Un mare … di dolore per Santa Sofia


Pochi giorni fa, domenica 12 luglio dopo l’angelus papa Francesco, ricordata la ricorrenza della Giornata internazionale del mare, ha aggiunto: “E il mare mi porta un po’ lontano col pensiero: a Istanbul. Penso a Santa Sofia, e sono addolorato”. D’impeto, con questo suo dolore io mi sono sentita profondamente solidale, dapprima aldilà delle ragioni che ne possono dettagliare senso e contenuti.

É un grido, un invito lanciato a non lasciarsi prendere dall’indifferenza, a non accettare come ovvia la manipolazione di un grande segno di religiosità di due confessioni, quella cristiana e quella mussulmana, per ragioni politiche, secondo una interpretazione che lo riduce a strumento di conflitti. É l’invito a non subire il venir meno di una speranza. Non ho potuto fare a meno di riandare al documento firmato da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, in occasione del viaggio apostolico del primo negli Emirati arabi uniti, dal 3 al 5 febbraio 2019. Vi ho colto una commovente perorazione a ritrovare le coordinate della fratellanza umana, come condizione per la pace e la convivenza comune.

papa e imam

Il documento è semplicissimo e solenne: il papa e l’imam parlano in nome di Dio, di tutti gli uomini e dei popoli che soffrono, in nome della fratellanza, della libertà, della giustizia e della misericordia, in un’incalzante sequenza che si conclude nella segnalazione della strada da intraprendere e di cui essi si propongono come primi testimoni affermando:

In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali … In nome dell’innocente anima umana … In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati … In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati … In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza … In nome della fratellanza umana … In nome della libertà… In nome della giustizia e della misericordia… In nome di tutte le persone di buona volontà…

In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio”.

 Autorevoli testimoni di fede e voce di popoli, che della propria fede vivono come bene prezioso, essi riconoscono nel pluralismo e nella diversità delle religioni, fondamento di tutte le positive differenze umane, la Sapienza divina: “Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere che questo universo dipende da un Dio che lo governa … le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. …

… Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. …

Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano. …

La protezione dei luoghi di culto – templi, chiese e moschee – è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leggi e dalle convenzioni internazionali. Ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale”.

 Sapienza divina e riconoscimento di una fratellanza che ha la propria chiave di volta in una convivenza o cittadinanza fondata su solidarietà, condivisione, costruzione comune di civiltà, di urbs e di civitas, sono possibili – scrivono – solo nell’emergere di un perdono, non solo tra persone ma anche tra culture: “Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. … Perdono che non è solo tra persone, ma anche tra culture e, per questo, apre al dialogo: un tema che varrebbe la pena riprendere di questi tempi in cui la religione torna a essere bistrattata, usata a fini politici e in funzione dello scontro di civiltà”.

Non avevo mai riflettuto prima d’ora sulla necessità del perdono fra le culture, come fondamento del dialogo, come vero e proprio processo antropologico e culturale. Lo stimolo a riflettere su questo aspetto mi pare una provocazione che deve essere accolta.

Di una visita alla basilica di Santa Sofia, in Istanbul, ho il ricordo di uno spazio luminoso, possente per lo spessore murario ma contrassegnato nello stesso tempo da una implicita sfida alla gravità: mi invitava alzare lo sguardo senza violenza, senza strappi, senza contrasti dimensionali rispetto a quelli umani. Vasto, vastissimo anzi, ma non smisurato. In precedenza lo avevo a lungo studiato, avevo intellettualmente ammirato quello che gli studiosi chiamano il suo carattere, a ponte tra la maturità costruttiva dell’architettura, di matrice romana, e l’innovazione prodotta dalla sapienza, ‘matematica’ secondo i mitici costruttori/ricostruttori dopo il primo crollo della sua cupola, che inaugurava la grande arte bizantina.

