Una medicina o un veleno? Un libro su “Amoris Laetitia” di G. Meiattini (recensione di Marco Gallo)


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A due anni dalla firma di Amoris Laetitia, un serio dibattito su questo testo importante merita ancora attenzione. Soprattutto per guidare una recezione del documento che, data la sua novità, mette a dura prova pastori, teologi e battezzati. In particolare la relazione tra “nuova dinamica morale” e “nuova pratica sacramentale” costituisce, senza dubbio, un compito in larga parte da eseguire e su cui gli orientamenti proposti dalla Esortazione, nella loro preziosa essenzialità, chiedono esplicitamente di essere integrati da altri interventi autorevoli, sul piano del magistero locale e della riflessione teologica. Questa non è una debolezza, ma la grande forza di AL. Nell’ambito di queste importanti discussioni, presento volentieri una recensione del testo di Giulio Meiattini, Amoris Laetitia? I sacramenti ridotti a morale (La Fontana di Siloe, Torino 2018): l’autore è mio collega di teologia sistematica e spirituale, prima a S. Giustina e poi a S. Anselmo, con il quale abbiamo già in altre occasioni discusso appassionatamente su temi inerenti la “visione teologica” di papa Francesco. In questo caso si tratta di un volumetto agile, ma impegnato, che contesta il cuore del progetto della Esortazione Apostolica. Lo fa con serietà e con rigore. Per questo merita una recensione accurata, come quella qui proposta da Marco Gallo, che è stato nostro comune allievo a S. Anselmo, dove ha conseguito il Dottorato in Teologia sacramentaria, ed ora è nostro collega di insegnamento e di ricerca: è infatti docente di teologia sacramentaria allo STI e all’ISSR di Fossano ed è stato professore invitato all’ISL di Parigi.

 Una medicina o un veleno?

Giulio Meiattini: Amoris Laetitia, una manomissione dei sacramenti

 di Marco Gallo

 Il sacramento ridotto a etica generale, l’assenza di un rito pubblico per la riammissione, la via caritatis ed il discernimento in foro interno, il peccato ridotto a imputabilità: questi sono i punti fragili di Amoris Laetitia secondo Giulio Meiattini. Nella intelligente rilettura critica di AL, emerge però una teologia sacramentaria tendenzialmente astorica, persino astratta, che pretende di decidere con la sua forma le storie, che cerca tutela dal diritto, non nella pratica.

 L’autore e il testo

Dom Giulio Meiattini è (stato mio) docente molto apprezzato del Pontificio Ateneo s. Anselmo e presso la Facoltà Teologica Pugliese, monaco dell’Abbazia benedettina Madonna della Scala (Noci, BA). Nel suo recentissimo Amoris Laetitia? I sacramenti ridotti a morale (La Fontana di Siloe, Torino 2018), egli raccoglie ed argomenta con attenzione alcune considerazioni critiche che aveva già parzialmente pubblicato sulla rete.

Il volumetto (184 pagine) si sviluppa in nove capitoli, con una appendice significativa (Il tempo è superiore allo spazio? Intorno a una tesi di papa Bergoglio). L’intento è di inserirsi nel dibattito scaturito dopo la pubblicazione di Amoris Laetitia (AL) costituendo “una domanda, in spirito di collaborazione, a considerare seriamente alcuni aspetti problematici e confusi che non si possono e non devono sfuggire al lettore che studi attentamente l’esortazione” (11). Non dunque una sterile contestazione negli intenti dichiarati, ma un serrato dialogo critico, che non tace (o meglio, cita rapidamente) l’apprezzamento per le parti positive del documento di Francesco (“l’intensa fenomenologia dell’amore concreto, sulla linea di 1 Cor 13, e l’invito a considerare il carattere graduale del cammino verso la pienezza della carità all’interno della famiglia”, p. 13). La lettura del testo è esercizio proficuo, di stile, di profondità e di dialogo con numerosi autori.

 Il filo dell’argomentazione

La tesi di Meiattini sta più nel progetto che in singole argomentazioni. La riassumerei così: essendosi scatenato un impressionante conflitto di interpretazioni dopo la pubblicazione di AL (cap. 1), non placato, anzi amplificato da una nuova presa di posizione in merito di Papa Francesco nel settembre 2015 (cap. 2), risulta dunque evidente che AL corrisponde ad un progetto di magistero inefficace del pontefice (capp. 3-7). Le reazioni contraddittorie tra gli episcopati non si devono dunque alla legittima differenza culturale o all’inesperienza nell’elaborare una comunione sinodale senza aspettare un pronunciamento centrale, ma sono il sentore chiaro che il testo che le ha scatenate è responsabilmente debole (cap. 8), non è in continuità con la dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio ed in ultima analisi ospita una teologia sacramentaria fragile, che, secondo l’autore, il sensum fidelium non accetterà e farà saltare grazie alla difformità dell’applicazione.

