Infinita sì, ma anche indefinita. La Dichiarazione “Dignitas infinita” e la “società della dignità”


Un ricorso abbondante all’aggettivo “infinito” appare con singolare forza negli ultimi due documenti del Dicastero per la dottrina della fede. Il termine “amore infinito” si trova nel testo di Fiducia supplicans (= FS) e fonda la possibilità di superare i limiti delle forme ecclesiali: l’amore infinito di Dio può superare la finitezza sia dei soggetti supplicanti, sia delle strutture con cui la chiesa provvede al suo ministero.

Ecco un testo significativo di FS:

La Chiesa è così il sacramento dell’amore infinito di Dio. Perciò, anche quando il rapporto con Dio è offuscato dal peccato, si può sempre chiedere una benedizione, tendendo la mano a lui, come fece Pietro nella tempesta quando gridò a Gesù: «Signore, salvami!» (Mt 14, 30). Desiderare e ricevere una benedizione può essere il bene possibile in alcune situazioni.” (FS, 43)

Il termine “dignità infinita” si trova addirittura come titolo del secondo documento –Dignitas infinita (=DI) e si riferisce ad una qualità personale e diremmo “sacra” di ciascun uomo e di ciascuna donna. L’amore infinito è di Dio, ma dal momento che si è rivelato pienamente nel Figlio di Dio, che è vero uomo, ha conferito ad ogni umano una infinita dignità. In Cristo siamo tutti fratelli e sorelle. Questa affermazione, tuttavia, si presta ad un equivoco: può essere fatta in modo “universale”, ma la universalità del cattolicesimo (appunto “catholicòs”, universale) si fonda su una molteplice “contingenza”: la storia della salvezza come rivelazione di Dio (creatore e redentore) e la fede umana come risposta. Per questo può suonare sorprendente la ripetuta affermazione, che compare ben 11 volte nel testo di DI, secondo cui, come si legge già al n. 1 del documento:

Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti”.

Il termine “infinito” si può predicare di Dio e, in una certa misura, anche dell’uomo. Bisogna però considerare che, quando è predicato di Dio ha una sua accezione specifica; quando invece si attribuisce all’uomo, subisce una trasformazione: nell’uomo “infinito” significa sempre anche “indefinito”. Nell’uomo e nella donna, infatti, la dimensione del “finito” non è accessoria, non è esteriore. L’infinito umano è partecipazione del finito ad una dimensione ulteriore, diversa, altra. L’infinito, nell’uomo, supera la totalità immanente e lo apre all’altro. Il rischio, tuttavia, è che l’infinito, se non si determina in modo finito, scivoli nell’indefinito, nell’indeterminato e non sia realmente parte della sua realtà.

In altri termini, l’amore infinito di Dio, che si fa creazione e redenzione, può arrivare a segnare l’uomo, dotandolo di una “infinita dignità”, che tuttavia nell’uomo deve essere determinata. Questa determinazione della dignità esige che l’infinito prenda figura, si strutturi, assuma linguaggi, forme, modi, stili, istituzioni. Esige un passaggio complesso dal dono, al dovere fino al diritto. Qui, a me pare si inserisce una considerazione necessaria del modo con cui il documento DI considera la storia di questa determinazione della dignità dell’uomo e della donna.

A questo livello forse si riscontra un piccolo problema, che deriva dal modo stesso con cui vengono concepiti questi documenti magisteriali. Il titolo è tratta da un contesto occasionale, ossia dal testo di una preghiera dellAngelus pronunciata da Giovanni Paolo II di fronte ad una comunità di disabili ad Osnabruck, nel 1980. In quel contesto la espressione “dignità infinita” appare un atto di riconoscimento, un gesto di rispetto e di onore nei confronti di soggetti segnati da più o meno gravi forme di “handicap”. E’ un movimento della fede, della speranza e della carità. Non si tratta, evidentemente, di una “locuzione” che possa essere considerata un termine “tecnico”. Questo non è affatto problematico nel 1980 ad Osnabruck, ma può diventarlo in un documento formale, 44 anni dopo.

In effetti se osserviamo bene la impostazione del documento, la sua struttura, presenta, contemporaneamente, una articolazione sistematica e una articolazione storica. Sul piano sistematico si propone, per non creare confusioni, una distinzione del termine “dignitas- dignità” a 4 livelli: dignità ontologica, dignità morale, dignità sociale e dignità esistenziale. Il modo con cui la distinzione viene presentate offre motivi di riflessione ed anche di critica, ma ci torneremo più avanti. Qui è più interessante, però, valutare la ricostruzione storica, che dipende, in un certo senso, dalla ricostruzione sistematica e a sua volta la influenza. I limiti della ricostruzione storica sono legati, precisamente, alla scarsa considerazione della interazione tra i 4 concetti di dignità: se si propone una distinzione su 4 livelli della esperienza di dignità, ma poi si fa la storia soltanto di una accezione del termine (la prima), si perde precisamente la profondità storica del concetto. In questo modo, al di là delle intenzioni, la “dignitas infinita” diventa “dignitas indefinita”. Provo a mostrare in che senso la “storia della dignità” non onora la storia reale e diventa quasi una “narrazione ideale” e forzata, poco fondata sul piano della esperienza e troppo edulcorata nei suoi interni contrasti.

