Dignità “infinita”, “secondo ragione” e “al di là delle circostanze”. Il Vangelo e l’incondizionato che è comune


Anche nel testo di “Dignitas infinita”, come è avvenuto già in “Fiducia supplicans” e in “Gestis verbisque” – per citare i principali documenti pubblicati dal Dicastero per la dottrina della fede sotto la guida del nuovo Prefetto Fernandez – si notano due dimensioni che entrano in una certa tensione: da un lato lo scopo della rielaborazione aperta della tradizione (sul tema della benedizione di coppie in condizioni irregolari, di validità dei sacramenti e di dottrina sulla dignità dell’uomo), un obiettivo si colloca nella prospettiva della “chiesa in uscita” e del “cambio di paradigma” affermato da papa Francesco ormai da un decennio. Tuttavia gli strumenti dottrinali e disciplinari con cui questa istanza viene promossa non sono adeguati all’intento e deprimono la stessa intenzione. Altrove ho già parlato dei primi due documenti. Qui vorrei mostrare i punti poco convincenti del documento Dignitas infinita. Li presento sinteticamente, secondo diverse prospettive.

0. La definizione iniziale

Già nella Presentazione del testo si sottolinea la affermazione della “dignità infinita” come “verità universale”, che si colloca “al di là delle circostanze”, ma anche “al di là di ogni apparenza esteriore o di ogni caratteristica della vita concreta delle persone”. Già nella presentazione viene presentata una correlazione tra dignità umana, verità universale, realtà “infinita” e irrilevanza delle circostanze. Tutto il primo numero della Dichiarazione assume questa prospettiva in modo netto. Lo riporto per intero:

1. Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù. Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre «sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza»

In questo primo numero del documento si fanno alcune osservazioni fondamentali:

– l’essere dell’uomo e della donna ha “dignità infinita” e per dire l’infinito si specifica il suo “livello ontologico” e la “irrilevanza delle circostanze”

– questo “principio” è “principio di ragione”

– la tradizione ecclesiale, che dipende dalle circostanze della storia della salvezza, conferma questa verità di ragione “in modo assoluto”.

1. L’incondizionato come “ente”?

Come viene presentata la “dignità dell’uomo”? Come una dimensione “ontologica”, che merita un rispetto della ragione. Questo rispetto deve essere “incondizionato”. La elaborazione di questo “ente”, tuttavia, appare del tutto minimale. Il riferimento “al di là delle circostanze” traduce la istanza dell’ incondizionato. La traduzione oggettiva, ontologica, di questa incondizionatezza risulta però problematica, perché astrae dalle sue “condizioni”. Questo è il punto di svolta, che il pensiero tardo moderno ha elaborato con finezza, e di cui nel testo non c’è alcuna traccia. Al posto di questo confronto vi è quella che potremmo chiamare “rassegna delle concezioni” della dignità. Troviamo 4 accezioni di dignità (DI 7-8), che vengono presentate in modo molto sintetico e quasi “scolastico”, ma con uno scarso approfondimento: dignità ontologica, dignità morale, dignità sociale e dignità esistenzialeparlanodella dignità come una “sostanza”, che poi entra in relazione con le norme, con la società e con la coscienza. Il soggetto, compreso oggettivamente, crea difficoltà. Il linguaggio utilizzato rimane oscillante: “al di là delle circostanze” è linguaggio giuridico, “assoluto” e “infinito” è linguaggio metafisico. Manca l’uso di “incondizionato”, che avrebbe portato una dimensione morale molto più al centro. E manca la dimensione “costitutiva” del livello sociale ed esistenziale, che invece risulta recuperata, ma solo in negativo: come se il riferimento alla relazione sociale e alla complessità del soggetto cadesse facilmente in un relativismo che si vuole evitare. Di qui scaturisce anche la “diffidenza verso i diritti soggettivi”, che sembrano letti come “minaccia”, ma storicamente hanno creato lo spazio di riflessione anche ecclesiale sul tema di una “dignità infinita”. Certo, la Chiesa parla della dignità anzitutto dell’altro, non del sé. Ma può farlo oggi grazie alla elaborazione raffinata dei diritti del soggetto personale.