Rileggiamo ora l’argomentazione in quattro passaggi. Al termine di ognuno, proverò a rilanciare il dialogo con il teologo benedettino, ponendo delle domande, magari in attesa di una sua gradita replica.

 Guardare compiaciuti il conflitto delle interpretazioni

Meiattini sceglie di esporre le differenti reazioni a AL non in ordine cronologico (anzi) o per aree geografiche, ma quasi polarizzandole. Il panorama delle prese di posizione dei commentatori dell’esortazione apostolica è sorprendentemente offerto senza che si ricostruiscano i contesti delle prese di parola. Che i vescovi della regione di Buenos Aires pubblichino Criteri (2015) in cui FC 84 risulti superata, e che l’episcopato polacco pubblichi un testo (2017) in cui sostanzialmente si riconduce AL dentro Familiaris Consortio (FC) è citato ad esempio come se, tra Polonia e America Latina, si trattasse di un unico tessuto culturale che sta spaccandosi. La sola concessione ai contesti culturali è occasione per una sarcastica osservazione sul fatto che il papato delle periferie non intercetti la visione teologica ed ecclesiale delle periferie, come quelle africane (p. 29). L’effetto appositamente creato dalla cronaca è quello di un vociare disordinato delle chiese. Quasi un litigare: un conflitto appunto. “Il serio conflitto […] è un palese segno di grave disagio” (p. 147). Così l’autore può affermare:

 “Questa situazione complessiva così imbarazzante dà però l’occasione di osservare un fatto molto semplice, ma assai significativo. Davanti allo spettacolo di un episcopato mondiale diviso sul punto in questione o, più spesso, stranamente silenzioso, viene da pensare che la collegialità e la sinodalità, mediaticamente così enfatizzate in relazione ai sinodi 2014 e 2015 sulla famiglia, in realtà non abbiano funzionato a dovere. Mai nel post-concilio, dopo un sinodo dei vescovi, si era assistito a una così evidente polarizzazione” (p. 30).

 All’attento professore si potrebbe chiedere:

  • Che cosa c’è di così nuovo nella ricezione faticosa di un importante atto magisteriale? Humanae Vitae o Veritatis Splendor hanno conosciuto dibattiti e spaccature, visibili o sommersi, ben più dolorosi.

  • Ciò che è inedito è certamente l’esplicito compito affidato dal pontefice all’episcopato di assumere il suo compito rispetto alle chiese locali, fino ad assumere “qualche autentica autorità dottrinale” (Evangelii Gaudium 32). È pensabile che la sinodalità, a cui non siamo stati sufficientemente abituati, si manifesti immediatamente come un coro sinfonico? Questo conflitto non è forse semplicemente l’esplicitarsi di ciò che da sempre vive sottotraccia?

 La realtà è più importante dell’idea?

Ecco il primo punto su cui si gioca la discussione teologica: “l’aperturismo” pastorale e discrezionale di AL sarebbe dovuto a una concezione del magistero che non ha oggetto, che è incoraggiamento mai decisivo, perché si riduce a un metodo (il discernimento), ed è dunque vuoto di contenuti (p. 47, n. 6).

Se è al primo dei quattro principi di EG (“il tempo è superiore allo spazio”) che Meiattini dedica una interessante appendice critica, è piuttosto al terzo di essi (“la realtà è più importante dell’idea” EG 231-233) che dobbiamo secondo l’autore l’impostazione fondamentalmente discutibile del capitolo VIII di AL. “La realtà” sarebbe qui il convincimento interiore circa la propria vita morale dei fedeli in nuova unione che si accostano al confessore. L’autore la tratta come un moto inverificabile (“interiorità senza esteriorità” p.78), senza dimostrabilità nella vita, nella richiesta di passi di riconciliazione, di buona testimonianza che non scandalizza rispetto al sacramento, garantito invece solo dal processo canonico (p. 77). Così può permettersi di scrivere che in AL vale in principio “l’interiore è superiore all’esteriore” (p.119). “L’idea”, che è “meno importante”, sarebbe infatti l’esteriorità del rito, la proposta della immutata dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio, che AL svuoterebbe, come ideale astratto AL 36 (pp. 98-99).

