La confessione e il suo significato come sacramento, diverso dal battesimo


Confessione donna (stampa Ottocento)
Ha scritto Michele Aramini su FB, in un post di ieri, una bella provocazione, che riporto per intero:
“L’esperienza delle confessioni di questi giorni mi induce a fare la seguente proposta:
La Chiesa cattolica istituisca un giorno penitenziale all’anno (potrebbe essere il mercoledì delle ceneri), nel quale amministrare il sacramento della riconciliazione con assoluzione generale, per tutti coloro che lo desiderano.
La confessione individuale resterebbe su richiesta.
Potrebbero esserci differenze in base alle valutazioni delle conferenze episcopali.
Il punto è che nonostante i nostri impegni i fedeli non si confessano quasi più e quei pochi che lo fanno dicono di non sapere che dire. La mia proposta ha proprio il senso di ridare il senso del peccato non di toglierlo”.
La questione sollevata da don Michele mi sembra ben formulata e offre la occasione per una riflessione ulteriore, che continua quanto ho già scritto pochi giorni fa (qui sulla penitenza e la Pasqua). Vorrei fare quasi delle riflessioni ad alta voce, che non hanno la pretesa di dare una risposta definitiva, che ancora non riesco a vedere con tutta la chiarezza necessaria. Ma cerco solo di lasciarmi provocare da una serie di dati, per entrare in rapporto con la idea espressa a ragione da Don Michele. Procedo per punti:
a) E’ evidente una cosa: la lunga tradizione, che inizia formalmente almeno dal 1215, e che prevede un “sacramento della penitenza” cui sottomettersi annualmente (di solito in occasione della Pasqua) attesta una prassi antica, che vuole favorire una “revisione di vita” cui sono tenuti “tutti i fedeli di entrambi i sessi”.
b) La prima cosa da evitare, tuttavia, è di proiettare sulla lunga storia di circa 8 secoli, la nostra attuale comprensione (riduttiva) del sacramento. Questo è il primo punto critico, perché induce a giudizi che diventano inevitabilmente distorti.
c) In particolare a me pare che la riscoperta della dimensione comunitaria del sacramento, che implica ovviamente anche una sua celebrazione “comune” e “generale”, perda di vista una questione decisiva, che giustifica la esistenza di un sacramento “diverso” dal battesimo, per il perdono del peccato del battezzato.
d) Alla radice del IV sacramento, infatti, vi è la esigenza di una “correlazione”, potremmo dire un “admirabile commercium”, tra la grazia del perdono, che si rinnova, e la risposta del peccatore, che nel pentimento, nella confessione e nella azione penitenziale cammina per ritrovare se stesso, come discepolo di Cristo.
e) Per questo motivo, con il tempo, mi sono convinto di una sorta di abbaglio, nel quale tutti siamo caduti: ossia quello di chiamare “sacramento della penitenza” quella “terza forma”, che è, in realtà, una solenne memoria del battesimo, non un esercizio del IV sacramento. Tanto è vero che non avendo di per sé la struttura complessa della penitenza (essendo cioè un rinnovo della parola del perdono senza atti del penitente) risponde al modello battesimale e non a quello penitenziale. Si giustifica per il “caso di necessità”, ossia fuori dallo spazio e dal tempo. E non può essere piantato stabilmente nello spazio e nel tempo se non a prezzo di una pericolosa astrazione: che non riguarda la misericordia di Dio, ma la risposta dell’uomo e della donna.
f) Ciò, tuttavia, non leva nulla al buon fondamento della proposta di Don Michele, che corriponde indirettamente ad alcune esperienze che abbiamo vissuto in questi due anni di pandemia, che proverei a riformulare in questo modo:
– l’obbligo annuale di sacramento della penitenza deve essere collocato in relazione al mutare delle forme penali e morali della cultura e della chiesa. Un bisogno di revisione di vita è inaggirabile, la sua forma è discutibile e sottoposta a vaglio critico;
– ciò che non può essere più tollerato è la riduzione del sacramento della penitenza ad un atto puntuale di perdono da parte del ministro, cui non corrisponde alcun atto del penitente, se non quello di “chiedere il sacramento”;
– la riscoperta del sacramento come “percorso penitenziale” ne sposta le competenze dalle formalità burocratiche ai percorsi di giustizia, di pena e di riscatto del soggetto. Di qui scaturisce anche la sua pertinenza “giuridica”, nel senso più alto e migliore del termine;
– accanto alla ridefinizione del sacramento della penitenza, occorre ridisegnare la “penitenza battesimale”, come contenuto della iniziazione cristiana, anche con una celebrazione penitenziale annuale, che è “memoria del battesimo” e non “sacramento della penitenza”. Questo ha ricadute importanti anche nel modo di pensare una “prima penitenza” che non può essere una “finzione del sacramento per bambini”, ma un esercizio alla “vera virtù” nel cammino verso la pienezza della vita cristiana.
g) In conclusione: il sacramento della penitenza è sacramento della crisi. Non è sorprendente che il sacramento della crisi sia entrato in crisi da quando abbiamo riscoperto la centralità della iniziazione cristiana. Se la iniziazione ha successo, la virtù di penitenza prevale sul sacramento. Viceversa il ricorso al sacramento è tanto più forte, quanto più è debole la virtù scaturita da battesimo, cresima e eucaristia. Un non piccolo difetto è che noi proponiamo una “prima confessione” prima della “prima comunione”: far diventare sacramento della iniziazione un sacramento della guarigione è un errore sistematico e pastorale che si paga a caro prezzo.
h) Altrettanto evidente è che una Chiesa, che pretendesse di vivere tutta la esperienza della penitenza (del peccato perdonato) solo mediante il sacramento della penitenza, sarebbe una chiesa smemorata e ridotta solo alle sue forme-limite. Anche lo sviluppo della “penitenza di devozione” è stato, in altri tempi, un segno di questa debolezza nel far memoria del “grande campo” di esperienza verbale e non verbale del fare penitenza ecclesiale solo nella forma del confessionelae. L’altare e l’ambone, non il confessionale (nato solo nel XVI secolo), sono i segni più luminosi della misericordia di Dio in Cristo.
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