8 marzo: dignità della donna e dignità della teologia


La “festa della donna” segnala, a partire dagli anni 10 del XX secolo, un cambiamento profondo nella comprensione della dignità pubblica delle donne. La chiesa cattolica ha registrato nel 1963 questo dato, con la profezia di Giovanni XXIII nella Enciclica Pacem in terris, ma poi non è riuscita a cambiare a fondo il linguaggio con cui parla della donna. Anche la teologia del magistero è rimasta molto spesso al di sotto del minimo necessario per onorare la dignità della donna. Un esempio triste e impressionante di questo tentativo non riuscito si legge nel testo di GPII che si intitola Mulieris dignitatem (1988), appunto “La dignità della donna”.  Proviamo a leggere solo un breve passo, assai esemplare di un particolare stile argomentativo, che si trova alla fine del n. 26

“Se Cristo, istituendo l’Eucaristia, l’ha collegata in modo così esplicito al servizio sacerdotale degli apostoli, è lecito pensare che in tal modo egli voleva esprimere la relazione tra uomo e donna, tra ciò che è «femminile» e ciò che è «maschile», voluta da Dio sia nel mistero della creazione che in quello della redenzione. Prima di tutto nell’Eucaristia si esprime in modo sacramentale l’atto redentore di Cristo Sposo nei riguardi della Chiesa Sposa. Ciò diventa trasparente ed univoco, quando il servizio sacramentale dell’Eucaristia, in cui il sacerdote agisce «in persona Christi», viene compiuto dall’uomo. E’ una spiegazione che conferma l’insegnamento della Dichiarazione Inter insigniores,pubblicata per incarico di Paolo VI per rispondere all’interrogativo circa la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale[ Mulieris Dignitatem n. 26]].

Qui si sovrappongono, in modo piuttosto arbitrario e confuso, 3 livelli della questione che dovrebbero restare distinti: la istituzione della eucaristia, la missione degli apostoli, la relazione tra Cristo sposo e Chiesa sposa. La armonizzazione dei tre piani, in modo diretto e senza alcuna vera giustificazione, permette di arrivare ad una triplice conclusione incongrua e gravemente ideologica:

– che nella istituzione della eucaristia Cristo volesse “esprimere la relazione tra uomo e donna”;

– che agire in persona Christi pretenda il sesso maschile;

– che questa ricostruzione possa costituire una “spiegazione” della riserva maschile affermata da Inter Insigniores.

La prima affermazione è un salto argomentativo così vistoso e cosi infondato, da risultare imbarazzante: che nella ultima cena e nella missione degli apostoli appaia come una evidenza la “riserva maschile” è il frutto di una proiezione sul testo delle nostre visioni e soprattutto deriva dalla interpretazione di un silenzio come se fosse una parola, di una omissione come se fosse un divieto. Questo introduce un elemento pesantemente arbitrario nella interpretazione dei testi.

Il seguito del discorso non spiega perché il ‘sacerdote’ sia riconosciuto, dalla tradizione, non solo come colui che agisce “in persona Christi, ma anche come colui che agisce in persona ecclesiae, cosa che, secondo il ragionamento proposto mediante un uso “letterale” della analogia Sposo/Sposa, chiederebbe il sesso femminile. Agendo in persona Christi, ma anche in persona ecclesiae, il ministro dovrebbe essere, contemporaneamente e paradossalmente, e maschio e femmina.

Questo non spiega neppure perché nella tradizione si usi la terminologia del Cristo Sposo in relazione alla Chiesa Gerarchica come Sposa, la quale, nella sua femminilità costitutiva, può però essere rappresentata solo da uomini maschi. La metafora vacilla non in sé, ma per l’uso che il nostro tempo pretende di farne. Questo uso classico, utilizzato ad esempio da Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi spirituali, viene allora indirizzato chiaramente a confermare il potere gerarchico [maschile]: la gerarchia, essendo “sposa” di Cristo, da lui riceve la medesima autorità dello Sposo. Nel caso attuale, invece, si usa la terminologia sponsale per negare l’autorità femminile: perché non può accedere alla rappresentanza dello Sposo e come chiesa Sposa non riceve autorità. Per gli uomini Sposo e Sposa sono figure e analogie, per le donne sono “ruoli sessuati”.
Ecco allora il paradosso: se l’uomo maschio può rappresentare sia lo Sposo, sia la Sposa, e in un caso come nell’altro vede confermata la propria autorità, la donna si trova di fronte ad un duplice ostacolo: può rappresentare solo la sposa, ma senza autorità, e non lo sposo, perché è priva di autorità:  vi è qui un uso distorto della analogia, che viene piegata ad un uso esplicitamente ideologico. Con la analogia sponsale, nel suo uso allo stesso tempo figurato e letterale, si può attribuire all’uomo ogni autorità, sia dal lato dello sposo, sia dal lato della sposa, mentre alla donna si attribuisce solo un lato della relazione, ma rigorosamente sprovvisto di autorità, diremmo per anatomia. Per l’uomo la determinazione sessuale risulta ininfluente, mentre per la donna risulta totalizzante.
Una teologia arbitraria, che usa in modo non controllato il linguaggio elaborato dalla tradizione con altre intenzioni, non sa riconoscere fino in fondo la dignità della donna, perché non valorizza in modo adeguato le parole che impiega, lasciando che il pregiudizio modelli la argomentazione a proprio piacimento. Un difetto di linguaggio così vistoso di fronte alla dignità della donna chiede una teologia meno arbitraria e perciò dotata di maggiore dignità. Il riconoscimento della dignità della donna impone alla teologia di recuperare la propria dignità. Un “segno dei tempi” ha precisamente questa funzione: insegnare qualcosa di nuovo alla teologia e al suo linguaggio, permettendole di svolgere in modo più adeguato il proprio servizio ecclesiale.

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