Il ritardo teologico del diritto canonico: a proposito di uno scritto di P. Consorti


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Molti sono i pregi del testo con cui P. Consorti scrive, sull’ultimo numero del “Regno” a proposito di un “ripensamento del diritto canonico” (“Il Regno”, 2[2022], 3-7). La questione è molto seria: il diritto canonico ha perso ogni profezia, si è arreso al “diritto positivo” e non fornisce più alcuna vera accelerazione alla vita della Chiesa. Esso funziona quasi solo come un freno, come un freno a mano, o a pedale, o anche come servofreno, ma poco di più. Singolare è il fatto che, per mettere in moto le cose, papa Francesco, negli ultimi Motu Proprio, abbia lavorato “di cesello” su singoli canoni, liberando energie di traduzione, di ministerialità, di correlazione…ma sempre solo in modo “episodico”. Perché manca una visione di insieme, anzitutto da parte dei canonisti, che spesso si interpretano semplicemente come “funzionari della autorità”. Esaminiamo più da vicino il discorso di Consorti, per poi aggiungere alcune questioni, di carattere strettamente teologico.

1. Il testo di Consorti

La osservazione iniziale è forte: dopo il Concilio, ad un forte aggiornamento della teologia, e della scienza giuridica non canonica, non ha corrisposto un analogo aggiornamento del diritto canonico. In particolare, tale aggiornamento fatica a recepire “nuove evidenze” che gli ultimi 200 anni hanno imposto sul piano giuridico e culturale. La eguaglianza tra tutti gli uomini e le donne, la tutela dei terzi, la divisione dei poteri non vi appaiono riconosciuti, mentre la pretesa di spostare sul piano del “diritto divino” delle regole discriminatorie persiste. La recente riforma del diritto penale canonico, largamente deludente, o le reazioni ecclesiali in tempo di pandemia – inutilmente burocratiche – attestano lo scollamento tra forma giuridica e realtà umana ed ecclesiale. Il diritto canonico non intercetta il reale e lo ricostruisce congetturalmente. Così la Chiesa sembra costretta a intercettare il reale su altri livelli (morali, politici, veritativi…) proprio perché il meccanismo istituzionale di rapporto non funziona più. D’altra parte è l’idea stessa di un “codice di diritto canonico” ad offrire uno “schema interpretativo” troppo rigido e del tutto estraneo alla grande tradizione canonica. Di fronte a questo i canonisti sembrano restare passivi. Consorti chiede un “cambio di paradigma” (riprendendo un’immagine già suggerita da C. Fantappié e da M. Neri). In tale cambio un diritto canonico si fa “periferico”, non perché diventi più irrilevante, ma perché può dar voce alla periferia: alle donne, ai poveri, ai migranti, alle vittime di abuso. Il cammino sinodale è il luogo non solo ideale, ma reale, nel quale poter aprire un dibattito serio, nel quale canonisti ecclesiastici, canonisti laici e teologi possano confrontarsi senza riserve.

2. Alcune questioni giuridiche in gioco

Già altre volte lo si è detto: una teologia che non si occupi del diritto canonico, resta essa stessa vittima di dogmatiche giuridiche inadeguate. Per questo è vitale ascoltare la sollecitazione di P. Consorti: senza la profezia dei canonisti, la riforma della Chiesa non si farà. Provo ad identificare a titolo di esempi una serie di tre “punti dolenti” della recente storia comune:

a) Si fa una “riforma del diritto penale canonico” e quasi nessun canonista prende la parola per dire come stanno le cose: ossia che la riforma è nominalistica, e che i “reati contro la persona” rimangono una categoria non recepita nella struttura del testo normativo. Non si fanno le riforme solo con “nuovi titoli” e con interviste compiacenti.

b) La ideologia della “obbedienza” impedisce a più di un canonista l’esercizio professionale della critica. Ricordo bene alcuni autorevoli canonisti, al tempo del MP “Summorum Pontificum”, che giustificavano l’ingiustificabile, ossia la possibilità che potessero essere vigenti, contemporaneamente, norme liturgiche contraddittorie. Un canonista vero e serio non può giustificare l’ingiustificabile, neppure se lo dice un papa. E’ vero allora che trovavano, su questa stessa strada accomodante, anche più di un teologo indulgente.

c) Le categorie del “diritto matrimoniale” e del giudizio “sulla nullità” sono ormai astratte e non riescono a cogliere la “storia del vincolo”. Anzi, come categorie giuridiche, escludono che il vincolo possa avere una storia. Così rendono incomprensibile la vicenda di molte coppie e famiglie, che esperimentano esattamente ciò che il diritto non può vedere. Anche qui, non si tratta di “colpe” di singoli, ma di un sistema radicalmente distorto. Di cui i canonisti dovrebbero provvedere a studiare e immaginare una profonda riforma, senza attenderla semplicemente come una possibile iniziativa del papa. Questo aiuterebbe anche molti vescovi a non inaugurare gli “anni giudiziari” con discorsi troppo retorici.

