Sulla donna e sul gender. Una lettera aperta a Luigi Maria Epicoco


Caro Luigi Maria,

ti scrivo direttamente, anche se non ci conosciamo se non per “cultura libresca”, perché mi sembra la cosa più semplice e più utile, tra colleghi, in un caso del genere. Ho letto in questi ultimi due giorni due testi che hai scritto e che mi hanno veramente colpito e allarmato: mi riferisco ad una intervista pubblicata su “alzogliocchiversoilcielo” (che si può leggere qui) e ad un breve intervento sulla “teoria del Gender” (che si può leggere qui). Sono sorpreso per il fatto che tu scrivi non semplicemente sulla base della tua identità di prete, ma anche come filosofo e come teologo e per questo le tue parole portano una responsabilità critica che i tuoi titoli accademici pretendono da te, come da tutti noi. Voglio anche dire che quanto scrivo dipende dalla lettura di questi due testi citati e nulla ha a che fare con un giudizio sulla tua persona e sul resto della tua attività. Mi limito ad esaminare le questioni che emergono dai due testi e provo a formulare meglio le mie perplessità.

Aggiungo però subito di considerare questa occasione quasi come provvidenziale: i tuoi due testi mostrano un fenomeno ben più ampio di ciò che scrivi e permettono di affrontare un “deficit teologico” che attanaglia gravemente la nostra tradizione cattolica recente e che implica, da parte dei teologi e dei filosofi, una urgente funzione di terapia linguistica e di riflessione più profonda. Sono convinto che proprio quando emergono posizioni “scabrose”, come le tue, siamo sempre di fronte ad un passaggio utile per la crescita comune e per la elaborazione di una visione più matura e più equilibrata.

a) Le donne e la tradizione teologica

Inizio dal primo testo, che è una intervista a proposito del tuo libro “Le affidabili”. In questa intervista tu fai alcune affermazioni di grande stima verso le donne, sostenendo che “sono più affidabili degli uomini”, riferendoti a Maria, alla Adultera, alla Samaritana, a Giuditta. Però, nel momento in cui la domanda non verte più sulla descrizione dei “personaggi biblici”, ma sulle donne contemporanee, tu mostri di “infastidirti”. Riprendo letteralmente questo passaggio, su cui vorrei soffermarmi:

“La grande polemica sul ruolo delle donne nella Chiesa mi infastidisce molto, perché è come se noi dovessimo dare spazio a coloro che hanno tutto il diritto di ritenere che questo spazio ce l’hanno già, e se lo sono guadagnato attraverso quella affidabilità di cui parlavo prima. Nel libro ho usato un’immagine. In fondo quando noi guardiamo un quadro veniamo attratti dalle figure che sono in prima linea, ma in realtà queste figure sono comprensibili solo perché c’è un fondale alle spalle, che dà significato ai personaggi in prima linea. Ecco, le donne sono il grande fondale di senso dentro cui nessun personaggio che sta in prima linea potrebbe trovare significato se non attraverso di loro. Dietro i grandi uomini della Bibbia ci sono sempre grandi donne, nella Chiesa le vicende più importanti hanno sempre avuto come fondale figure sagge.”

ll fastidio che provi deriverebbe, a quanto dici, da una “domanda di spazio” che tu non capisci, perché tu pensi che questo spazio già sia attribuito alle donne, nella forma metaforica di uno “spazio del fondale”, che dà senso ad ogni “personaggio in prima linea”. Questa immagine che usi (tra primo e secondo piano) è la traduzione in metafora di ciò che la Chiesa ha affermato per molti secoli, identificando uno “specifico femminile” nella sfera privata e lasciando ai maschi il “primo piano della sfera pubblica”. Tu però dovresti sapere che la “grande polemica” che ti infastidisce, e che sicuramente non può accettare questa tua visione, è entrata nella Chiesa cattolica non solo per la grande elaborazione che a partire dal XIX secolo molte donne hanno compiuto sul piano culturale, sociale e scientifico, ma anche perché un papa, Giovanni XXIII, ha ufficialmente chiamato “entrata nello spazio pubblico delle donne” uno dei segni dei tempi con cui dobbiamo fare i conti. Il fastidio, di cui parli, è una crisi di crescita, che ci impedisce di continuare a ragionare con lo schemino: donne in privato, affidabilissime ma invisibili e senza autorità – uomini in pubblico, meno affidabili ma visibili e dotati di autorità.

