La nuda verità negli spazi di vita dei popoli: perché distruggere edifici, città, territori?


Ho scritto tempo fa per Munera un breve saggio sulle città martiri (n. 2/2018, Città martiri nel mondo). Oggi dovrei ampliare l’elenco al quale accennavo allora aggiungendo Marioupol, Kiev e molte altre città ucraine e comprendervi inoltre vasti contesti abitati. Forse non basterebbe neppure un ampliamento dal punto di vista di conflitti o guerre di aggressione. È divenuto infatti ormai evidente che il martirio dei popoli, tutt’uno con la distruzione dei loro contesti abitativi, è molto più diffuso di quanto si è supposto finora. Anche nel dramma ecologico in corso, nella sua qualificazione sociale a più riprese richiamata da papa Francesco, si possono riconoscere territori e città martiri. Di grande rilievo, benché sottaciuto per indifferenza è, a questo proposito, il caso dell’Amazzonia.

Credo sia importante non lasciarsi ingannare dall’idea, terribilmente cinica, che possa esistere una ‘distruzione creatrice’, ipotesi offerta da un ossimoro che si svela in tutta la sua ambiguità ora che la furia distruttiva ci investe sempre più da vicino. Non ci si può neppure nascondere il dato di fatto che tale furia ha avuto nel corso di tutto il XX secolo, come contraltare alle distruzioni causate da guerre o da duri presupposti ideologici, progetti di altisonante positività inventiva e di brillante luminosità estetica. Essi hanno saputo oscurare, nel campo dell’architettura, la nuda realtà di un secolo segnato da due guerre mondali e da altre innumerevoli guerre geograficamente più circoscritte fino ad oggi.

Perché si distrugge? Perché al contrario, come mostrano le molte immagini di questi giorni, gli abitanti di Mariupol proteggono le statue delle loro città con molti sacchi di sabbia, affinché esse resistano alle scosse dei bombardamenti e siano protette dalle bombe? Risulta certo più facile proteggere una statua che non un condominio o un ospedale. Ma a che serve comunque quest’impegno, se la città viene distrutta e i suoi abitanti sono costretti a fuggire? In un’altra foto straordinaria, pubblicata in questi giorni, le finestre di un’abitazione risultano completamente oscurate da un gran mucchio di libri, lì collocati nella speranza che l’edificio resista meglio alle scosse causate dai bombardamenti. Esattamente qui, in questa speranza di resistenza nel tempo fino all’aprirsi di un futuro migliore, sta la ragione di ogni attenzione possibile per le case, i monumenti e le città devastate da incursioni violente. Anche la sabbia del mare o i molti libri di un deposito diventano strumenti preziosi di difesa, in attesa che sia consentito, ai cittadini di quelle città, di ritrovare le coordinate fondamentali dei propri habitat.

C’è anche un legame tra speranza e memoria da riscoprire. Nel Parco del Memoriale della pace a Hiroshima, nell’isola giapponese Honshu, si alzano isolate le rovine, non abbattute dalla bomba atomica del 1945, del Genbaku Dome, uno dei pochi edifici non crollati nell’epicentro dell’esplosione. Quel frammento è segno di memoria, ma di una memoria che testimonia, nella sua nudità di rudere, una volontà di speranza proposta senza abbellimenti a tutti, perché tutti possano essere risparmiati dalla tragedia che investì l’ignara popolazione giapponese. Di fronte a questa ‘reliquia’ è invitabile chiedersi: cosa accadrà il giorno in cui le armi riusciranno a distruggere tutto e a eliminare tutti, senza lasciare alcun segno di vita, in vaste parti del pianeta terra? Quali luoghi di memoria e quali occasioni di speranza potranno essere allora disponibili? Saranno necessarie enormi ondate migratorie a chi sarà colpito in questo modo e a chi dovrà cercarsi una nuova patria.

Un geniale critico fiorentino d’architettura, Giovanni Klaus Koenig (1924-1989) ha affermato nei suoi libri che nelle ricostruzioni successive alle guerre mondiali – si riferiva in particolare alla seconda – è riconoscibile una sotterranea tensione tra angoscia e speranza umane. Le forme stesse delle architetture costruite in queste fasi, nel vitalismo della loro esuberanza e nelle loro configurazioni razionali o di plastiche modellazioni, se rettamente intese ne sarebbero testimonianza. Non si tratta dunque di genesi per ottimismo, nell’originario e febbrile stimolo costruttivo che ha percorso il XX secolo. L’ottimismo sarebbe emerso per la presa di distanza dai moti originari e solo per un annebbiamento delle coscienze, per una fatale distrazione, dal senso del vivere solidale, dell’umanità intera sulla terra.

