La riserva maschile non è la soluzione. La donna e il ministero ordinato secondo Luigino Bruni


Ho letto con un certo disagio il breve e apodittico ragionamento con cui Luigino Bruni entra nella questione teologica del “ministero femminile”, sfoderando alcuni luoghi comuni che non sono solo suoi, ma che non aiutano a comprendere la questione. Altrettanto sorprendente è il fatto che l’”Osservatore Romano” titoli con grande evidenza una tesi a dir poco discutibile (“Il sacerdozio non è la soluzione”, il testo dell’articolo si può leggere qui). All’inizio del suo intervento, Bruni ricorda giustamente il ritardo con cui la Chiesa si trova rispetto al cammino con cui la società ha riconosciuto in modo nuovo e inedito la vocazione e la dignità delle donne. Per recuperare questo “gap”, la Chiesa deve evitare, però, di “clericalizzare la donna”.

La “tesi” di Luigino Bruni

Vediamo come Bruni argomenta questo pericolo. Riporto qui il cuore argomentativo del suo testo:

Pur conoscendo e riconoscendo molte delle ragioni di chi si batte per questo, non ho mai pensato che la soluzione sia estendere il sacerdozio alle donne, perché finché il sacerdozio ministeriale è inteso e vissuto all’interno di una cultura clericale, allargare l’ordine sacro alle donne significherebbe, di fatto, clericalizzare anche le donne e quindi clericalizzare di più la Chiesa tutta. La grande sfida della Chiesa di oggi non è clericalizzare le donne ma de-clericalizzare i maschi e quindi la Chiesa. Occorrerebbe, quindi, comprendere dove si trovano i luoghi delle buone battaglie e su quelli concentrarsi, donne e uomini insieme – un errore comune è pensare che la questione femminile sia una faccenda delle sole donne. Occorre dunque lavorare, maschi e femmine, sulla teologia e prassi del sacerdozio cattolico ancora troppo legato all’epoca della Controriforma, perché una volta riportato il sacerdozio a quello della Chiesa primitiva diventerà naturale immaginarlo come servizio di uomini e donne. Se invece le energie le impieghiamo ora nell’ introdurre alcune donne nel club sacrale degli eletti, aumenteremo solo la numerosità dell’élite senza ottenere buoni risultati né per tutte le donne né per la Chiesa. Il sinodo in corso, col suo nuovo metodo, può essere un buon inizio anche in questo processo necessario.

Gli argomenti principali sono quattro:

a) Siccome la comprensione del “sacerdozio” è clericale, la donna è meglio che non vi entri;

b) Prima si deve lavorare tutti insieme per cambiare il sacerdozio e renderlo non clericale;

c) Una volta guadagnato questo risultato, sarà naturale che questa nuova nozione includa in futuro sia gli uomini sia le donne

d) Se oggi impiegassimo energie per far entrale le donne nella concezione attuale del sacerdozio, avremo élites anche femminili introdotte nel “club sacrale” e nulla cambierà.

Non è la prima volta che ascolto questo ragionamento. Esso accomuna, non di rado, uomini e donne “di destra”, ma soprattutto uomini e donne “di sinistra”. A me pare che però si tratti di un modo per non affrontare veramente la questione e per confondere problemi diversi. Provo a presentare qui brevemente le mie obiezioni.

Le mie obiezioni

La prima esigenza consiste nel distinguere in modo adeguato due questioni, che qui mi sembrano troppo confuse: ossia il riconoscimento della “autorità femminile” anche nella Chiesa, e lo sviluppo del “ministero ordinato”. Credo sarebbe utile usare la terminologia migliore, perché se si parla di “sacerdozio” si resta in una visione vecchia, che rischia di negare la differenza tra il concetto di “ministero ordinato” e il concetto di “sacerdozio” tra i quali non vi è identità. Basti pensare che il “diaconato” non è legato al sacerdozio, ma al ministero ordinato. Ecco allora che cosa non mi convince nel ragionamento presentato:

a) La differenza di Dio, nella società dell’onore, è mediata da due differenze strutturali dell’ordine sociale ed ecclesiale. La differenza di autorità tra uomo e donna, e la differenza di autorità, tra gli uomini, tra chierici e laici. Si tratta di due livelli diversi, che non è utile confondere.

b) Il cammino con cui la Chiesa del Concilio Vaticano II ha affrontato questi due punti-chiave della identità ecclesiale è disomogeneo. Molto si è investito sul piano della “riforma del ministero”, pochissimo sul “superamento della negazione di autorità alla donna”.

c) Pensare che la seconda questione possa essere affrontata soltanto quando la prima sarà risolta, significa rimandare “sine die” la questione stessa, idealizzando in modo improprio un modello “non sacrale” di ministero, che sarebbe una sorta di “prerequisito” per l’accesso ad esso da parte delle donne.

d) Sono convinto che solo lavorando contemporaneamente su queste due “differenze irriducibili” per la società dell’onore, e della Chiesa come “societas inaequalis”, si potrà ottenere, parallelamente, la declericalizzazione del ministero e il riconoscimento della autorità femminile anche nella Chiesa.

e) D’altra parte è altrettanto vero che oggi nella Chiesa vi sono “sacerdoti” che non esercitano la loro autorità in modo clericale (anche se sono condizionati da una struttura istituzionale e normativa clericale): perché mai ad una donna che entrasse nell’ambito del ministero ordinato dovremmo subito affibbiare l’epiteto di “membro di un club sacrale”?

f) Una riforma della Chiesa davvero efficace è costretta, oggi, a trattare la questione “clericale”, la questione del “potere” e quella della “dignità della donna” in modo inevitabilmente parallelo. Pensare di poter affrontare una questione, lasciando l’altra nel congelatore, è una cosa quanto meno ingenua.

Non credo che l’unica soluzione della crisi attuale possa essere l’accesso della donna al ministero ordinato. Ma non credo neppure che la esclusione della questione dalla “agenda” (perché questo mi pare l’intento neppure troppo nascosto di Bruni) sia un modo davvero convincente e lungimirante di affrontare il problema. Io direi così: per la riforma del ministero ordinato, la questione del superamento della “riserva maschile” è un aspetto decisivo. Non è l’unico ripensamento necessario, ma nessuno potrà uscire dal clericalismo sacerdotale se non superando gradualmente la “riserva maschile”. Questo vale tanto per l’articolo di Luigino Bruni , quanto per il titolo dell’Osservatore Romano. Un buon titolo alternativo (ma di un articolo diverso) sarebbe stato: La “riserva maschile” non è la soluzione.

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