Popolo di Dio, corpo e rito: capire il Vaticano II con Dickens e Merleau-Ponty


Carpi

Ieri a Carpi, in una iniziativa del Laboratorio Teologico “Realino”, ho presentato questa conferenza sul rapporto tra Riforma Liturgica, popolo di Dio e azione rituale. Ringrazio gli organizzatori per la bella occasione di ascolto e di scambio. Ecco il breve testo in cui riassumo il discorso di ieri.

EVENTO E/O RITO ?

La celebrazione liturgica del popolo di Dio 60 anni dopo l’inizio del Concilio Vaticano II

Dunque, voglio solo Fatti. Insegnate a questi ragazzi e ragazze soltanto Fatti. Solo di Fatti c’è bisogno nella vita. Piantate nient’altro, estirpate tutto il resto. Solo con i Fatti si educano le menti di animali razionali e nient’altro riuscirà mai loro di alcuna utilità”

Ch. Dickens Hard Times, incipit

 Inizio da questa frase di Ch. Dickens, tratta da un libro che è stato scritto a metà del 1800 e che rappresenta in modo efficace una “soglia critica” del mondo tardo-moderno: ossia l’affermarsi di una cultura “positivistica”. La riduzione dell’uomo a “razionalità”, censurando ogni immaginazione, ogni inquietudine e ogni incompiutezza. Nel romanzo, che inizia con queste parole, colui che parla, un insegnante, vedrà rovinata la propria famiglia propria da questi principi ciechi. I suoi figli diventeranno un ladro e una prostituta.

Ci si chiederà: perché mai iniziare da qui un discorso sulla “riforma liturgica”? Per capirlo dobbiamo ricordare una frase forte, con cui papa Francesco si è rivolto al “collegio degli scrittori” della Civiltà Cattolica alcuni anni fa, dicendo che, per fare bene la loro funzione, dovevano alimentarsi di “inquietudine, di incompiutezza e di immaginazione”. Ecco, io credo che per capire bene che cosa è successo con il Concilio Vaticano II e con la Riforma liturgica ad esso successiva, bisogna capire bene i limiti di una cultura positivistica (che è forte anche nella Chiesa) e scoprire il tesoro di novità che il percorso recente ha riservato alla identità ecclesiale attraverso la riscoperta della profondità originaria e primordiale della azione rituale.

Questa breve riflessione, che si strutturerà in 4 brevi passi, vorrebbe anche inserirsi nella ambizione di “laboratorio” dello studio teologico di Carpi. Fare teologia significa imparare a porre vere domande. Questo non è semplice e si è enormemente complicato da circa un secolo, ossia da quando ci siamo convinti, a torto, che si potesse fare teologia “contro” e “senza” la cultura ambiente. Non è mai stato così. La grande storia della teologia, da Agostino, a Tommaso, ai padri tridentini, si è nutrita di cultura, della migliore cultura che aveva a disposizione, senza bisogno di verificare che fosse “battezzata”. Una teologia “esculturata” è sempre una teologia senza corpo e senza veri interlocutori. Come fecero gli antichi e i medievali, così dobbiamo fare anche noi: su questa via ci hanno preceduti il Concilio Vaticano II e il grande aggiornamento voluto e difeso da papa Giovanni XXIII e da papa Paolo VI. In questa scia, che sta tanto a cuore a papa Francesco, vorrei collocare anche le mie piccole riflessioni.

 1. Una tensione: evento e rito.

 Come dice il titolo di questo intervento, partiamo da una tensione: tra il rito liturgico e l’evento di grazia sembra esserci una tensione insuperabile. Se consideriamo come la tradizione ha affrontato questo problema, troviamo che la domanda era formulata in questo modo: come si fa ad avere rapporto con la Pasqua, ossia con il mistero centrale di passione, morte e risurrezione?

La teologia classica ha dato una grande risposta: per fidem et sacramenta. La fede e i sacramenti sono le due “vie” per aver rapporto con la Pasqua. S. Tommaso traduce queste due strade in parole forti: la fede opera “per actum animae”, mentre i sacramenti per “usum rerum exteriorum”. Un atto dell’anima e l’uso delle cose esteriori sono i due “versanti” della nostra relazione di fedeltà, di ascolto e di discepolato nei confronti di Gesù Cristo nostro Signore.

Questa risposta, però, è diventata insufficiente, proprio a partire dalle “tre rivoluzioni” (industriale, americana e francese) che hanno cambiato prima l’europa, poi anche il nord-america e infine stanno modificando tutto il mondo. Così è nata, gradualmente, a partire dal secondo e terzo decennio del 1800, la consapevolezza che le categorie scolastiche non restituivano più in modo adeguato l’esperienza in gioco nella fede e nei sacramenti. A. Rosmini in Italia e P. Guéranger in Francia sono stati i primi ad accorgersi di questo “buco” della tradizione, negli anni 30 del 1800. Più avanti, a partire dai primi del 900, nello stesso contesto che affermava l’antimodernismo più duro, Pio X e il Movimento Liturgico contribuivano ad un ripensamento profondo della “lettura teologica classica”. Proprio poiché la illusione tardo moderna era quella di poter fare tutto “per actum animae” – ossia di fare tutto con l’intelletto, con la volontà e con il cuore – diventava un compito nuovo riscoprire la inaggirabilità della “mediazione corporea”. La cosa nuova, però, consisteva nel fatto che la “mediazione corporea” non era più riducibile all’”uso delle cose esterne”. La riscoperta della liturgia come “linguaggio” del sacramento è stata la novità che con il Concilio è diventata dottrina comune e che ha richiesto una riforma liturgica.