b) Le donne nel privato e il deficit del magistero

La tua reazione, che si completa nella risposta all’ultima domanda, dove confessi il tuo debito affettivo verso la nonna, la madre e le sorelle, è esemplare di una cultura molto unilaterale: le donne non sono solo “affidabili e affettuose”, ma sono anche sempre maestre, autorità, teologhe, sindaci, tassiste, giudici, musiciste, registe…hanno risorse di autorità e di “primato” che il tuo discorso, indirettamente e direttamente, si affanna a negare e teme come un pericolo. Sarebbe specifico della donna essere “destinata” a questa affidabilità di sfondo. Tu non lo vedi, ma questa è “cultura dello scarto”. Qui, a mio avviso, le tue categorie teologiche e filosofiche non sono per nulla alla altezza di un “segno dei tempi”, ma restano indietro e alimentano quei “complessi di superiorità” che la cultura cattolica da 60 anni dovrebbe sentire il compito di superare. Tuttavia questo imbarazzo ci è utile perché ci spinge a scovare come questo meccanismo automatico e incontrollato, con cui gli uomini di fede relegano le donne in secondo piano, è presente anche nelle parole del magistero. Anche il magistero, idealizzando la donna, la tiene in secondo piano. Parlando di “principio mariano”, ed equiparando arbitrariamente tutte le donne a Maria, ne esclude la rilevanza istituzionale, riservandola a Pietro, ed equiparando altrettanto arbitrariamente tutti i maschi a Pietro. Questo non scusa le tue affermazioni, ma le contestualizza e rende ancora più necessario aprire un dibattito serio sui meccanismi con cui noi “blindiamo” una marginalità femminile, proprio riconoscendole un primato nella affidabilità. Come sai bene, questa è anche la strategia di uno dei documenti che ha inaugurato la presa di posizione del Magistero cattolico in quella che tu chiami “grande polemica”. In effetti in “Inter insigniores” troviamo la seguente affermazione:

“« I segni sacramentali – dice S. Tommaso – rappresentano ciò che significano per una naturale rassomiglianza ». Ora, questo criterio di rassomiglianza vale, come per le cose, così per le persone: allorché occorre esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo nell’Eucaristia, non si avrebbe questa « naturale rassomiglianza », che deve esistere tra il Cristo e il suo ministro, se il ruolo del Cristo non fosse tenuto da un uomo: in caso contrario, si vedrebbe difficilmente in chi è ministro l’immagine di Cristo. In effetti, il Cristo stesso fu e resta un uomo.”

Tommaso però non ha mai detto questo. Se analizziamo dove si trova la citazione di Tommaso, scopriamo che l’espressione citata da Inter insigniores compare nel Commentario alle sentenze di Pietro Lombardo (Super Sent., lib. 4 d. 25 q. 2 a. 2 qc. 1 ad 4) ed è parte di una risposta alla discussione, che non riguarda la ordinazione della donna, ma quella dello schiavo (l’articolo 2 si intitola infatti “Se la schiavitù sia impedimento alla ricezione dell’ordine”). Il testo della citazione integrale, che è molto breve, suona così:

“ Ad quartum dicendum, quod signa sacramentalia ex naturali similitudine repraesentant; mulier autem ex natura habet subjectionem, et non servus; et ideo non est simile.” (I segni sacramentali manifestano una certa naturale somiglianza, ma la donna ha la soggezione per natura, mentre non è così per li schiavo. Perciò non è simile)”

Come è evidente, il riferimento alla “similitudo” non riguarda di per sé la “somiglianza maschile/femminile” rispetto al Signore, ma la somiglianza nella “condizione di schiavitù”, che lo schiavo ha per contratto o per convenzione, mentre la donna ha “per natura”. Una “schiava per natura” non può in alcun modo rappresentare il Signore!

