Una generazione di maestri che va. Bilancio di compleanno


bennoimagobof

Da quasi un anno ho in animo di scrivere questo testo. Il motivo è presto detto. Nel corso di questo ultimo anno ci sono stati due eventi che mi hanno molto segnato, non solo per la loro portata umana e cristiana, ma per il singolare ritmo temporale che li ha caratterizzati. Il giorno del mio compleanno dell’anno scorso, il 28 agosto 2017, memoria di S. Agostino, mentre ero nel Seminario di Verona, dopo aver finito la mia relazione al Convegno APL, vedo avvicinarmisi l’Abate di S. Giustina, Don Giulio, che mi sussurra, con voce commossa: “Forse non sa che oggi è mancato improvvisamente l’Abate Benno”. Resto di sasso. E sento incisa, per sempre, nel giorno del mio compleanno, la memoria del caro maestro, del collega fidato e dell’amico prezioso Benno Malfer, Abate di Bolzano. Qualche mese più tardi, nel giorno del mio onomastico, il 30 novembre, ricevo un messaggio telefonico da un caro amico: “Oggi è un giorno brutto: è mancato don Bof, stamattina”. Anche in questo caso, al mio onomastico si accompagnerà, per sempre, la memoria del grande maestro e dell’amico carissimo Giampiero Bof, teologo tra i più lucidi della sua generazione. Questo duplice evento luttuoso, nel giro di pochi mesi, mi ha posto di fronte alla esigenza, vitale e incontenibile, di fare un bilancio dei debiti culturali e formativi della mia vita. Venendo a mancare due pilastri della mia formazione, è come se io abbia sentito, improvvisamente e con una urgenza senza precedenti, il bisogno di riepilogare, ordinatamente, la sequenza di “imagines”, alle quali debbo larga parte di quello che penso e di quello che sono. In prossimità del mio compleanno, un anno dopo, voglio provare a mettere in comune con i lettori questa storia di nascita, di morti e di formazione.

1. La scuola: maestri e professori

Prima della scuola e parallelamente ad essa, dalla mia famiglia ho tratto stimoli culturali e di formazione soprattutto da mio nonno Vico: Ludovico Giauna, che era stato capostazione a Savona, aveva sempre avuto interessi culturali, aveva recitato in teatro, compariva come protagonista in un cortometraggio, ma soprattutto aveva, in casa, la filodiffusione. Quello è stato un canale di scoperta della musica classica, insieme all’altro canale, quello del mio compagno di I media, Luca d’Aprile, che ascoltava Bach, Mozart e Beethoven in casa, quando facevamo i compiti insieme.

Ma già la mia maestra delle scuole elementari, Elena Varnero, per 5 anni ci aveva formati con rigore e con metodo. La matematica e l’italiano, ma anche la musica e il disegno erano insegnati con gusto. Persino il canto lo ricordo con una certa emozione: montava il giradischi, metteva il disco, ci faceva alzare in piedi e dirigeva il canto di Silvie Vartan: “sarà capitato anche a voi, di avere una musica in testa…”, facendo tutto con la serietà di un Toscanini che gesticola con energia di fronte alla Orchestra della Scala.

Il passaggio alle Scuole Medie fu molto fruttuoso. Da lì, ricordo bene, la frequentazione dell’amico Luca mi mise in testa alcuni motivi classici, che mi accompagnavano nella giornata. I due colpi che aprono la Sinfonia Eroica di Beethoven scandivano spesso i compiti o le partite di calcio. Quanto importante fu poi, per me, quella sera in cui la prof. di musica – che chiamavamo “la Scifo” – ci portò al Teatro Chiabrera, ad ascoltare il Quartetto Borodin. Ricordo ancora il programma: Haydn (op. 73), Schumann (op.41) e Debussy. Fu un punto di non ritorno. Da allora nulla musicalmente è per me più piacevole di un quartetto d’archi. Quel timbro e quella forza mi sono entrati nel sangue. Più tardi, quando iniziai a studiare i rudimenti del pianoforte, tornai dalla stessa insegnante, che era stata pianista virtuosa.