Un amico architetto che coltiva da tempo un interesse di studio per le azioni di guerra, quelle del secolo scorso in particolare, mi dava ragione qualche tempo fa delle sue esplorazioni dicendomi che tale curiosità era emersa in lui per il desiderio di comprendere fino in fondo chi è l’uomo. La sua nuda verità infatti, egli riteneva, non può non venire allo scoperto in situazioni estreme, quando non si può fingere, non ci si può distrarre né dimenticare. Oggi siamo tutti invitati a riscoprire questa nuda verità della condizione umana e a ritrovare in essa le coordinate vere della speranza per il futuro nostro e dei nostri luoghi di vita. Perché la guerra? Perché riemerge di continuo la bellicosa volontà di sopraffazione dei popoli? Perché si è riaperto il vaso di Pandora che l’Occidente, che noi occidentali ritenevamo di aver chiuso?

Da queste domande emerge lo struggente desiderio che torni la pace più che mai auspicata e attesa. Se e quando essa verrà, in modo da ricomporre un più placato ordine planetario, occorrerà riprendere a progettare nuovi luoghi di vita, a tutelare o trasformare quelli esistenti rinsaldandone il valore memoriale. Sarà necessario un racconto dell’abitare moderno diverso da quello scritto oggi nei libri di storia dell’architettura, diverso nelle intenzioni e nella definizione di quel rapporto di contiguità, quasi di identità fra uomini e habitat, che dà forma riconoscibile ai luoghi cari ad ognuno. Si aprirà allora alle nuove generazioni il difficile compito del vaglio storico di un secolo intero di progetti, osservati nella traiettoria che comprenda la loro genesi, la loro attuazione e la verifica invece degli esiti conseguenti.

La radicale trasformazione ambientale emersa nel secolo XX ci appare oggi inscritta invece, per casi esemplari o ‘capolavori’, nella linea di un pervasivo progresso tecnologico di qualità abitativa esteso, in linea di principio, a tutto il pianeta. Dall’inizio di questo secolo e in una concatenazione di generazioni che fa capo a pochissime figure europee protagoniste di un radicale rinnovamento – Gropius, Le Corbusier, Mies van der Rohe, Alvar Aalto e pochi altri -, i maestri dell’architettura, divenuti nel prosieguo molto più numerosi, hanno inseguito e inseguono una qualità di immagine simbolica del senso del presente nei loro progetti. Tuttavia essi appaiono ancora orientati a celebrare di volta in volta innovazione tecnologica continua e solidarietà sociale oscillando tra azzeramento di precedenti culture e ricerca di una loro continuità, in una tensione tra globalizzazione e regionalismo non ben identificabile, forse più intenzionale che reale.

Difficile, spesso impossibile, è risultato fino ad oggi un efficace governo del territorio abitato, sia in chiave di urbanizzazione che di pianificazione. Nei progetti più recenti, realizzati con l’ausilio ormai indispensabile dei sistemi informatici, gli spazi, circoscritti tra muri o tendenzialmente riprogettati in paesaggi, presentano un carattere di fluidità lontano dalla rigorosa funzionalità a scacchiere della prima architettura moderna. Vi si potrebbe scorgere la profezia di un divenire meno rigido, meno socialmente selettivo, meno ‘demiurgico’ o, se si vuole, più democratico di quello della prima modernità emersa tra le due guerre mondiali. Ma sta forse qui il punto di leva per una storia dell’abitare del XX secolo che ristabilisca una connessione del presente col passato e con futuro?

La storia dell’architettura del XX secolo, quella delle città e dei territori è per ora una storia ‘patinata’ documentata nei manuali e nelle riviste più pregiate, ricche di fotografie che fermano il tempo fissando i loro oggetti e i loro contesti in uno stato di novità fuori dal suo scorrere. Vi si scorge la più o meno sapiente realizzazione di un’intenzione, mentre non vi è leggibile la loro abitabilità e la loro verifica come luoghi, la loro densità antropologica dei processi di socializzazione e di trasformazione che li hanno investiti.

L’avventura di chi spera e opera, attraversando anche l’angoscia dei pericoli che incombono, non è facilmente pre-configurabile; forse non è neppure progettabile, poiché non può essere generata dalle intenzioni buone di chi sa immaginare figure di grande caratura estetica. L’interrogativo da porsi sta su un altro piano. Occorre cioè chiedersi: come si può ritrovare coralmente la nuda realtà di quello che siamo, come uomini che si impegnano a non fare violenza al loro pianeta e agli altri uomini? Anche questo è un interrogativo difficile ma da non bloccare per superficialità. Ritengo infatti che sia necessario essere abitati e modellati, come per uno scavo, da questa domanda più che mettere in moto da subito le risposte tramite progetti carichi di nuove profezie figurative.

 

Occorre un grande silenzio e una lunga attesa di un lampo di luce che investa uomini e cose, architetture e paesaggi per il rinnovarsi della vita

 

Share