La storia della dignità e la “società della dignità”

Per rilevare la debolezza della ricostruzione storica presente nel documento, che compromette la lettura teorica e la interpretazione delle sfide contemporanee, vorrei partire da una teoria che un filosofo cattolico (Ch. Taylor) ha elaborato nel percorso della sua riflessione. In breve, egli identifica nella “società della dignità” la caratteristica fondamentale della tarda modernità in contrasto con la “società dell’onore”, che è tipica del mondo tradizionale. La società della dignità vive di libertà e di eguaglianza, mentre la società dell’onore vive di autorità e di differenza. Inoltre la società della dignità si fonda su una “evidenza universale”, mentre la società dell’onore si basa su “onori particolari”, su distinzioni e su preferenze. Ciò che mi pare rilevante, in questa ricostruzione, è la consapevolezza che il concetto di “dignità universale” (o infinita) è il prodotto del mondo tardo-moderno. In un certo modo anche DI lo riconosce, ma solo in nota e non nel testo. Infatti è assai interessante notare come alla affermazione che “fin dall’inizio la Chiesa, sulla spinta del Vangelo, si è sforzata di affermare la libertà e di promuovere i diritti di tutti gli esseri umani” (DI, 3) corrisponda, in nota, un elenco di citazioni che iniziano dal 1891! La nota afferma, pudicamente, “ponendo attenzione solo all’epoca moderna”, ma solo perché prima la questione non si poneva.E’curioso come appaia una certa “parresia” più nel passato che nel presente. Il testo più antico che viene citato è Rerum novarum che già dal titolo sa di parlare di “cose nuove”. Non quello che sempre abbiamo saputo, ma cose nuove! Leone XIII diceva consapevole che da un secolo nella chiesa aveva prevalso un Rerum veterum e che era venuto il momento di parlare di rerum novarum. Uno dei punti decisivi era appunto la “dignità” (nel caso specifico la dignità del lavoro e dei lavoratori). Se in un documento del 2024 ci si preoccupa anzitutto di dire “la Chiesa lo ha sempre detto”, ma si citano solo documenti della fine del XIX secolo, si propone una operazione “senza autocritica”. Per parlare della dignità questo è uno dei metodi più rischiosi. La cosa viene in certo modo confermata dal “chiarimento fondamentale” che si trova ai nn.7-9, dove una positiva comprensione “plurale” della dignità (ontologica, morale, sociale e esistenziale) si risolve sul piano di una “sostanza individuale” (di natura razionale) secondo la definizione di Boezio, che pone e impone una definizione metafisica e pre-moderna di dignità come criterio per leggere la storia. Proprio qui, a me pare, il documento sostituisce la sostanza alla relazione e produce, nella sua prima parte, una lettura della “storia della dignità” senza vero spessore. La elaborazione della dignità “al di là di ogni circostanza”, per quanto sia certamente ispirata anche dalla tradizione cristiana, si è sviluppata negli ultimi 200 anni in larga parte “in opposizione” al cattolicesimo. E’ veramente singolare che la sottolineatura dell’”al di là di ogni circostanza” venga sostenuta dalla Chiesa cattolica, che vive radicalmente dell’annuncio della circostanza della creazione e della redenzione. Questa è una “storia” che mira alla universalità, ma elabora contingenze. La assunzione su questo piano di un linguaggio “giuridico- formale” da parte del magistero ecclesiale è uno sviluppo recente, ma è tratto dalla comunicazione politica e giuridica tardo-moderna, non è originario per la Chiesa. La produzione di questo linguaggio ha avuto una matrice storica nella scoperta della “universalità dei diritti”, anche se la Chiesa cattolica sembra volerlo assumerlo solo parzialmente, non di rado proprio per “contestare” i diritti. Qui vi è un punto delicatissimo, che avrebbe meritato maggiore attenzione e maggiore definizione.