 2. La Pasqua nel corpo

 Ciò che è avvenuto con il Concilio e con la Riforma liturgica muove da un presupposto teorico molto importante, che scopre come la relazione alla Pasqua non sia solo intellettale, morale o sentimentale. E’ prima di tutto e ultimamente (diremmo nel suo fons e  nel suo culmen) relazione corporea. Ci siamo abituati a pensare che la fede sia solo “dottrina”, “disciplina” e “spiritualità”, riconducendo la tradizione alla sua mediazione della mente, della volontà e del sentimento. In realtà la scoperta della “intelligenza per ritus et preces”, che è il cuore della intuizione nuova di Sacrosanctum Concilium (cfr. SC 48) implica un grande investimento sui “linguaggi elementari”, sul loro modo di comunicare, di fare esperienza e di esprimere tale esperienza. Non sono i riti e le preghiere gli “oggetti” della intelligenza ecclesiale, ma potremmo dire sono i “linguaggi” di questa comprensione.

Costatare la scoperta del “corpo in azione” significa uscire da soluzioni intellettualistiche, volontaristiche e sentimentalistiche che sostituiscono alla azione rituale il suo significato, una norma o l’affetto-sentimento da coltivare. Parlare di eucaristia in termini di “sostanza e accidenti” è così diventato per noi un modo di sfigurare, allo stesso tempo, il nostro corpo e il corpo di Cristo. Ovviamente il “primato del corpo”, istituendo una autorità dei “cinque sensi” – e anzitutto del “fondamento di ogni senso”, ossia del “tatto” – diventa il luogo più censurato dal “protocollo sanitario imposto dalla pandemia”. Mani sanificate che non si toccano, volti irriconoscibili e insepressive, distanze insuperabili segnano una vera e propria sospensione della esperienza di comunità. Ma forse proprio questo periodo di “protocollo imposto” potrebbe favorire il superamento di quei “protocolli impliciti” che ci hanno convinti di essere sempre “in privato con Gesù”, facendo diventare tatto, gusto, odorato, udito e vista delle appendici poco significative del nostro atto di fede interiore e anche del nostro “uso delle cose esteriori”.

 3. Le dinamiche trasgressive del corpo

 Il corpo, diversamente dall’intelletto, dalla volontà e dal sentimento, con la sua imbarazzante visibilità, è sempre provocatorio, trasgressivo, inquieto, incompleto, irriducibile ad un concetto, ad una norma, ad un sentimento. La interruzione “corporea” della esistenza diventa così una condizione della fede e del sacramento. Il corpo sta nello spazio, nel tempo e nella relazione con una “interruzione” che alimenta le “facoltà superiori”. Ma senza la logica primordiale del corpo, che consuma lo spazio e il tempo in una relazione festiva, che conosce la gratuità senza calcolo, che riconosce subito il bello e il buono sul piano tutt’altro che superficiale del tatto, è impossibile costruire quello “spazio comune”, diverso dallo spazio privato e dal quello pubblico, che ospita il Signore e che permette al Signore di ospitare la sua Chiesa.

Essere “popolo di Dio” significa non solo “pensare la fede”, “vivere con fede”, “sentire con fede”, ma “celebrare nel Signore”. Per questo occorre restituire una autorità al corpo, perché “prenda l’iniziativa di perdere l’iniziativa”.

I linguaggi elementari della celebrazione sono delicati, hanno bisogno di “manualità fine” e di accurata iniziazione. Non si possono trattare in modo troppo sommario. Un buon esempio di questo disagio è la riduzione della “particola” a parola vuota, mero supporto di una fine teoria sulla “presenza reale”, ossia presenza sostanziale e non accidentale del corpo di Cristo. In realtà, quando noi procediamo così, restiamo ancora catturati nel modello classico, che non affida al rito alcuna vera “intelligenza”. Questo è tanto vero che noi ci siamo abituati – senza alcuno scandalo – a ricevere una “particola tonda”. Come tondo è il pane da spezzare (Hostia magna) così risulta tondo anche il pane spezzato. Ma qui qualcosa di corporeo è irrimediabilmente compromesso. La particola – che in latino significa “frammento” – proprio in quanto è un “pezzo” può avere ogni forma, meno che la forma tonda. Nemmeno Giotto, il grande pittore e architetto, avrebbe saputo spezzare il pane derivandone particole tonde. Tondo è l’intero, non il frammento. Per questo il rito esige che tutti coloro che “partecipano dell’unico pane” ricevano solo un frammento, la cui verità non è “in sé”, ma in Cristo e nella Chiesa. La forma delle particole parla della irrilevanza del rito per la fede. E conferma una versione individualistica e borghese, che non ha alcun bisogno di un “popolo di Dio”, ma solo di una “salvezza dell’anima” a cui ogni individuo arriva per la sua relazione personale (intellettuale, morale e spirituale) con il Signore. Né il corpo né il popolo sono rilevanti. E la “particola” può ridursi ad un “intero in miniatura”.

