Ordinare viri probati non è una “rottura della tradizione” (di C. U. Cortoni)


amazzonia

Negli ultimi giorni, anche in vista delle discussioni che si apriranno intorno al “Sinodo per l’Amazzonia”, con singolare imprecisione e con grave rozzezza il card. Sarah è intervenuto sul tema dei “viri probati” e del “celibato ecclesiastico”, parlando con toni e riferimenti del tutto fuori controllo. Eccone un piccolo saggio, tratto da un’omelia pronunciata alcuni giorni fa a Chartres:

 ...Il progetto, come è stato ripreso da alcuni, di separare il celibato dal sacerdozio mediante l’amministrazione del sacramento dell’Ordinazione Sacerdotale ai coniugi (“viri probati”) – per “motivi pastorali o per certe necessità”, come si dice – porta a gravi conseguenze e a una definitiva rottura con la Tradizione Apostolica.  Allora avremmo stabilito un sacerdozio secondo criteri umani, ma non avremmo continuato il sacerdozio di Cristo – obbediente, povero e casto. Infatti, il sacerdote non è solo un “alter Christus” [un altro Cristo], ma è veramente “ipse Christus”, Cristo stesso! Perciò il sacerdote che nella Chiesa segue Cristo sarà sempre segno di contraddizione!

Definire la ordinazione di “viri probati” come “rottura nella tradizione” è un modo ingiusto e scorretto di parlare, che rivela la poco umile pretesa di voler chiudere la discussione prima ancora di aprirla. Ho chiesto al prof. Ubaldo Cortoni di precisare brevemente la questione, su basi storiche fondate. Così si scoprono molte cose di grande interesse, che un Prefetto avrebbe almeno il dovere conoscere per non parlare a vanvera.

La ordinazione di “viri probati”: alcuni punti fermi della storia

 di Claudio U. Cortoni

I «viri probati» sono un eresia? Sicuramente no, in modo particolare presso la chiesa del sec. VI: basti pensare a papa Ormisda (sedit 514-523), legittimamente sposato prima di accedere agli ordini sacri, con un figlio, Silverio – autore dell’epitaffio che ripercorre gli eventi salienti del pontificato paterno – divenuto a sua volta papa nel 536. Per quanto nota questa vicenda c’è da sottolineare come dopo l’ammissione agli ordini sacri, a Ormisda, in quanto uomo sposato, sia stata imposta la continenza, almeno stando ad una legislazione ecclesiastica sviluppatasi sin dal 305.

Sembra infatti che in Occidente, per quanto riguarda la morale sessuale del clero, vi sia una lunga storia di proibizione a contrarre nozze per gli ordini sacri, accompagnata sempre da uno scrupoloso richiamo alla continenza per i «viri probati» e l’imposizione del celibato per chi già aveva ricevuto l’ordinazione, arrivando, come nel caso delle sinodali della chiesa carolingia, a considerare i figli nati da tali rapporti servi della gleba. Tale posizione venne rivista almeno in parte al concilio Lateranense II (1139) che esclude i figli dei preti dal ministero sacerdotale, a meno che non avessero abbracciato la vita religiosa, monastica o canonicale [can. 21], quasi in espiazione della colpa dei padri, come già asserito in diversi modi dalle sinodali della chiesa altomedievale. Il Lateranense II rappresenta un Concilio di svolta per quanto concerne l’imposizione del celibato a coloro che accedono agli ordini sacri, dichiarando il matrimonio dei preti e dei religiosi invalido e non più solo illecito, come invece nella precedente legislazione ecclesiastica [canoni 6, 7]. Ma dopotutto è un Concilio complesso, che tenta una risposta ad una sovrapposizione di tematiche socio-politiche (le investiture), socio-economiche (l’usura), la condanna di tutte quelle correnti ereticali che negavano l’eucaristia, il battesimo dei bambini, il sacerdozio e gli altri ordini ecclesiastici, e il vincolo delle lecite nozze [can. 23].

Ovviamente l’ordinazione dei «viri probati» come il matrimonio del clero erano praticati sino al sec. XII-XIV, nonostante una legislazione che ne scoraggiasse tale pratica. Infatti non tutta la chiesa ha comunque accettato acriticamente questa posizione, e oltre ai movimenti eterodossi come i Lollardi o i Gallicani radicali, già il sinodo di Parigi del 1074, in risposta a quello romano dello stesso anno, si oppone all’imposizione del celibato. Anche tra i giuristi vanno ricordati alcuni nomi come Graziano che nel Decretum [D. 27 c.1] dà una precedenza al sacramento del matrimonio sul voto di castità, o Guglielmo Durando il Giovane (+1330).