L’infinito rivelato e la sua definizione storica

Come abbiamo visto, la “infinita dignità” di ogni uomo e ogni donna, affermata per inciso e senza un intento “definitorio” da parte di un papa, è diventato il titolo programmatico di un documento riferito ad un suo successore. Ma come de-finire questo in-finito della dignità? Una via avrebbe potuto essere quella di leggere la “dignità” come realtà “in sé” o come realtà “per altro”. L’infinito “per altro” (per Dio e per il prossimo) e l’infinito in sé non sono affatto la stessa cosa. Per questo un documento che nelle prime parti costruisce il concetto di dignità infinita, nella quarta parte passa in rassegna tutte le “negazioni” di questa infinita dignità. Ma queste negazioni non sono solo la “invenzione moderna”, ma anche la eredità storica, alimentata anche dal cristianesimo e dal cattolicesimo. La citata distinzione tra 4 significati di dignità (ontologica, morale, sociale e esistenziale) permette di problematizzare la infinita e incondizionata dignità di ogni uomo e di ogni donna. Nel finito e nella contingenza storica l’infinito di Dio tocca ogni uomo e ogni donna. Dio e il prossimo sono le “condizioni” della dignità, sono il paradosso “altro” di questa concezione del soggetto umano. Infinita è la dignità dell’altro: è infinita la dignità di un soggetto quando diventa oggetto della cura, della attenzione e del riconoscimento altrui. Per questo prende più facilmente il nome di dono o di dovere, che non quella del diritto. Ed è qui, a mio avviso, il punto fragile di tutta la costruzione. La infinita dignità dell’uomo e della donna scaturisce dal dono e dal dovere dell’altro di cui è oggetto, ma non sembra risiedere nel diritto di cui è soggetto, se non metafisicamente. D’altra parte, si deve riconoscere che la “cultura dello scarto” è il frutto non solo di una cultura dei diritti, ma anche di una cultura del dovere e del dono, potrebbe essere una riflessione utile per correggere la componente “antimoderna” di questa concezione della dignità, che nella sua infinitezza, sconfina nell’onore: ossia in una concezione della libertà solo come autorizzazione e della eguaglianza come negazione della differenza gerarchica costitutiva delle relazioni. La dignità è infinita perché “posta” dall’infinito di Dio. In sé è per altro: è sostanza, perciò, in un senso piuttosto originale. Questa sporgenza rispetto al soggetto ne stabilisce una oggettività che si propone come una ontologia metafisica. L’infinito della dignità tende però ad imporsi su ogni circostanza, che vorrebbe negarla: l’infinito della dignità può così guardare dall’alto ogni finitezza, fino a diventare il possibile supporto ad una ideologia senza storia, senza sviluppo e senza alcun divenire possibile. Ciò che la sola ragione dovrebbe riconoscere, presuppone però la contingenza benedetta di una rivelazione e di una fede, che viene rimossa nel momento in cui si astrae da “ogni circostanza”.

La dignità dell’uomo, di Dio e dell’animale

Una piccola sintesi, che suonerà quasi come una provocazione, può procedere da alcune evidenze primarie. In Dio la dignità infinita corrisponde ad una completa definizione. La infinità della dignità si pone come integralmente definita. Nell’animale la dignità finita è anche pienamente definita. Dio è sempre e infinitamente se stesso. L’animale è sempre se stesso, ma in modo finito, non per sempre. Nell’essere umano, invece, la dignità infinita sporge sulla sua natura “indefinita”. Nell’uomo e nella donna la “infinità della dignità” sta in una relazione costitutiva di “creazione” e di “immagine e somiglianza”, è un “venire da” e un “tendere a”. Potremmo dire che rispetto a Dio e all’animale, l’uomo contribuisce alla determinazione della propria dignità infinita, che non è “già data”, se non come “dono” che deve diventare “compito” e “diritto”. Per questo, a me pare, la affermazione di una “dignità” indipendentemente da ogni circostanza unifica tanto la tradizione politica e civile (che la assolutizza come diritto), quanto la tradizione teologica e ontologica (che la pone come dono), ma è una “astrazione” che rischia di emarginare la contingenza della storia. E’ vero e deve essere riconosciuto: da uomini e cristiani tardo-moderni, abbiamo la necessità di trovare l’uomo e la donna “immediatamente”, per poterli rispettare radicalmente e ad ogni costo. La questione, però, è che la “ontologia” della dignità umana non è quella di una “sostanza individuale”, ma di un “animale che ha parola e mani” e che trova se stesso parlando, pensando e agendo. Se la dignità ontologica non è autonoma, ma sta in una relazione originaria con la dimensione morale, sociale ed esistenziale, una storia dei comportamenti, delle relazioni sociali e della coscienza diventa una condizione del rispetto dell’altro. Queste circostanze (che chiamiamo fede, speranza e carità) sono decisive per poter giungere ad un atto di onore per la dignità altrui che arrivi a non dipendere dalle circostanze. Questa dignità infinita non è semplicemente “conosciuta” o “constatata” dalla ragione, ma “creduta”, “sperata” ed “amata” dal cuore. Queste “virtù” sono condizioni non solo di esercizio, ma di riconoscimento, di elaborazione e direi di “genealogia” della fratellanza.

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