterizzato la Chiesa dal 2007 fino ad oggi, e deve imboccare e riprendere il cammino di un’unica forma rituale, che assuma in pieno tutti i linguaggi della celebrazione. Proprio questo cammino risulta chiaramente dischiuso dal MP Traditionis custodes nonché dalle chiare parole con cui la Lettera ai Vescovi di papa Francesco ne precisa intenzioni e motivazioni, per superare ogni tentazione di “anarchia dall’alto” e restituire la esperienza liturgica alla ricchezza della sua tradizione comune e popolare, così come voluta dal Concilio Vaticano II.

1 Così su Avvenire, 8 luglio 2007, 1.

2 Cfr. H. Hoping, Il mio corpo dato per voi. Storia e teologia dell’eucaristia, Queriniana, Brescia 2015 (ed. orig. 2011). Non sono mancati anche in Italia imprudenti valutazioni sulla qualità di “stile cattolico” del provvedimento.

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