Architettura e liturgia – La chiesa parrocchiale dei SS. Giovanni Battista e Paolo, in Milano


Una chiesa parrocchiale cuore di una cittadella nella grande città di Milano

La chiesa, con il complesso parrocchiale in cui è inserita, è a mio parere uno dei luoghi più suggestivi della Milano periferica del XX secolo. Costruita tra 1964 e 1968 e consacrata nel 1977, essa è stata dedicata all’arcivescovo Giovanni Battista Montini come indica il richiamo al suo primo nome originario unito a quello assunto divenendo papa.

Dall’esterno l’insieme di chiesa, oratorio, uffici e residenza parrocchiale appare come un consistente volume unico, reso complesso dall’insistita articolazione per piani distinti ma anche fortemente compaginato dall’uso del mattone di rivestimento della struttura in calcestruzzo armato. L’unitario e suggestivo blocco edilizio suggerisce l’idea di un castello o di un robusto maniero monastico che protegge una vita preziosa, varia e di grande respiro, ricca di silenzi e di momenti di festa, distinta ma non ostile a quella che scorre nel movimentato quartiere circostante.

Ritagliato nello spessore delle murature si ripete insistente, e a scale diverse, il disegno di una croce greca, leitmotiv che richiama l’impianto planimetrico della chiesa. Il rito del passaggio dall’esterno all’interno di questa, cuore dei locali parrocchiali, avviene tramite due portici: il primo trasversale aperto su via Patti, in secondo successivo e ortogonale al precedente. L’effetto di penombra in essi percepito prepara alla luminosità sapientemente diffusa all’interno della chiesa, tramite lucernari a soffitto, in calcestruzzo armato a vista come i pilastri, che contrasta delicatamente con il rustico rivestimento bianco delle pareti, del caldo legno degli arredi, delle doghe in legno color catrame che rivestono il soffitto.

Anche se non se le conoscono le regole, si percepisce un’armonia di dimensioni geometriche in orizzontale e in verticale che ben si proporziona con quelle del corpo di chi si muove in questo spazio. Ne sono autori, capaci di evocare un avvolgente, quasi affettuoso senso del sacro, gli architetti progettisti, Luigi Figini (1903-1984) e Gino Pollini (1903-1991), tra i più celebri interpreti del razionalismo internazionale, il primo grande movimento dell’architettura del XX secolo. In esso ambedue hanno vissuto una lunga militanza, iniziata quando ancora erano studenti universitari con gli amici con i quali fondarono un celebre ‘Gruppo 7’, passato alla storia.

Lasciando alle spalle, a sinistra, la cappella feriale e altri spazi e, a destra, il Battistero segnato dal ritmo sonoro dell’acqua che cade a gocce nella vasca, si è fortemente attratti verso il presbiterio-sacrario sovrastato dal più grande dei lucernari. Vi si accede tramite un insieme di gradini in marmo bianco. L’altare, un blocco di marmo rosso di Verona bocciardato, domina al centro. Sulla parete di fondo un taglio di luce a tutta altezza, generato dallo scarto murario, investe la custodia eucaristica, opera insieme a tutte le altre componenti liturgiche dell’artista francescano padre Costantino Ruggeri (1925-2007).

Prima di questa, i due architetti avevano progettato una chiesa dedicata alla Madonna dei Poveri a Baggio, in un’altra zona periferica milanese, rimasta incompiuta, anch’essa subito celebrata come capolavoro in campo internazionale. Avevano inoltre lavorato a lungo per un’altra chiesa, non realizzata, per un quartiere popolare nella città di Bergamo. Il complesso con la chiesa dei SS. Giovanni Battista e Paolo può dunque essere ritenuto approdo di una lunga ricerca segnata da profonda religiosità e da sapienza progettuale e costruttiva. É inevitabile avvertire un senso profondo di gratitudine: poter godere di una bella chiesa, partecipare in essa ai riti o ritrovarsi occasionalmente a pregare in solitudine è un dono che occorre riconoscere, apprezzare, custodire e condividere.

Quando Guardini ha affermato che l’architettura è ‘mondo umano’ ha ricordato che abitare la terra, costruirvi le proprie dimore e le proprie chiese è innanzi tutto comprendere sé stessi nella propria umanità, dando evidenza ad una sintonia, tra mondo creato da Dio e spazio di vita predisposto dagli uomini, che porta in evidenza, e pertanto consolida in solidarietà, il bene che accomuna gli uomini. Dunque: l’architettura in tutte le scale, dalla città alla più piccola dimora, è un bene comune. Meglio: può essere tale, se ci si impegna con generosità e intelligenza, con devozione e sensibilità religiosa a costruirla per questo scopo.

                                                             Maria Antonietta Crippa

 

Un luogo sacro, del ‘totalmente Altro’ eppure ‘domestico’

L’architetto, che progetta una chiesa, ricerca “forme”, che poi lo aiuteranno a pensare quelle dell’edificio che sta progettando: può ricercare nella storia dell’architettura, può guardare alla contemporaneità, ma sulla base di cosa immagina una forma piuttosto che un’altra?

La capacità di valutare tra le forme possibili deve essere fondata su un discernimento più profondo, uno scavo nell’umano religioso, e in modo particolare nell’umano rituale-cristiano.

Non è questione soltanto di ragionamento, né soltanto di preparazione intellettuale, in realtà è in gioco il “vissuto” liturgico, l’esperienza liturgica.