Ma le scuole medie furono soprattutto l’incontro con il Prof. Fernando Murialdo, che insegnava italiano, storia e geografia. Sento di dovergli molto più di quanto riesco a dire o a ricordare. Era un uomo colto. Ci faceva fare il compito in classe con accompagnamento musicale. Nelle due ore di lavoro prendeva il giradischi e proponeva brani come: La Mer di Debussy, La Marcia funebre di Sigfrido di Wagner, Pini e Fontane di Roma di Respighi. Ci faceva leggere il Maestro e Margherita di Bulgakov e La storia della Morante. Ma lavorava in modo ardito anche con Omero: proponeva lavori di gruppo in cui dovevamo tradurre alcune scene dell’Iliade in una pagina a fumetti. C’era da stabilire la sceneggiatura, la successione delle immegini, i testi dei fumetti: una cosa molto impegnativa, ma di grande forza. Era però anche un professore severo: in geografia arrivava prima o poi la prova sulla “cartina muta”… e non c’era alternativa allo studio preciso e meticoloso. Lo abbiamo incontrato, un anno fa, con i miei figli, per strada, nel suo quartiere: “Negli ultimi tempi cado spesso”, ci ha detto, preoccupato, ormai oltre i 90 anni.

Dalle medie al ginnasio-liceo. In mezzo sta un episodio quasi incomprensibile, ma bello. Finita la scuola media ero già iscritto all’Istituto di Ragioneria, quando capita in casa nostra lo zio Carlo, che penso mai fosse entrato prima e mai più sarebbe entrato dopo in casa nostra, per perorare la causa di una mia iscrizione al Liceo Classico. Ottenne successo e mi trovai iscritto in un’altra scuola. E fu un passaggio tanto casuale quanto decisivo.

I due anni di ginnasio furono forti e belli. Una sola insegnante, la prof. Teresa Ferrando, insegnava Italiano, Latino, Greco, Storia e Geografia. Stava con noi intere mattinate. Ricordo che uno dei primi testi che ci fece leggere furono brani da Gaudium et Spes (lei, che non era credente). Il lavoro con il latino e il greco era serio e bene organizzato, così come la storia e la geografia. Con il Liceo, però, iniziò la scoperta della filosofia con U. Croci, dell’italiano con G. Amoretti e della teologia con G. Bof, mio professore di religione. I tre anni del liceo sono quelli nei quali ho preso coscienza della forza della cultura e delle esigenze del pensiero. Dopo il liceo la facoltà di Giurisprudenza non ha mai impedito di coltivare, parallelamente, interessi teologici e filosofici. Così, dopo la laurea, e un lungo servizio civile – dal 1985 al 1988, nel quale Barth e Bonhoeffer erano diventati per me letture obbligate – ho potuto dedicarmi “toto corde” alla filosofia e alla teologia.

2. I maestri di teologia, a Savona e Padova

Il maestro di teologia che mi ha insegnato a pensare liberamente nella fede è Giampiero Bof. Con lui ho passato i tre anni del liceo, poi le serate dei martedì del Porto, per quasi 20 anni, e le messe del sabato sera a S. Raffaele, e poi molti convegni in giro per l’Italia, partendo in auto, da Savona, e parlando e ascoltando musica per tutto il viaggio. La sua formazione classica, con S. Tommaso ben fermo al centro, ma con una libertà di pensiero alimentata dall’idealismo tedesco (Hegel) e dal pensiero protestante (Barth), hanno molto allargato le mie percezioni, i criteri di giudizio e le priorità della ricerca. Ma come poter dimenticare, con Bof e grazie a Bof, le prime frequentazioni dei Convegni ATI: a Pescara, credo nel 1987, vidi e ascoltai, per la prima volta, Sartori, Dianich, Ruggieri, Angelini…

Dal 1988 è iniziato il rapporto con Padova, S. Giustina, dove prima il corso di licenza e poi quello di dottorato hanno offerto nuove occasioni di apprendimento, di confronto e di considerazione della tradizione. Padova era, ed è rimasta, una bella fucina di pensiero originale. Ai tempi dei miei studi Pelagio Visentin era ancora preside, ma i corsi di Catella, di Brovelli, di Tagliaferri e di Bonaccorso, di Cavagnoli e di De Sandre, insieme alle memorabili lezioni di Sartori, aprivano uno sguardo nuovo, sulla tradizione e sulla azione rituale. Con Aldo Natale Terrin si è aperta una fase di lungo apprendistato non tanto sul contenuto, quanto sulla forma. Da lui ho imparato a modificare lo stile, a scrivere per un lettore di cui considerare non solo l’intelletto, ma anche la sensibilità. L’approccio fenomenologico ed ermeneutico di Terrin è stato prezioso per camminare in campo teologico con risorse in parte nuove, in parte diverse. Per contagio, ho potuto gradualmente modificare il mio stile confrontandomi con la scrittura nitida e piana, ma profonda e anche concettosa, di Aldo Natale. Anche il gusto per gli esergo e per la formulazione di “tesi forti” mi è venuto anzitutto da lui.

