Processo sinodale alla prova del codice /1 (di Pierluigi Consorti)


Nell’aprile del 2022 il “Centro Hurtado”, nell’ambito dei “Martedì alla Gregoriana”, ha organizzato un incontro sul tema “Processo sinodale alla prova del codice”. Sulla soglia della prima Assemblea del Sinodo dei Vescovi pubblico le due relazione (Consorti e Grillo) che hanno caratterizzato quel convegno. Ecco la prima, del prof. Pierlugi Consorti

Il Sinodo: da istituzione a processo

di Pierluigi Consorti

Dal 4 al 29 ottobre 2023 si riunisce a Roma la XVI Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi. Un’istituzione ecclesiale ripristinata col M. P. Apostolica sollicitudo, del 15 settembre 1965 e da ultimo riformata da papa Francesco con il M. P. Episcopalis communio, del 15 settembre 2018.

La riforma di papa Francesco ha cambiato il Sinodo dei vescovi, che a differenza delle prime esperienze vede l’Assemblea generale come un segmento di un «processo sinodale» più ampio che adesso si svolge attraverso più fasi. Questo «processo» – incentrato sull’esame di tre questioni centrali della vita della Chiesa: comunione, partecipazione e missione – è iniziato nel 2021 e si concluderà nel 2024. Le precedenti fasi di ascolto e discussione hanno portato alla luce una serie di questioni che verranno adesso dibattute dando concretezza a una dinamica ecclesiale dialogica nuova, che non vuole essere centrata sul tradizionale ruolo decisionale del papa insieme ai vescovi, ma aprirsi a una dimensione nuova non ancora completamente chiara.

Qualche incertezza nasce anche dal fatto che il Codice di Diritto Canonico (da ora in avanti abbreviato CIC = Codex Iuris Canonici) non conosce un «processo sinodale», ma solo due «istituzioni sinodali»: il Sinodo dei Vescovi (cann. 342-348) e il Sinodo diocesano (cann. 460-468). Le chiamo volutamente «istituzioni», in quanto esprimono principalmente un metodo di governo collegato all’esercizio del potere episcopale. In particolare, il Sinodo dei Vescovi è un’espressione della costituzione gerarchica della Chiesa parallela al Collegio episcopale: una sorta di fratello minore, cui sono attribuiti compiti di servizio della «collegialità personale» espressa dal Romano Pontefice. Da questo punto di vista, sinodalità (episcopale) e collegialità (episcopale) costituiscono due coppie – quasi opposte – di un unico riferimento alla medesima potestà episcopale di esercizio della potestà di governo connessa al munus episcopalis. Sappiamo bene che ogni Vescovo diocesano rispetto alla propria diocesi gode di una potestà pressoché assoluta: è insieme legislatore, giudice, amministratore; può servirsi di vicari, che tuttavia dipendono dalla sua autorità. Questo stesso schema vale anche per il Vescovo di Roma, che lo esercita a livello di Chiesa universale, con potestà «piena, suprema, immediata».

La centralità del ministero episcopale è stata sottolineata anche dal Concilio Vaticano II e l’istituzione del Sinodo dei Vescovi è figlia di questa concezione, che desidera esprimere una continuità temporale della riunione dei Vescovi, ben sapendo che ripetere l’esperienza dell’assemblea ecumenica sarebbe stato sempre meno facile. Il Sinodo sembrava essere l’istituzione più adatta a mantenere un collegamento tra il Vescovo di Roma e gli altri Vescovi, badando bene a non stravolgere l’importanza della funzione legislativa attribuita al solo Concilio. Per questo motivo il Sinodo dei Vescovi ha una potestà solo consultiva, lasciando al Papa la pienezza della potestà legislativa che – da solo – lo equipara al Concilio.

I Concili nella Chiesa si sono susseguiti con una certa continuità, almeno fino a quello di Trento. Sono invece passati secoli prima che venisse convocato il Concilio Vaticano I, e decenni per il secondo. Decenni tuttavia pesanti, che per i cambiamenti registrati corrispondono a secoli.

Le difficoltà concrete di riunione dell’intero Collegio episcopale inducono a pensare che un eventuale Concilio contemporaneo non potrà svolgersi nella forma della compresenza di tutti i Vescovi in un unico luogo. Forse i nuovi mezzi di comunicazioni potranno proporre riunioni in «modalità mista» (con qualcuno presente e atri collegati da remoto), ma certamente l’idea di un Concilio inteso come «collegialità in atto» tende a lasciare lo spazio a forme di prevalenza della medesima «collegialità in atto» rappresentata dal Pontefice. Se non fosse che papa Francesco sembra preferire una Chiesa più partecipata, e quindi meno affidata alle decisioni del solo Papa, più estroversa e – in un certo senso – meno episcopale. Non è un caso che all’Assemblea romana del 2023 non partecipano solo Vescovi e hanno diritto di voto deliberativo anche donne e laici. Si tratta di una novità che va guardata con molta attenzione, poiché costituisce il seme di una Chiesa tutta sinodale, che comincia a crescere con sembianze diverse da quelle consuete.