Questo argomento è evidenziato, partendo da una minuziosa analisi del noto testo dei vescovi della regione di Buenos Aires. Il decalogo, che Francesco ha fatto proprio come l’unica interpretazione autentica del capitolo VIII di AL, è scritto con un linguaggio che spoglierebbe il Magistero d’ogni significatività, perché privato di normatività assoluta. Il fatto che il testo argentino, sul tema della continenza da richiedere alla coppia in nuova unione, dica che esso “si può proporre” “quando le circostanze concrete di una coppia lo rendono fattibile” mostrerebbe persino una forma gnostica della fede, in cui Dio può chiedere anche di perseverare nel male. È sorprendente come, nell’argomentazione, ogni relazione che si strutturi fuori dalla forma canonica sacramentale sia definita sempre “un rapporto oggettivamente adulterino”, “intrinsece malum” (p.38, 54-58, 103). Ciò che AL chiede di vedere, caso per caso, sarebbe semplice ascolto cortese, non la consapevolezza che ogni rapporto con la sua storia ha da rivelare qualcosa di originale ed unico. Il matrimonio civile, la vita fedele di anni in nuova unione non hanno consistenza, l’aver subito un abbandono e aver creato una stabile unione resta comunque un male: “un incidente stradale causato da un non colpevole malore non fa cambiare le conseguenze nefaste dell’incidente stradale né la natura patologica del malore” (p. 59).

Tutta la riflessione critica su questa proposta pastorale, alla quale è dovuta la nota 329 di AL, è liquidata con una osservazione che potrebbe persino sembra irrispettosa, a p. 40 (se “non è fattibile” per un coniuge restare continente se l’altro si ammala, potrebbe aver rapporti con un’altra persona?). Con questo argomento Meiattini mostra senza dubbi la chiave sulla quale rilegge il discernimento in AL: riflettere sulle circostanze della scelta morale significa nel ragionamento di AL cercare attenuanti alla coscienza. Se essa ha attenuanti allora la situazione peccaminosa che perdura non è mortale e quindi assolvibile. Questa è la ricostruzione che l’autore fa della via caritatis. Si tratta quindi, per lui, non tanto di una piccola concessione, quanto piuttosto saremmo davanti “al debole inizio di una valanga o al primo crollo di provocato da una bomba atomica teologica, che minaccia di squarciale l’intero edificio morale dei dieci comandamenti e dell’insegnamento morale cattolico” (Seifert, cit. p. 76). Realmente, tutte le situazioni di nuova unione accompagnate, in discernimento, integrate sono l’inizio della fine, addirittura dell’alleanza del Sinai?

 Potremmo chiedere all’autore:

  • Davvero nel dialogo personale il sacerdote non può far prudentemente e paternamente da garante alla sacramentalità del matrimonio? Con foro interno si intende forse che la Chiesa è spettatrice muta del processo del credente che accompagna? È forse egli un confessore che non appartiene ad un corpo sacramentale del presbiterio, unito al vescovo, inserito in una comunità che vorrà tutelare, di cui fanno parte anche i volti delle eventuali altre persone non presenti nel dialogo o la comunità che forse ancora non sa leggere il valore del processo?

  • E poi: riflettere, come fa J.-P. Vesco, sull’equazione tra seconde nozze e adulterio è possibile? Discutere “la categoria di reato d’adulterio” non significa sminuirne il dramma, ma riflettere su una nuova ermeneutica giuridica: da reato continuativo a reato istantaneo.

 Chiedo ora al pastore d’anime:

  • Dom Giulio, quando ascolta ciò che si è creato negli anni, magari dopo una colpevole o complessa rottura di fedeltà, con quale linguaggio dichiara alla coppia in nuova unione che si tratta di un legame per sempre privo di grazia santificante e lo liquida come adulterio, male, effetto di un incidente? (AL 310).