In questo contesto appare singolare il provvedimento di Giovanni XXII per i «viri probati», che nel 1322 dispose, affinché venisse ordinato al sacerdozio un uomo sposato, che vi fosse il consenso della moglie, senza il quale il marito, anche se già ordinato, sarebbe tornato alla vita coniugale cessando di esercitare l’ordine ricevuto. Un provvedimento che lascia intendere quanto a lungo possa essere sopravvissuta nella chiesa latina l’uso di ordinare uomini legittimamente sposati, ai quali si imponeva la continenza, in linea con quanto il Laterano II affermò, proibendo a quanti erano stati costituiti nell’ordine sacro di contrarre matrimonio: «stabiliamo anche che quanti, costituiti nell’ordine del suddiaconato o in quelli superiori, avessero contratto matrimonio o tenessero concubine, siano privati dell’ufficio e del beneficio ecclesiastico. Dovendo essere di fatto e di nome tempio di Dio, vasi del Signore, santuari dello Spirito santo, è indegno che diventino schiavi del letto nuziale o della dissolutezza» [can. 6].

Il problema non è la continenza dei «viri probati» o il celibato di coloro che erano già stati costituiti nell’ordine sacro, quanto una mancata visione del sacramento del matrimonio in un’ottica che potesse superare la sua interpretazione di rimedio alla concupiscenza, o all’incontinenza, incapace, secondo Pietro Abelardo, di conferire un dono come gli altri sacramenti, essendo solo rimedio ad un male, o come scrive Pietro Lombardo sul matrimonio, che rappresenta un bene minore tra i sacramenti, perché non merita la palma, ma è in rimedio. In quest’ottica si può capire anche il can. 6 del Lateranense II, che parla del matrimonio, e in generale dell’unione dell’uomo e una donna, come schiavi del letto nuziale [nozze legittime] o schiavi della dissolutezza. La dissolutezza a cui fa riferimento il can. 6 è il concubinaggio o qualsiasi rapporto fuori dalle nozze, a cui tendenzialmente il celibato dei chierici avrebbe dovuto porre rimedio. Ed è in questo senso che il matrimonio per i laici, la continenza dei «viri probati» e il celibato dei chierici possono essere interpretati allo stesso modo come rimedio ad un male, l’incontinenza, che il Laterano IV (1215) per quanto riguarda i chierici punisce con severità, e ancora di più per quei chierici che «secondo l’uso della loro ragione, non hanno rinunziato all’unione coniugale […], dato che hanno la possibilità di vivere in un legittimo matrimonio [c. 14].

Contro questa tendenza è interessante quanto scrive il giurista Graziano nel Dictum 27, dopo che in forma compilatoria aveva riportato tutta la legislazione in merito al celibato dei chierici, in merito alle nozze contratte da un diacono, cioè appartenente a quegli ordini sacri che impedivano l’accesso al matrimonio: “il diacono può «cessare il suo ministero» e «consumare lecitamente il matrimonio che ha contratto»… Poiché, se nella sua ordinazione ha fatto voto di castità, «c’è nel sacramento del matrimonio una tale forza che questo matrimonio non può essere sciolto per violazione del voto»” [J. Gaudemet]

Non è importante solo il fatto che possa accedere a nozze lecite e che queste in forza del voto di castità non vengano sciolte, ma è di grande rilievo quella forza che viene riconosciuta al sacramento del matrimonio, che qui non viene evocato solo come rimedio alla concupiscenza, anche se l’idea è sempre presente nell’intenzione del giurista, mentre qui viene attribuito al sacramento del matrimonio quel dono che Abelardo e il Lombardo avevano negato.

La continenza e il celibato, che nel caso dello sviluppo di questa particolare disciplina ecclesiastica non sono termini che possano essere sovrapposti né tanto meno confusi, allo stesso modo del matrimonio hanno bisogno di una rilettura teologica che li liberi dall’idea – oggi più o meno esplicita – di essere rimedio ad un male, affrontando con maggiore serenità il male di cui dovrebbero essere rimedio: la vita sessuale tra un uomo e una donna.

 

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