2. A me pare che il punto più ambizioso da mettere sul tavolo sia la possibile fine di una mentalità accentratrice che continua a vedere la Chiesa come un concentrato di potere assoluto, riservato a maschi che hanno ricevuto il sacramento dell’ordine, specialmente nel grado dell’episcopato. Questa circostanza è per lo più giustificata da una teologia episcopale-comunionale che fonda legittimamente la natura sacramentale della missione apostolica della Chiesa, ma non anche l’esercizio del potere, specialmente in assenza di contropoteri e forme di bilanciamento.

La prova più evidente di questo limite della teologia episcopale-comunionale è proprio l’istituto del Sinodo dei Vescovi come concepito dal Codice, in quanto non impegna la collegialità, ma solo una sua possibile espressione applicativa: appunto, la sinodalità, che in termini giuridici coinvolge un potere solo consultivo e tendenzialmente innocuo.

3. In realtà, la concezione sinodale impressa da papa Francesco – ma non ancora pienamente accolta dalla Chiesa – vede “sinodo” e “concilio” come coppia complementare prima che alternativa. Si tratta di una complementarità a mio parere ben fondata storicamente e anche sulle Scritture. Ad esempio, il cosiddetto “Concilio di Gerusalemme” (At 15) fu in realtà un sinodo, che la tradizione orientale conserva in termini partecipativi e legislativi. La Chiesa cattolica latina ha trascurato la dimensione sinodale ed è ora che la sinodalità si sganci dalla collegialità, come già avviene ad esempio per il Sinodo diocesano, che è l’assemblea «dei sacerdoti e degli altri fedeli della Chiesa particolare, scelti per prestare aiuto al Vescovo diocesano in ordine al bene di tutta la comunità cristiana» (CIC 460). L’aiuto al Vescovo, per lo più interpretato in senso gerarchico verticale, va invece concepito come aiuto reciproco che i membri della Chiesa si scambiano per renderla una comunità missionaria.

Le assemblee sinodali, a tutti i livelli, esprimono la Chiesa in attività. Chiesa è l’assemblea riunita, sinodo l’assemblea in movimento («in uscita»). L’immagine evangelica della Chiesa dovrebbe essere prevalentemente sinodale. La vita stessa di Gesù esprime un cammino ecclesiale sinodale, in cui si fa fatica a distinguere fra “sinodo” e “Chiesa”, o fra “Vescovo” e “popolo”. Queste distinzioni sono il frutto di un’accezione istituzionale della Chiesa, che nel tempo si è costruita con una veste prevalentemente clericale e appunto concentrata nella figura del Vescovo, che assomiglia a un funzionario che esercita un potere assoluto e di conseguenza emargina il sinodo a un’esperienza circoscritta nel tempo e nello spazio. In questo modo il sinodo viene ridotto a una celebrazione periodica ed eccezionale, di per sé non essenziale e persino superflua.

Gli organismi di partecipazione ecclesiale sono tuttora prevalentemente percepiti come uffici di supporto all’attività amministrativa o pastorale (espressione che giuridicamente significa: meno che amministrativa). La Chiesa istituzionale resta ancora concentrata nelle forme di esercizio del potere – apparentemente assoluto – del Vescovo diocesano per le Chiese particolari, e del Vescovo di Roma per la Chiesa universale. E anche dopo il Concilio, la Chiesa popolo di Dio è sempre pensata intorno al Vescovo. Quasi che senza Vescovo non ci sia popolo (e sembra quasi che il popolo non possa vivere senza clero).

Questa mentalità deve essere rovesciata e il diritto canonico offre un’opportunità in questo senso, poiché a livello ordinamentale è chiaro che la Chiesa è il popolo di Dio e che Vescovo e clero ne fanno parte in quanto battezzati e le funzioni (munera) che esercitano bensì li distinguono fra il popolo, senza tuttavia attribuire loro gradi superiori. Resistere all’affermazione della dimensione popolare della chiesa significa resistere all’esercizio della sinodalità. Per apprezzare in pieno il senso della sinodalità bisogna recuperare il sensus fidei del popolo di Dio, senza distinzioni di ruoli. Il CIC ne parla, ma si tratta di balbettii rispetto al “mainstream ecclesiologico”. Nella pratica, si stenta a trovare una relazione fra potere e sinodalità, che finisce spesso per essere banalizzata come una forma di ascolto, preventiva alla deliberazione. Quest’ultima conta, e il processo con cui si è giubti alla decisione perde ogni valore.