3. Le questioni teologiche a monte

Tuttavia il difetto cui rimediare non è solo giuridico, ma teologico ed ecclesiologico. Si tratta di assumere la scienza giuridica in una lettura che non sia “da funzionari”. Il canonista non dovrebbe lavorare mai soltanto con lo “ius conditum”, ma dovrebbe essere sempre aperto allo “ius condendum”. Questo è sempre stato vero fino al Codice del 1917, che ha dato a tutti la illusione che nel Codice si fosse trovata la “lex perennis”, sulla base della quale reimpostare l’intera esistenza ecclesiale. Il positivismo del Codice, come proiezione della “societas perfecta” e come modello della “societas inaequalis”, era nato come “normalizzazione istituzionale” di fronte al mondo tardo-moderno. E aveva, in sé, molte tare dell’antimodernismo. Non a caso il Codice era uno dei primi oggetti di riforma pensati da Giovanni XXIII con la indizione del Concilio Vaticano II. La riforma del 1983 ha assunto dal Concilio alcuni principi di carattere teologico, ma è rimasto istituzionalmente in una sostanziale continuità con il Codice precedente. Così, ad una chiesa che camminava teologicamente e pastoralmente secondo la mens del Concilio corriponde un “governo” segnata da logiche anti-modernistiche. La mancanza di “divisione dei poteri” e la “irrilevanza dei terzi” appare oggi, proprio nel dramma degli abusi, un “punto cieco” dell’ordinamento ecclesiale. E’ più facile gettare la croce su singoli colpevoli che comprendere il difetto “istituzionale”, per rimediare al quale occorre una accuratissima riforma strutturale. Senza contare come le “rappresentazioni” che la dogmatica canonistica pone (e talora pretende di imporre) costituiscono spesso una lettura ridotta e stilizzata della esperienza ecclesiale e sacramentale, alla quale il teologo e il pastore non può mai limitarsi né essere limitato.

4. Il Sinodo e la riforma giuridica

La occasione di un grande cammino ecclesiale che riscopra la sinodalità come “metodo” ha un impatto singolare sulla competenza canonica. Che può essere aggirare lo “stile sinodale” in tre modi, con tre “trucchi”:

a) riducendo il Sinodo in una grande e preziosa procedura di ascolto reciproco, senza prendere alcuna decisione. I Sinodi sono fatti per decidere in comune, non solo per ascoltarsi. Questo i canonisti dovrebbero dirlo a voce più alta degli altri: guai se non ci ascoltassimo, ma il modo ultimo dell’ascolto sono norme più adeguate, più rispettose, più acute, più lungimiranti. Il primo modo per ascoltare davvero è garantire diritti di parola strutturali, necessari, non concessi paternalisticamente.

b) spacchettando l’ascolto in “sedi” diverse per competenza. Così, sulla base di una sovrastruttura gerarchica che sa “a priori” dove si deve discutere che cosa, allora ogni livello (diocesano, nazionale, universale) viene ricomposto secondo logiche di competenza strettamente distinte, per cui l’effetto è che, ad ogni richiesta di discussione e di ascolto, ci si vede rispondere: non è questo lo sportello giusto, deve recarsi altrove…

c) riducendo il Sinodo alle sue “condizioni giuridiche del suo esercizio formale”: e così riducendolo solo alla forma diocesana, escludendo tutto ciò di cui il Codice non parla. Come se la realtà sinodale, di confronto, di ascolto, di relazione, dipendesse dalle parole normative del Codice. Un positivismo ideologico spesso condisce i discorsi di credenti e pastori e li altera in modo pesante. Una dogmatica giuridica antiquata, che faccia da filtro su tutto, diventa la radice di una autoreferenzialità malata e quasi inguaribile.

Il canonista non deve semplicemente “registrare” e “rilanciare” questo triplice difetto. Deve sollevare la questione, proporre correzioni, elaborare riforme. Non c’è alternativa: è la sua conoscenza tecnica a poter risalire la china. Se non lo fa lui, chi dovrebbe farlo?

Le norme canoniche sono strumenti per altro. Un vescovo, una comunità o un canonista che pensasse di usare il Codice come “fine” – e che lasciasse anzitutto al codice la interpretazione del reale – cadrebbe in un errore molto grave e quasi irreparabile. L’invito formulato da Consorti ad una nuova assunzione di responsabilità da parte dei canonisti nel cammino di riforma sinodale della Chiesa è una parola importante, che merita di essere ascoltata. Senza canonisti capaci di immaginazione e di profezia, la Chiesa non potrà rinnovarsi.

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