 La prevalenza dell’antropologia sulla teologia

L’argomento saliente e più interessante del testo è esposto nel capitolo 3, nel quale Meiattini diagnostica una fragilità teologica fondamentale di AL. I criteri decisivi del matrimonio sono reperiti, in particolare nel cap. VIII, secondo l’autore, nella sfera morale, mentre l’assenza di riferimenti alla celebrazione rituale delle nozze nell’esortazione sarebbe un segnale eloquente della sorprendente fragilità teologico sacramentale dell’esortazione. La via caritatis si baserebbe perciò su una norma di etica generale (norma-attenuanti-colpevolezza) e non su una base teologica cristiana: “sia AL sia la discussione che ne è seguita si muove su parametri morali del tutto disancorati dal quadro sacramentale” (p. 63). Una pregevole fondazione sacramentale dell’etica credente (pp. 63-69) arriva a concludere che invece le considerazioni del cap. VIII procedono etsi sacramentum non daretur. La vita liturgico-sacramentale è vita etica in atto, culmine e fonte d’ogni vita cristiana autentica, che quindi si rintraccerebbe nella visibilità della grazia e non nella invisibilità interiore come fa AL nel cap. VIII, che finisce addirittura per capovolgere la scena: l’ammissione esteriore ai sacramenti si darebbe infatti sul convincimento interiore morale, solo etico. L’argomentazione ha le sue fondate ragioni, quando fa notare che AL non ha svolto questa fondazione teologica nell’atto sacramentale e liturgico. Forza tuttavia il testo – e teologicamente si sposta su un piano molto differente – quando interpreta “discernimento in foro interno” come se fosse un’azione solo interiore ed etica generale e non invece un processo ecclesiale delicato, che prende anche forma esteriore. La coscienza a cui si fa riferimento non è isolata, ma piuttosto soggetto di cura, perché sia formata, sia messa in condizione di progredire verso un discernimento ecclesiale: si può immaginare tale processo senza riferimento al rito sacramentale del battesimo, al suo rinnovamento nella penitenza, al suo contesto che è la comunità eucaristica? Proprio perché la morale non si risolva sciogliendo la dialettica tra norma e persona – come detto (p.72-73) – è piuttosto l’astratta dialettica tra interiore ed esteriore a far retrocedere il discorso. AL invece rimanda delicatamente, forse non del tutto esplicitamente, alla biografia personale del credente, come luogo teologico in cui Dio, tra dentro e fuori potremmo dire, prende sacramentalmente l’iniziativa con la chiesa di guidare il discernimento. Questo è un vero atto teologico ed antropologico insieme, proprio perché non si dà senza un percorso di riscoperta del battesimo, di carattere catecumenale, in cui è il sacramento a riaprire la graduale integrazione.

 Anche in questo caso formuliamo la domanda al nostro interlocutore:

  • La dimensione misterico-sacramentale che fonda la vita etica credente non è forse l’unica che può guidare il processo “accompagnare-discernere-integrare”? Non siamo forse qui al passo successivo rispetto a quello compiuto da Benedetto XVI, quando dichiarò le nuove unioni non escluse dal mistero della Chiesa? Proprio dal mistero sacramentale della Chiesa che non le ha esclude viene l’opportunità della via caritatis.

  • Ci trova concordi l’autore quando afferma che lo strappo da Veritatis splendor (VS) è consumato (pp. 108-109). Si potrebbe però chiedere: non era forse consumato uno strappo tra la teoria della coscienza di Dignitatis Humanae e VS? Non si risitua forse il discorso proprio a partire dalle categorie di libertà di coscienza situata, storica e biografica, l’unica forma in cui può esistere la fede che fa propria la verità? Le pagine del cap. 7 sulla “svolta pastorale” non partono giustamente da qui, dalla logica dell’incarnazione che glorifica l’umano, che è sempre da salvaguardare? Detto chiaramente: giocare la pastorale e la sacramentaria-liturgia in antitesi è davvero possibile?

Questo è uno dei più gravi rischi del post-concilio: che la pastorale, da dimensione meramente applicativa del teologico, quale era concepita riduttivamente in precedenza, si trasformi addirittura in momento fondativo. Questo è assolutamente inconcepibile (p. 134)

  • Può il prof. Meiattini spiegare dunque qual è lo statuto della pratica pastorale, se essa non è mera applicazione e nemmeno momento fondativo? Dire “momento fondativo” non significa affermare che sia l’unico locus theologicus, o dinamica superiore o indipendente dall’azione instauratrice che è liturgico-sacramentale. La storia delle persone credenti di cui si occupa la Chiesa è inedita, è uno dei momenti fondativi del suo oggi salvifico. E questo non significa tornare a fare della liturgia un atto secondario. La liturgia non esiste se non come pratica liturgica di una comunità storica.