4. Al contrario, sinodalità, collegialità e diritto sono in stretta relazione e quindi lo sviluppo delle rispettive linee d’azione deve essere integrato. Non è un caso che il 25 gennaio 1959 papa Giovanni XXIII abbia annunciato – al termine della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani – tre intenzioni distinte, ma complementari: la convocazione del Sinodo diocesano romano, quella del Concilio ecumenico e l’aggiornamento del CIC.

Per meglio comprendere il senso dei processi sinodali in atto, abbiamo bisogno di entrare in sintonia con il cambio di paradigma proposto nel 1959 da Giovanni XXIII, per cui non c’è aggiornamento, se non impegniamo la sinodalità, non ripensiamo i modi di esercizio della collegialità episcopale e non immaginiamo di continuare ad aggiornare il diritto canonico.

Il CIC presenta alcuni tratti di vitalità della sinodalità che vanno meglio sottolineati. Perché questo sia possibile è necessario superare alcuni dispositivi di blocco. Ne cito due: il conservazionismo e il continuismo.

Il primo si esprime nell’ossessiva cura per la sola manutenzione ordinaria. Le riforme sono avvertite come un pericolo, e la tradizione – intesa come status quo – prevale sulla Tradizione in senso teologico. Intravediamo una caricatura di questa tendenza alla conservazione nell’incapacità di ripensare il diritto matrimoniale sostanziale, e nella resistenza ad applicare la riforma del diritto matrimoniale processuale. La prassi avrebbe potuto incidere sulla sostanza, invece è stata limitata dalla conservazione degli schemi applicativi tradizionali. Non è ragionevole che nel terzo millennio si continui a interpretare il matrimonio con gli schemi del diritto naturale, a loro volta filtrati attraverso i concetti del diritto romano classico.

Il continuismo si esprime nell’ossessiva ricerca di precedenti storici che confermino la plausibilità di nuove forme normative. Si tratta dell’apoteosi del “si è sempre fatto così” come giustificazione persino sacrale del mantenimento di strutture e regole apertamente non più adeguate a garantire l’evangelizzazione, confermata dal fatto che “non si possono fare cose che non si sono mai fatte”. Da qui molti paradossi: faccio due esempi. L’idea che non possiamo ordinare donne, perché non sono mai state ordinate, e che i preti non possono sposarsi, perché li possiamo ordinare solo se sono già sposati.

Questi dispositivi di blocco non solo impediscono di cambiare paradigma, ma sono anche salutarmente contraddittori. Per fortuna, il diritto canonico si è costruito in maniera contraddittoria e tuttora presenta significative contraddizioni, che non dobbiamo temere. Non c’è bisogno di richiamare il Decreto di Graziano per sapere che la Chiesa cattolica può legiferare in maniera plurale, trasversale e persino contraddittoria. Il diritto canonico è al servizio dell’evangelizzazione, e le regole intoccabili sono davvero poche. Per dirla ancora con papa Giovanni XXIII: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».

5. Una migliore comprensione del Vangelo determina anche una valorizzazione del principio di sinodalità rispetto a quello di collegialità (della Chiesa in cammino rispetto a quella statica). La Chiesa non può non camminare lungo le strade di tutti, e quindi deve necessariamente confrontarsi sia con le buche e le asperità delle strade più strette, sia con le difficoltà dei percorsi lunghi e autostradali. Dirò meglio: certe Chiese debbono percorrere sentieri campestri, altre montuosi, alcune ripararsi dalla pioggia e altre dal caldo.

Per questo motivo trovo del tutto ragionevole che il futuro possa portarci anche regole differenziate di gestione della vita delle singole Chiese. Cattolica vuol dire universale: un aggettivo che nel terzo millennio deve marcare una forte differenza da “globale”; anche la romanità dovrà esprimersi in termini diversi dalla mera “centralità” (“accentratrice”). L’universalità romana si esprime in chiave spirituale, e non impegna necessariamente l’uniformità.

Abbiamo bisogno di uno sguardo periferico che dia spazio a forme di pluralismo giuridico-ecclesiale. Non si può continuare a immaginare l’organizzazione della Chiesa sulla base territoriale che caratterizzava l’Impero Romano. La struttura a raggiera basata su Roma non reggerà l’urto della contemporaneità; la struttura curiale, che al livello diocesano replica quella romana, già adesso si adatta male alle diverse circostanze di tempo e di luogo. Questo appare evidente non appena si abbandonino i criteri istituzionali di funzionamento dell’apparato per cercare soluzioni funzionali all’evangelizzazione.

Sinodalità non fa più rima con collegialità. “Sinodo” non fa più rima con “consultivo”, ma con “partecipazione”; “comunione” non regge più solo “episcopale”, ma anche “ecclesiale”. Auguriamoci che questo processo sinodale apra spazi nuovi di partecipazione popolare, senza paura di innovare.

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