3. I tedeschi romani a Padova

Il rapporto con Padova ha portato con sé, già dal 1990, una relazione prima con Magnus Loeher, purtroppo molto breve, poi con Benno Malfèr, ed infine con Elmar Salmann. Sono stati, in successione, i rappresentanti di S. Anselmo presso l’ILP di Padova e ne ho fatto conoscenza nelle riunioni plenarie di dottorato, almeno due volte l’anno. Qui ho subito notato la acutezza di B. Malfèr, che mi ha aiutato a leggere la tradizione con strumenti storici e sociologici, che altrimenti avrei trascurato. Mentre con Salmann, che è poi diventato censore della mia tesi di dottorato, è iniziato un confronto ricco e profondo, che sarebbe diventato, negli anni successivi, quasi quotidiano, a Roma. Con loro e grazie a loro ho potuto apprezzare, anche se in modo differenziato, lo stile accademico germanofono, così diverso da quello italiano, anche se in Salmann e Malfèr era interpretato molto spesso “italico more”.

4. I romani a S. Anselmo

Di lì a poco ho iniziato il mio insegnamento a S. Anselmo, a partire dal 1994. Qui, fin dall’inizio, ho imparato a respirare in teologia con libertà. Nei primi anni, accolto dal Rettore P. R. Tragan, ho ancora conosciuto A. Nocent e G. Békés. Il primo giorno in cui misi piede a S. Anselmo, per un Convegno, incontrai Gh. Lafont, che andava in pensione, e di cui ereditavo un corso in Sacramentaria. E iniziò, allora, una collaborazione ventennale, con Marinella Perroni, con Pius Ramon Tragan, e anzitutto con E. Salmann, i cui percorsi teologici e filosofici spesso furono modelli o ispiratori di conferenze, corsi e articoli. Il suo modo sciolto, libero, ma rigoroso, di affrontare i problemi teologici e filosofici ha molto influito sul modo di discernere le questioni e di elaborare le risposte. Ho potuto gustare uno “stile anselmiano” di fare teologia a Roma nel quale mi sono largamente riconosciuto e verso il quale resto assai riconoscente, per aver scommesso su un “laico” come me. E per essere rimasto fermo nella decisione ormai da 24 anni.

5. Compleanno e memoria

Tutti questi incontri li porto con me. Ora che nel giorno del compleanno penso alla lucida forza con cui Benno parlava del concilio di Trento o della storia del matrimonio; ora che nel giorno del mio onomastico ritorno alle potenti parole di Giampiero, capaci di essere autorevoli tanto sulle processioni trinitarie o sulla teologia di Paolo, quanto sulle virtù del peperoncino o sul corpo del barolo, capisco quanto debbo loro, quanto ho imparato e quanto ho ancora bisogno di non perdere quella loro forza sintetica e quella loro autorevolezza espressiva. Una generazione va, un’altra viene. Se si imprime nel cuore questa frase, nulla può stupire. Né morte né vita. Così mentre sto entrando in un nuovo anno, il mio 58esimo, considero con stupore e con ammirazione le condizioni umane e personali, culturali e istituzionali, che hanno reso possibile questo mio strano mestiere di teologo. Forse il mestiere più bello, ma anche il più rischioso; quello che, come diceva Barth, più facilmente di tutti può diventare la caricatura di se stesso. Per tentare di evitare esiti tanto tristi, posso guardare a tutte queste “imagines” di maestri: alle più lontane come alle più vicine, a quelle di chi si è allontanato e può ritornare solo nella memoria e nella preghiera, come a quelle di chi ancora posso incontrare, ascoltare e ammirare. E da tutti mi sento consolato. E mi trovo edificato. E provo gratitudine.

 

 

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