 Il discernimento in foro interno

Qui si apre dunque l’argomento successivo, sulla via prospettata da AL, il discernimento in foro interno (AL 300). Meiattini la ritiene senza mezzi termini “via insufficiente ed incoerente” (cap. 4). Prospettare la via caritatis del colloquio col sacerdote, in alternativa alla via paenitentialis dei passi pubblici tipica degli orientali, sarebbe infatti cedere al pregiudizio antirituale moderno: “che fine ha fatto la dimensione della celebrazione del sacramento che è un atto obiettivo e corale?” (p. 75). Il fatto che il matrimonio interrotto, che fu sancito pubblicamente in modo verificabile nel rito, non sia sottoposto a una via di conversione con un atto pubblico ed ecclesiale, ma rimandato al discernimento in foro interno è l’evidenza dello stravolgimento dei sacramenti riletti come strumenti della vita morale. Allo stesso modo, affermare che la grazia santificante non è assente in una condizione non pubblicamente riconoscibile rompe il rapporto simbolico tra significante e significato.

Il ragionamento è interessante. Ha ragione l’autore a chiedere: “se questi fedeli sono assolti in privato, perché non manifestarlo pubblicamente attraverso qualche forma di penitenza pubblica?” (p. 87). Affermare tuttavia che il discernimento avviene in via caritatis, non significa escludere che il discernimento in foro interno possa avere una forma esterna, anche celebrativa. L’argomento dell’autore, che sia la “comunione spirituale” l’unica forma legittima in cui la Grazia che tutto vede può operare dove sia legittimo, risulta di una povertà stupefacente (davvero arituale!).

La scelta del foro interno come ambito del discernimento è piuttosto da leggere come esclusione del foro esterno, cioè dell’ambito giudiziale, come via unica per la pastorale di queste situazioni. AL 300 mostra che questo cammino di accompagnamento si compie su passi graduali di verità, di appartenenza alla vita della Chiesa, di gesti di riconciliazione. Il foro interno non nega questa dimensione, persino rituale, riconosciuta, anzi la richiede. Il fatto che nessuna chiesa si sia ancora espressa in merito, tuttavia, rende la riflessione di Meiattini di grande stimolo per l’approfondimento pastorale di questa dimensione, comunque non negata dall’argomento di AL, come invece sostiene l’autore.

  •  Vi è realmente qualcosa che impedisce agli episcopati di far seguire alla via caritatis una pratica pastorale con gesti rituali pubblici ed esterni (scrutini)? Questi ridirebbero la necessità del dialogo in foro interno, impegnando in una gradualità in cammino sia la coppia o il singolo in cammino, sia la comunità.

 Conclusione

 Il lavoro del prof. Meiattini merita una attenta lettura. Concordiamo con l’autore quando dice che il punto in questione non è soltanto il capitolo VIII di AL: “è il rapporto tra iniziazione cristiana e matrimonio che costituisce il vero problema oggi” (p. 157). La pastorale matrimoniale di impostazione catecumenale, come puntualmente richiesto dal Papa, sposta il discernimento vocazionale a prima delle nozze, come scrutinio della fede. O se vogliamo, sposta l’attenzione al vero cratere di cui occuparci: “la debolezza estrema o il fallimento dell’iniziazione cristiana” (p.158), al quale, giustamente si nota, nessun Sinodo dei vescovi è mai stato dedicato, in cinquant’anni di Sinodi post-conciliari.

Sulla questione fondamentale, concordiamo ancora con Meiattini nel notare che “qualcosa ancora non va nel modo di intendere il rapporto tra verità e pastorale in genere” (p. 147).

 Non possiamo tuttavia condividere con lui né il senso del lavoro teologico espresso dall’autore, né le considerazione sul progetto pastorale. Se è doveroso riflettere e valutare la pratica di iniziazione cristiana (concetto teologico) e la sua conseguente ispirazione catecumenale (concetto pedagogico) che si estende a tutta la pastorale, il cantiere pastorale al quale è dedicato il cap. VIII di AL è un ambito in cui il linguaggio della chiesa ha vissuto un’evidente mutazione, segno di un terreno che non è risolto con FC, né con le pratiche pastorali ad essa successive. Il capitolo VIII ha aperto un fronte di discussione e di pratica non armonica nella Chiesa cattolica: essa andrà ora interrogata dal teologo proprio a partire da un articolato rapporto tra prassi pastorale e riflessione sistematica. Il progetto della Chiesa conciliare non si è ancora compiuto, proprio nel modo in cui la pratica è letta. Non come applicazione del teologico, del normativo, persino della pratica sacramentale liturgica. Nell’ascolto delle biografie dei battezzati credenti si dà un novum che si relaziona inedito con queste pratiche (la Parola proclamata e frequentata, la legge di comunione della Chiesa, la celebrazione rituale del Corpo di Cristo). 

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