 4. I linguaggi primari della liturgia stabiliscono il rapporto più forte con l’evento.

 Da questa breve analisi emergono una serie di interessanti conseguenze, liturgiche, ecclesiali e spirituali.

 a) La reazione ecclesiale al mondo moderno, che ha spesso assunto la forma di una “lotta dell’anima contro il corpo”, trova nella liturgia un luogo paradossale, in cui la valorizzazione del corpo integrale, con tutti i suoi linguaggi, diventa condizione per recuperare una mediazione piena tra il Signore e la sua Chiesa.

 b) Queste “mediazioni corporee”, che danno forma all’essere Chiesa di Cristo, aiutano a ricostruire in modo più ricco una serie di “antitesi”, che il mondo tardo-moderno ha imposto e rispetto alle quali la Chiesa spesso si trova costretta a restare al loro interno:

 – libertà/autorità: la Chiesa non è costretta a scegliere la autorità contro la libertà. Così vorrebbero tutte le letture autoritarie. Né la libertà contro la autorità, come vorrebbero le letture “neoliberiste”. Deve piuttosto ritornare a quella evidenza, così bene espressa in una duplice proposizione da Armido Rizzi: l’amore può solo essere comandato e solo l’amore può essere comandato. Una genealogia della libertà è la sfida che la azione rituale mette sempre in scena, con i suoi linguaggi simbolici.

 – diritto/dovere: la chiesa non è costretta a contestare i diritti mediante i doveri, ma a lasciare aperta la dialettica storica tra diritti e doveri, mostrando l’orizzonte iniziale e finale che è quello del dono. La azione rituale permette di ricomporre, sul piano del dono, le antiche e nuove evidenze dei diritti e dei doveri. Senza rigidità e senza ingenuità.

 – privato/pubblico: la chiesa non è costretta a rincorrere la dignità pubblica del privato e la dignità privata del pubblico, ma a ricostituire, con fatica, luogo “altri”, che sono appunti trasgressioni e interruzioni, perché l’uomo che lavoro e l’uomo in vacanza ritrovi se stesso, nel riconoscimento altrui.

 La liturgia, restituita a questa funzione fondamentale, è il linguaggio non di alcuni, ma di tutta l’assemblea, di tutto il popolo di Dio. Tutti celebrano l’azione rituale, partecipando al rito, non soltanto ricevendone i frutti. Questo modello di liturgia è, come aveva capito Giuseppe Dossetti già nel 1965, una “ecclesiologia eucaristica” compiuta e singolarmente profetica, anche oggi.

 5. Conclusione

 Ero partito da una frase tratta da un capolavoro di Ch. Dickens. Voglio concludere con una frase tratta da un libretto postumo di M. Merleau-Ponty, che è la trascrizione di 7 trasmissioni radiofoniche del 1948, dedicate alla spiegazione facile e diretta della “fenomenologia” per gli ascoltatori della radio francese. In una di queste trasmissioni, pubblicate nel 2001 con il titolo Conversazioni, il filosofo scrive questa frase:

 Impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione. […] In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso (M. Merleau-Ponty)

 L’azione rituale non ha alcuna rilevanza per chi pensa di imparare solo da linguaggi rigorosamente oggettivi. Anche nella Chiesa le cose funzionano così. Da come guardiamo il mondo, impariamo anche a credere. Ora nel mondo, ci dice il filosofo, non siamo soli, siamo strutturalmente il relazione. Come “animale che ha la parola” l’uomo sa di non avere la sua specificità linguistica e razionale “in sé”, ma grazia agli altri, a Dio e al prossimo. Ciò che è più proprio dell’uomo, la parola, non lo abbiamo da soli, ma solo grazie alle “tradizioni”: non per natura necessaria, ma per tradizione contingente e in una storia aperta noi tutti diventiamo uomini e donne.

Ma vi è un secondo aspetto, ancora più abissale. Non solo gli “altri uomini adulti”, ma anche animali, bambini, primitivi e pazzi abitano il mondo e lo rielaborano.

Questo deve essere inteso anche nel senso che ogni uomo e ogni donna, da adulti, devono fare memoria dell’animale, del bambini, del primitivo e del pazzo che loro stessi sono stati e continuano ad essere.

Una Chiesa sa ancora celebrare la fede e riconoscere il valore originario di questa mediazione corporea del rapporto tra Cristo e la sua Chiesa solo se, nel fare memoria di Lui, sa essere capace di questa “memoria di sé”. Memoria complessa e memoria ricca; memoria comunitaria e memoria popolare; memoria, dunque, meravigliosamente complicata, ma, proprio per questo, memoria promettente e profetica.

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