A tal proposito, Romano Guardini nel 1964 scriveva: «In questo atto [liturgico] … sta non solo l’interiorità spirituale, ma l’uomo come totalità, spirito e corpo. Quindi l’agire stesso è “preghiera”, atto religioso; i tempi, i luoghi, le cose coinvolte non sono decorazioni estrinseche, bensì elementi dell’atto complessivo e dovrebbero essere realizzati come tali, e via dicendo»[1].

La ricerca dell’architetto dovrebbe essere, dunque, orientata alle forme spaziali quali elementi propri dell’atto liturgico stesso.

La chiesa dei SS. Giovanni Battista e Paolo, progettata dagli architetti Figini e Pollini, manifesta una grande attenzione a questo tipo di ricerca.

Innanzitutto, è evidente un’attenzione alla dimensione del sacro, operata con una ricerca sulle forme della spazialità che lo esprima. Ciò che ne risulta è uno spazio che permette l’esperienza del sacro in una forma squisitamente cristiana; infatti, si offre un’esperienza del sacro “domestico” – non di un sacro “addomesticato” (che sarebbe un travisamento e un tradimento del sacro) –, ovvero l’esperienza rituale di quel “Verbo che si è fatto carne, che è venuto ad abitare in mezzo a noi” (cf. Gv 1,14), che si è fatto, appunto, “domestico”.

Il sacro, così, è testimoniato come vivibile, sperimentabile, tangibile, seppure resti distinto dal mondano, “totalmente altro”.

La domesticità manifesta, inoltre, un aspetto nativo della Chiesa, che si dà in esperienza nella forma delle chiese. La forma originaria della chiesa è la comunità cristiana, i corpi dei cristiani che celebrano insieme. Questo organismo di corpi è anche il luogo originario della presenza di Dio. Questo organismo ecclesiale “celebrante” è forma dell’edificio-chiesa.

La Chiesa è comunità, la cui “casa” abituale è la chiesa-edificio: la domus ecclesiae, dunque, è non soltanto la forma originaria, ma la forma perenne di ogni chiesa. Una chiesa-edificio che non permetta di fare esperienza di “domesticità” non è una chiesa adeguata alla liturgia cristiana. Quali elementi architettonici di questa chiesa esaltano in modo particolare l’esperienza della dimensione del “sacro domestico”?

Innanzitutto, il modo in cui è resa l’evidenza del “santuario”.

Prima che venisse interpretato come presbiterio (spazio destinato ai presbiteri, ai ministri ordinati), lo spazio in cui era collocato l’altare era chiamato “santuario”: non era, come nel tempio di Gerusalemme il Sancta Sanctorum, ossi il luogo più sacro della chiesa; era, più semplicemente, il luogo in cui si trovava l’altare e in cui veniva proclamata la preghiera eucaristica.

In questa chiesa, non c’è un presbiterio, c’è un santuario. E il santuario non è un luogo a sé stante, ma costituisce il fuoco di una polarità; l’altro fuoco è la navata, il luogo dell’assemblea. Si tratta, non di due parti accostate, ma di una polarità, perché non c’è separazione, bensì una correlazione, la quale struttura uno “scambio”: l’altare esalta l’identità l’assemblea e, nello stesso tempo, l’assemblea esalta l’identità dell’altare.

L’altare è simbolo permanente di Cristo (e il finestrone cruciforme, che lo sovrasta, lo rende evidente) e l’assemblea è il corpo di Cristo; così l’atto compiuto all’altare corrisponde (eucaristia) a ciò che nello stesso momento accade all’assemblea: come il pane e il vino sull’altare, l’assemblea diviene corpo di Cristo.

Che questa polarità santuario-navata sia fondamentale nella liturgia è reso evidente nei riti di offertorio: le orazioni sui doni ne sono forma verbale – esse contengono sempre un riferimento all’unità simbolica di altare e assemblea – e nel rito della processione offertoriale che, nella dinamica di congiunzione tra assemblea e altare, esalta lo scambio simbolico tra divino e umano. Il santuario, pertanto, è evidenza del carattere sacro dell’assemblea e la navata è evidenza della domesticità del sacro cristiano.

Pur nella distinzione di santuario e navata, la loro profonda unità, poi, è resa in modo efficacissimo dalla luce: la stessa luce del santuario investe l’assemblea; e così, in questa dinamica operata dalla luce, anche la tensione all’esperienza dello Spirito Santo sembra evidentissima e pregnantissima.

In questa chiesa, infine, la navata ha una forma “aperta”. A differenza della forma basilicale, in cui la navata è costituita da un unico grande vano, in questa chiesa la navata è più frastagliata. Questa articolazione è resa molto evidente dai volumi degli ambienti tenuti ben visibili anche dall’esterno. Ed è indizio di una nuova sensibilità ecclesiale oltre che di una nuova sensibilità ministeriale. La Chiesa “tutta ministeriale” richiede un’articolazione degli spazi in grado di permettere agibilità e visibilità della ministerialità di tutti i fedeli: è un’articolazione che non divide né separa, pur evidenziando i carismi e i compiti di ciascuno. A questa forte sensibilità ecclesiale è correlata la scelta di produrre un battistero monumentale con “acqua viva”, richiamando i battisteri paleocristiani. E richiamando ancor più in profondità il fondamento battesimale di tutto il corpo ecclesiale.

Questa chiesa offre una forma nuova di “aula liturgica”, capace di tenere armonicamente tutte le polarità simbolico-rituali ed ecclesiali: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1Cor 12, 12-13).                                                             Girolamo Pugliesi

 

[1] R. Guardini, L’atto di culto e il compito attuale della formazione liturgica. Una lettera, in Id., Formazione liturgica, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 28-29.

 

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