Il disagio del Dicastero: fede ecclesiale e nuovi paradigmi per la sua formulazione


Non vi è dubbio che, alla terza occasione in cui il Dicastero per la dottrina per la fede, sotto la guida del Card. Fernandez, si pronuncia ufficialmente, dimostra con evidenza una sofferenza dottrinale che merita di essere considerata. Dopo alcune risposte interessanti a diversi “dubia” (sia dei 4 cardinali sia di singoli Vescovi) la sequenza di Fiducia supplicans, di Gestis verbisque e ora di Dignitas infinita porta in primo piano una specifica questione che potremmo esprimere in questo modo:  come si deve muovere argomentativamente una dottrina cattolica che voglia davvero prendere sul serio l’invito, del Concilio Vaticano II e poi di papa Francesco, a distinguere tra “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei” e la “formulazione del suo rivestimento”? Qui troviamo, come guide, non solo le indicazioni conciliari, ma di recente, il grande Proemio a Veritatis Gaudium, alcune istanze chiare già di Evangelii Gaudium, la recente lettera di papa Francesco al nuovo Prefetto e infine alcuni passi significativi contenuti nel Documento di Sintesi del Sinodo dei Vescovi.

Nei tre documenti che abbiamo letto negli ultimi 4 mesi nessuno può negare che appaia con chiarezza una “nuova intenzione” e tuttavia essi non mostrano alcuna vera traccia di una “nuova impostazione”. Mi spiego. Se si vuole rispondere alla “domanda di benedizione” che viene da una parte del popolo di Dio, in una forma non irrigidita da condizioni morali di perfezione, occorre predisporre un modo di concepire il “benedire” che non sia costretto alla clandestinità non rituale e non liturgica per poter affermare un’ideale di “integrazione” che resta solo formale e clericale. D’altro canto, in un altro ambito, la questione più classica della “validità del sacramento”, in presenza di alterazioni della “formula sacramentale”, avrebbe potuto attingere in modo significativo al nuovo concetto di “forma rituale” maturato lungo il XX secolo e passato attraverso il Concilio Vaticano II, piuttosto che riesumare, come se nulla fosse, il vecchi concetti giuridico-dogmatici di una sacramentaria statica e senza considerazione del culto come “luogo di evidenza” della verità del sacramento. In modo ancora più significativo mi pare che questo disagio, nel comporre in modo significativo la nuova istanza con una impostazione sistematica rinnovata, appare con chiarezza nei 66 numeri di Dignitas infinita. Ciò che colpisce maggiormente, in questo ultimo documento, è la assenza di confronto con la tradizione culturale degli ultimi 200 anni. Non vi è dubbio che la maturazione sul tema della “dignità dell’uomo” (e della donna) sia recepita come un fatto, come se la Chiesa lo avesse elaborato in piena autonomia. Anche qui, come fece Amoris Laetitia nei suoi primi pregevoli numeri, non sarebbe stato fuori luogo mostrare come la recezione della Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, formulata dall’ONU nel 1948, sia stata anche il frutto delle rivoluzioni politiche di fine 700, di fronte alle quali la Chiesa cattolica ha faticato 15o anni nel comprenderne anche gli elementi positivi. Una “sana autocritica” intorno alla dignità dell’uomo e della donna sarebbe stata salutare e molto efficace. Ma ciò che colpisce, alla lettura del testo, sono le categorie di un tenue personalismo, che non riesce a confrontarsi davvero se non con la definizione di “persona” di Boezio. Le fonti premoderne del confronto permettono di elaborare una sistematica della dignità che resta, sostanzialmente, indietro di 200 anni. Non si può non notare come la intenzione fondamentale, che caratterizza il pontificato di Francesco, consista nel “riavvicinare” in modo forte magistero morale e magistero sociale, attenzione all’uomo e al creato, attenzione alla libertà e alla fraternità. E ci sono testi in cui questa operazione è stata condotta con significativa incisività. Ma lo strumento per proporre questa novità, nella forma della Dichiarazione, si presenta in uno stile vecchio, stanco, non dialogico e un po’ fondamentalista. Nella lettera che il papa aveva scritto la scorsa estate al nuovo Prefetto chiedeva una cosa molto precisa, che si articola in due importanti proposizioni:

Per non limitare il senso di questo compito, bisogna aggiungere che si tratta di “accrescere l’intelligenza e la trasmissione della fede a servizio dell’evangelizzazione, perché la sua luce sia criterio per comprendere il senso dell’esistenza, specialmente di fronte alle questioni poste dal progresso della scienza e dallo sviluppo della società”[3]. Questi temi, accolti in un rinnovato annuncio del messaggio evangelico, «divengono strumenti di evangelizzazione»[4], perché permettono di entrare in dialogo con «l’attuale contesto in quanto inedito nella storia dell’umanità»[5].