La percezione in presa diretta suscitava in me non un’emozione innanzi tutto estetica, ma quel senso di solennità propria di una fondazione – a luogo di identificazione di una civiltà – che l’attività umana del ‘costruire’ ha potenzialmente iscritta nel proprio configurarsi e che, nell’abitare comune o convivenza per noi oggi eminentemente urbana, può fecondare in memoria. Vale a dire: in monumenti. In altre architetture avevo vissuto qualcosa di analogo, ma la singolarità di questa esperienza non mi stimolava a paragoni; l’impatto e la novità chiedevano essere percepiti, come per contraccolpo, in un coinvolgimento senza riserve.

Avvertii allora che la sua denominazione -Santa Sofia – era quanto mai appropriata: solo una multiforme sapienza umana, che abbandonava l’arroganza delle proprie capacità a favore della lode a Dio, poteva aver ‘inventato’ questo edificio, assecondando una divina Sapienza che si faceva così spazio tra gli uomini.

Non mi disturbava la convivenza in esso di segni musulmani e cristiani, che mi sembrava anzi accenno a qualcosa che era rimasto incompiuto, quasi un accenno ad una promessa. La sua identificazione come museo, come si è soliti dire, non mi parve invece per nulla appropriata. La privazione dei riti – cristiani e mussulmani – non la rendeva affatto un museo, un mondo chiuso entro il perimetro di una conservazione allontanata dalla vita: non le toglieva la prorompente intensità religiosa (cristiana, secondo l’origine dell’edificio, o mussulmana?) che, attraversando i secoli, arrivava fino a me. Compresi allora perché papa Paolo VI, visitandola, vi si era inginocchiato; nel suo gesto, posso dire, trovava conferma di autenticità profonda la mia percezione.

Anche per queste ragioni ho vissuto e vivo il dolore grande come un mare, un dolore vasto e purtroppo da tanto tempo familiare, come quel mar Mediterraneo che fu culla di una civiltà oggi profondamente scossa, espresso urbi et orbi e sine glossa da papa Francesco.

 Ma: l’invito del documento del 2019, del papa e dell’imam, è illusorio, è utopia? Si trovano accenni, in alcuni studiosi, alla tradizione di lunga durata della esperienza interreligiosa in convivenza di popoli, contrassegnata, non da coincidenze d’uso tra riti e luoghi, bensì di devozioni comuni nello stesso luogo. Si tratta di una tradizione che ancora vive in aree orientali, un tempo bizantine e ottomane, in santuari collocati in territori marginali rispetto alle più alte concentrazioni urbane [B. Albera, M. Couroucli (a cura di), I luoghi sacri comuni ai monoteismi. Tra cristianesimo, ebraismo e islam, Morcelliana, Brescia 2013]. Il fenomeno, privo di risvolti concettuali e fondato su consuetudini, esprime un bisogno di ‘segni di santità’, di testimoni autentici, di luoghi di ‘pacificazione’ senza riserve, di ‘fratellanza’ rivolta a tutti e che coinvolga tutti. É fenomeno marginale e decisamente periferico ma anche segnale del fatto che, come il poliedro è solido sfaccettato e unitario al tempo stesso, così il pluralismo religioso e culturale si fonda sulla correlazione in unità tra i tanti volti umani che lo esprimono. Il suo fondamento è la consapevolezza dell’unica e comune dignità umana: non utopia ma ideale cui mirare. Il senso religioso dei popoli infatti, non astrattamente ma nella sua storica concretezza, è esperienza che li mette in contatto tra loro, distinguendoli senza separarli o contrapporli in ostilità. Per la sua crescita non basta la spontaneità, non priva di rischi se abbandonata a se stessa; occorrono: cultura del dialogo come via; collaborazione comune come condotta; conoscenza reciproca come metodo e criterio. Occorrono: un cammino, un comportamento comune, principi di ragione condivisa e di guida.

Istanbul_-_Basilica_di_Santa_Sofia

 

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