2. La ragione e la fede

Un secondo aspetto che merita attenzione, e che il documento non fa oggetto di attenzione, è la correlazione tra “verità di ragione” e “verità di fede”. E’ chiaro che la intenzione del testo, che deve essere presa sul serio e che lo qualifica in modo positivo, è di “mostrare” che ogni uomo e ogni donna, “indipendentemente dalle circostanze”, sono dotati di “dignità infinita”. Questo è uno dei contenuti fondamentali del messaggio cristiano, che possiamo riconoscere come originario in tutta la tradizione giudaico-cristiana. Ma in che senso questo “contenuto” può essere considerato e annunciato “sola ratione”? Se “dare ragioni della speranza” è uno degli atti fondamentali che impegna la Chiesa lungo i secoli, in quale maniera è possibile riconoscere la “dignità infinita” come un “contenuto di sempre”, che può essere accessibile anche “senza alcuna rivelazione”? Se soltanto alla fine del Concilio Vaticano II un documento come Dignitatis humanae ha potuto assumere la “libertà di coscienza” come contenuto rivelato, come potrebbe la dignità umana (di ogni uomo e di ogni donna) essere una “evidenza” che può essere raggiunta come un “principio di ragione”? Il peccato, ossia la ingiustizia contro la dignità di sé e dell’altro, potrebbe essere compresa solo come una “ragione malata”? Il dibattito degli ultimi 200 anni, che su questo punto ha offerto mediazioni decisive, sembra del tutto assente e risolto con citazioni di Boezio o di un generico “personalismo” non meglio definito e non rilevante per il tenore della argomentazione.

3. L’assenza di circostanze e le circostanze del Credo

Un documento ecclesiale, che inizia col nobile intento di assicurare alla “dignità dell’uomo e della donna” una “dignità infinita” è evidente che muove dalla confessione dell’amore infinito di Dio, che guarda con grazia e benevolenza ogni creatura. Una mistica credente è il supporto del discorso ecclesiale. Ma questa “storia”, che chiamiamo “storia della salvezza”, non è certo una “circostanza irrilevante”. Eppure le “circostanze del Credo” (creazione, incarnazione, morte e resurrezione, ascensione, dono dello Spirito ritorno nella Gloria) non possono ridursi ad una mera “pedagogia della ragione”. Qui forse una riflessione sull’incondizionato della dignità avrebbe potuto nutrirsi di una maggiore correlazione tra fede e ragione. Di fronte alla fede, la ragione ha il vantaggio di essere “comune” e “universale”. Ma proprio queste caratteristiche della ragione la rendono debole e accomodante. Ci sono sempre buone ragioni per non rispettare la dignità. La incondizionatezza della dignità dell’altro è fondata su un “dono ricevuto”: qui sta una radice irriducibile alla ragione. Qui, per dirla con Marion, una fondazione non ontologica è necessaria. Ad ogni stratega che giustifica i bombardamenti o gli attentati sulle città, lo sguardo atterrito di un bambino che abita quelle case produce una “alterazione della ragione” che è l’unica traccia di umanità ancora possibile. Dignitas infinita pretende di arrivare al risultato “al di là delle circostanze della fede”. Ma questa circostanza non può essere mai sospesa. Se l’incondizionato si dà come circostanza, se Dio si mostra come un uomo storico e un uomo vive dopo la morte, tutto cambia, anzitutto nei rapporti tra ragione e fede.