Sappi, inoltre, che la Chiesa «ha bisogno di crescere nell’interpretazione della Parola rivelata e nella comprensione della verità»[6], senza che ciò implichi l’imposizione di un unico modo di esprimerla. Perché «le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere anche la Chiesa»[7]. Questa crescita armoniosa conserverà la dottrina cristiana più efficacemente di qualsiasi meccanismo di controllo.”

Se alla fine di un documento sulla “dignità infinita” dell’uomo e della donna ci si confronta con quella che viene chiamata “ideologia gender” e si usano, come uniche fonti citate in nota, le parole che papa Francesco ha pronunciato in diverse occasioni, senza mai esaminare l’oggetto del giudizio (la teoria di genere) in modo complessivo, ma considerandola solo per i suoi contenuti “ideologici”, si viene meno a quel compito di “intelligenza della fede” che non può convocare la cultura contemporanea solo “in contumacia”. Se non lo fa il Dicastero per la dottrina per la fede, chi mai dovrebbe farlo? Se la relazione tra “sesso biologico” e “genere culturale” non si può risolvere con facilità in una “oggettività biologica”, ma esige, da sempre, un “lavoro culturale” di interpretazione sociale e relazionale, perché mai liquidare le questioni come se fossero oggetto di “scontri di civiltà” o fossero segni di “cultura di morte” o negazioni della dignità? Curiosamente, le ragioni per superare la guerra come “gestione dei conflitti”, che nega la dignità infinita di ogni uomo e di ogni donna, convive qui con una sorta di “fondamentalismo naturalistico” sul corpo sessuato, che assomiglia, purtroppo, alle forme di “non sapere” con cui altre chiese possono oggi arrivare a  giustificare la guerra, contro la corruzione dei costumi occidentali. Se il documento fosse stato davvero il frutto di un confronto culturale non ridotto a slogan, avrebbe potuto comprendere che solo una “teoria del gender”, se considerata nella sua serietà scientifica e morale, è in grado di comprendere fenomeni del nostro tempo, che altrimenti vengono demonizzati e ridotti a “questioni d’onore”. Siamo sicuri che una lettura della donna come “pienamente degna di esercitare la autorità” possa essere portata a buon fine senza una “lettura di genere”? Oppure pensiamo che la “infinita dignità” della donna abbia già in sé il meccanismo “ontologico” che possa relegarla naturalmente in cucina e che di questo la donna dovrebbe essere solo grata, senza che la sua dignità le suggerisca di avere un diritto diverso? In realtà abbiamo una teoria della “dignità infinita” che, sul più bello, ragiona solo in termini di “onore”, non facendo i conti con gli uomini e le donne del 2024, ma continuando a parlare agli uomini e alle donne di 200 anni fa. Questo è il disagio a cui il Dicastero dovrebbe rimediare con grande urgenza. La questione riguarda i paradigmi e per questo è assolutamente urgente.  E non si può aggirare il compito con la giustificazione, proposta dal Card. Fernandez all’inizio della conferenza stampa di presentazione del testo, che “lo ha chiesto il papa”. Il papa chiede di “aprire un varco” (nel campo della benedizione, della validità sacramentale o della tutela della dignità), e fa bene a farlo, ma i paradigmi di interpretazioni e gli strumenti di espressione sono “patrimonio” della tradizione sistematica cattolica, nella quale una elaborazione nuova è inaggirabile, è affidata a specifici uffici e non può procedere per slogan, ma per argomentazioni stringenti. Come aveva detto il Prefetto Mueller, alcuni anni fa, non a torto, si tratta di “dare rigore” alle espressioni del magistero papale. Pensare che possiamo dare risposte vere ai problemi nuovi rilanciando una definizione di Boezio, inventando una “benedizione pastorale” che non appare infinita, ma “indefinita”, ricostruendo avventurosamente la “storia della dignità moderna” come se fosse opera della Chiesa cattolica, scovando un precedente delle benedizioni non rituali in un provvedimento del Prefetto J. Ratzinger o facendo emergere da un discorso di occasione una espressione felice, ma non tecnica, di Giovanni Paolo II (questa è la origine del termine “dignitas infinita”), non risponde davvero alle questioni, ma mette in pace solo qualche ansia clericale. Questo modo di procedere, in quanto è autoreferenziale, produce un effetto clericale. Di queste finte soluzioni non abbiamo più alcun bisogno. Esse alimentano una “retorica” che diventa sempre meno convincente, perché non elabora argomentazioni, ma produce slogan. Le argomentazioni dell’ultimo documento, purtroppo, non hanno una “infinita dignità”, ma una portata dottrinale molto “finita”, esibendo logiche poco convincenti, che non si possono difendere solo col principio di autorità.

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