Le crisi degli amici preti e quelle degli amici laici


due figli

Le crisi degli amici preti e quelle degli amici laici

di Andrea Grillo*

Nella conclusione di un articolo di Enzo Bianchi su La Stampa, pubblicato il 12 ottobre 2014, si può leggere questa importante considerazione: «Si rifletta (…) su un dato: perché preti, monaci, religiosi, che emettono una pubblica promessa a Dio al cuore della Chiesa, pur avendo abbandonato la vocazione ricevuta e contraddetto i voti pronunciati – voti che san Tommaso d’Aquino diceva che la Chiesa non può mai sciogliere – possono partecipare pienamente alla vita anche sacramentale della Chiesa, mentre chi si trova in altre situazioni di infedeltà ne è escluso? Questa appare come ingiustizia di una disciplina fatta da chierici che vivono più o meno bene il loro celibato e non conoscono la fatica e le difficoltà del matrimonio…».

In questo breve passaggio è concentrata una questione che ha attraversato la coscienza ecclesiale in questo periodo intersinodale: ossia la differenza nella disciplina di “riconciliazione” tra il venir meno di un “voto” e la crisi di un “vincolo”. Tale differenziazione, nella storia, può essere compresa in modo molto articolato.
Da un lato, deriva dalla differenza tra un “voto religioso” – che non è un sacramento – e il matrimonio, che sacramento deve essere riconosciuto. Ma, si può subito obiettare, che l’ordinazione è, a sua volta, un sacramento, eppure, mediante la “dispensa”, resta sempre possibile che colui che è stato prete – e che prete in qualche modo continua a essere – non solo possa sposarsi, ma appartenga pienamente al corpo ecclesiale, vivendo una comunione che si fa anche mensa eucaristica.

DIFFERENZE
Qui, probabilmente, dobbiamo ragionare su due livelli della questione che possono essere considerati come “cause” dell’attuale differenza di “disciplina”:
a) da un lato, si può chiamare in causa, a giusto titolo, una lettura “clericale” della realtà.  La disciplina è costruita “a immagine e somiglianza” dei chierici che l’hanno concepita: è il frutto di una Chiesa segnata da “autoreferenzialità”, e che sa essere estremamente comprensiva per i “suoi” e del tutto indifferente verso “gli altri”;
b) dall’altro, si deve considerare un fondamento più strutturale di questa differenza, ossia il fatto che, mentre nei voti religiosi o nell’ordinazione sacramentale è in gioco, semplicemente, un rapporto tra il “singolobattezzato” (che diventa monaco, monaca o prete) e la comunità, nel matrimonio la relazione è non solo “tra due soggetti”, ma deve mirare a tutelare anche i “terzi possibili” (ossia i figli).
La richiesta che deve nascere dal corpo ecclesiale, quindi, non può essere formulata semplicemente nella forma del “superamento del clericalismo” – che pure è un’esigenza obiettiva della Chiesa contemporanea –, ma da un confronto serio, non paternalistico e non ingenuo – con le “tutele” necessarie a una riconciliazione non solo dei “chierici in crisi”, ma anche dei “laici in crisi”. A tali crisi non si può rispondere con le argomentazioni o le giustificazioni di 800 anni fa.
Può accadere, oggi, che siano proprio gli “amici preti”, che hanno vistola piena riconciliazione del loro “errore”, a diventare i più rigidi e freddi difensori dell’“ordine costituito”, per il quale la Chiesa dovrebbe restare soltanto una “pedagogia sociale”, negando misericordia, e non un “ospedale da campo”, che si prende cura delle ferite e le risana.

D’altra parte, agli amici laici, dovremmo ricordare che non basta denunciare il “clericalismo dell’istituzione” – che certo esiste e condiziona tanto –, ma occorre indicare, con lucidità e con equilibrio, per quali vie è possibile “riconciliare con la pienezza ecclesiale” quei vissuti di crisi nei quali non sono coinvolti semplicemente dei “singoli”, ma piccole o grandi comunità, ruoli sociali, fonti di reddito, rapporti educativi, luoghi di residenza, tempi di affidamento, percorsi di rieducazione, storie di morte e di rinascita.

VICINANZA
Come si sostiene da parte di numerosi osservatori, la Chiesa ha bisogno di “integrare la storia delle coppie e delle famiglie” nel gestire le loro “crisi”. Questo, probabilmente, aiuterà a superare due limiti dell’attuale disciplina: ossia tanto la “retrodatazione” delle questioni, che spesso diventa pesante per tutti e ingiusta per la res da tutelare, quanto la distanza abissale di questa procedura di “rimedio” rispetto alle reali esigenze di “vita nuova” che i soggetti cercano, spesso a margine, quando non contro la disciplina ecclesiale. Per non diventare progressivamente marginale, la Chiesa deve prestare ascolto alla realtà, anzitutto ai suoi margini e alle sue periferie.

Le crisi degli amici preti e monaci hanno risposte ufficiali e definitive in pochi mesi; quelle degli amici laici arrivano dopo lunghi anni e non sempre secondo misericordia: in questa differenza temporale si nasconde un’ingiustizia e un’indifferenza della quale – come ha scritto mons. Vesco, vescovo di Orano – «noi pastori dovremo chiedere perdono».
Restituendo la parola ad Enzo Bianchi possiamo chiederci: «Cosa si attende allora dal sinodo un cattolico maturo nella fede? Che si confessi ancora e ancora l’indissolubilità del matrimonio, ma lo si faccia manifestando la misericordia di Dio, andando incontro a chi, in questa esigente avventura, è incorso nella contraddizione all’alleanza e invitandolo a camminare nella pienezza della vita ecclesiale. Il Dio cristiano ha un volto in cui la misericordia è immanente alla giustizia: è un Dio compassionevole, che in Gesù ha camminato e cammina con chi è ferito, con chi è malato… è un Dio che vuole che tutti si convertano e vivano».
Per manifestare questa “misericordia” e per uscire da stili clericali e autoreferenziali, dovremo portare a maggiore prossimità le forme con cui andiamo incontro agli “amici preti in crisi”, rispetto a quelle con cui saniamo le crisi degli “amici laici”.
Per farlo in modo lungimirante, dovremo ammettere che la storia che essi hanno vissuto non si può ridurre, semplicemente, a un abbaglio iniziale né a un errore originario.
Solo così sapremo rispettare, in pari tempo, la profonda dignità della loro esperienza e la verità inesauribile della Buona Novella.

*questo articolo è apparso su Settimana n. 24/2015 nella rubrica “Si/si-No/no-Do: questioni intersinodali / 10”.

Share