4. La storia della evidenza e le sue opacità

L’affermazione appena compiuta implica un secondo passaggio, abbastanza doloroso, ma necessario, e che Dignitas infinita non compie. In Amoris Laetitia la presentazione della “gioia dell’amore” aveva richiesto un difficile passaggio “autocritico”. Se non ci si libera da ricostruzioni addomesticate della tradizione culturale ed ecclesiale, non si capisce quanto grande sia la sfida di un “nuovo paradigma”. In Dignitas infinita prevale una ricostruzione apologetica della storia ecclesiale. Faccio un solo esempio. Al n. 3 DI dice così:

Fin dall’inizio della sua missione, sulla spinta del Vangelo, la Chiesa si è sforzata di affermare la libertà e di promuovere i diritti di tutti gli esseri umani”.

Curiosamente la nota 4, che precisa proprio questa affermazione, cita però (con l’inciso “ponendo attenzione solo all’epoca moderna…) esclusivamente documenti dal 1891 in poi. Perché mai si dice “da sempre”, ma il primo papa citato è Leone XIII? Perché la elaborazione ecclesiale è stata lenta e ha proceduto al traino delle evidenze culturali a partire dal XIX secolo in poi.

Una prova di questa “lentezza” si trova in tutti i grandi pensatori pre-moderni, che non hanno colpa per il fatto di aver vissuto nel loro tempo. Un esempio rimarchevole si trova in S. Tommaso d’Aquino. La dignità umana, come dignità infinita, non è un concetto noto a S. Tommaso d’Aquino. Nella grande questione II II q 64 della Summa Theologiae, dedicata all’omicidio, l’articolo 2 giustifica l’uccisione del peccatore sul piano della dignità. Negli argomenti a favore cita il Salmo “Di buon mattino sterminerò tutti i peccatori della regione” (sal 101, 8) e nel corpus si dice:

Con il peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione: perciò decade dalla dignità umana, che consiste nell’essere liberi e nel vivere per se stessi…Così sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene” ( S. Th. II II, 64, 2, ad 3):

infatti un uomo cattivo è peggiore e più nocivo di una bestia dice Tommaso in conclusione, citando Aristotele.

Levare la dignità agli uomini, riducendoli a bestie, è un dispositivo “razionale” che viene da lontano. Per resistervi la ragione è uno strumento necessario, ma non sufficiente.

5. Il compito di un “sapere comune” per la fraternità universale e Ch. Taylor dimenticato

 

Lavorare per una “evidenza della fraternità” resta un compito ecclesiale. Ma la via per istruire la causa non può venire da una mera giustapposizione tra fede e ragione e, d’altro canto, da un uso della ragione che, in modo premoderno, lascia come “spazi autonomi” la ontologia, l’etica, la sociologia e la coscienza esistenziale dei singoli. Questa impostazione nasce vecchia. Per questo non potrà dare un grande contributo nella preziosa direzione su cui è giusto lavorare con impegno e con confronti molto più ampi.

Una notazione curiosa per concludere. Il testo dichiara che il percorso di “composizione” inizia nel 2019. Osservo che nello stesso anno è stato conferito il “Premio Ratzinger” al filosofo Charles Taylor. Uno dei meriti di questo pensatore cattolico consiste nell’aver riflettuto con una nuova radicalità proprio sul concetto di “dignità”. Eppure, nel testo della Dichiarazione non sembra esservi traccia di quella “società della dignità” che Taylor configura come l’ambiente nel quale la tradizione deve prendere il suo significato, al di là della “società dell’onore”. Il testo della Dichiarazione, invece, sembra ancora orientato ad un “significato ontologico” di dignità, che sta al di qua del significato morale, sociale ed esistenziale. Ragiona come se fossimo ancora nella “società dell’onore”, pur ammettendo che in larga parte del mondo non è più così. Ascoltare anche Charles Taylor avrebbe potuto dare al documento ben altra forza. Forse nella nuova concezione del Dicastero, di cui Francesco ha scritto al nuovo Prefetto nell’estate del 2023, una consulenza del prof. Taylor sarebbe stata possibile e forse dovuta.

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