La pretesa con cui “Inter insigniores” vuole mostrare che il sesso femminile è escluso dalla rappresentanza di Cristo procede secondo una lettura pregiudiziale del femminile, la cui caratteristica decisiva non è la affidabilità, ma la soggezione e la mancanza di autorità. Questo pregiudizio mi pare pesantemente presente nel “fastidio” con cui tu non riesci a riconoscere alcun valore a ciò che Giovanni XXIII, ben 60 anni fa, ha identificato come “segno dei tempi”: ossia il fatto che “mulieres in re publica intersunt”. Potrà dare fastidio, ma è con questo che il filosofo e il teologo deve misurarsi. E per quanto si parli di affidabilità, anche a giusto titolo, se non ci si confronta con l’esercizio della autorità, non si rende un servizio alla ragione teologica e alla dignità delle donne.

c) La conferma sul Gender

Un ultimo appunto mi pare che meriti il secondo testo che ho citato all’inizio, nel quale tu presenti la “teoria del Gender” in modo del tutto caricaturale. Ma questo non mi sorprende. Se non riesci a comprendere che la considerazione teologica della donna non può partire dai pregiudizi sociologici e culturali con cui la abbiamo pensata come un “maschio difettoso”, come una “schiava per natura”, a cui non rimedia il riconoscimento della affidabilità – che può convivere con quei pregiudizi, e anzi li conferma – evidentemente puoi guardare in modo solo catastrofico alla elaborazione della categoria del “genere/gender”, in cui la dimensione biologica e culturale si fondono in modo più complesso di quanto avevamo pensato fino ad oggi. In questo modo mi pare che tu non riesca a comprendere come ciò che tu liquidi come “esperienza del male” sia in realtà una delicata e preziosa rielaborazione del rapporto tra identità e differenza. Certo la teoria non è priva di problemi e di limiti, ma non può essere giudicabile in modo sommario e sbrigativo come una “esperienza del male”. E’ proprio il “segno dei tempi” della donna nello spazio pubblico a rendere necessaria una “teoria di genere” che non sia appiattita su una lettura essenzialistica del femminile. Come se il profilo culturale e sociale potesse derivare semplicemente da un dato naturale. Questo modo di intendere le differenza è semplicemente un modo per difendere i propri pregiudizi. Per questo tu puoi scrivere questo testo, che mi sembra dominato da un pregiudizio talmente pesante da risultare frutto di un approccio fondamentalistico, che fatico a correlare alla tua formazione filosofica:

“In ogni epoca storica il male si è manifestato in diverse maniere, in questo momento storico la modalità più specifica attraverso cui il male si fa presente e agisce è sicuramente la teoria del Gender. Voglio però subito precisare che dicendo questo non mi sto riferendo a coloro che hanno un orientamento omosessuale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci invita anzi ad accompagnare e a prenderci cura pastorale di questi fratelli e di queste sorelle. Il mio riferimento è più ampio e riguarda una pericolosa radice culturale. Essa si propone implicitamente di voler distruggere alla radice quel progetto creaturale che Dio ha voluto per ciascuno di noi: la diversità, la distinzione. Far diventare tutto omogeneo, neutrale. È l’attacco alla differenza, alla creatività di Dio, all’uomo e la donna”

Una descrizione caricaturale della domanda di identità che è oggetto della “teoria gender”, la demonizzazione di una radice culturale e la lettura antimodernistica del “progetto creaturale” non mi sembrano parole adeguate al tuo ruolo di filosofo e di teologo. Mi sembra di leggere il testo di uno che parla per slogan vuoti, senza aver davvero meditato ciò che sta dicendo. E questo è molto grave, proprio per un teologo e per un filosofo che gode di un credito di cui non dovrebbe abusare.

Ho cercato di ragionare, brevemente, con parresìa, esponendo le ragioni della mia preoccupazione. Spero che sia una occasione per dire meglio anche tutto quello che ci accomuna, nella medesima chiesa, a partire dalle differenze qui rimarcate, come era inevitabile, nel dialogo necessario ad ogni tradizione che non sia tentata di fermarsi, ma che sappia di dover camminare, ieri come oggi, per restare se stessa.

Andrea Grillo

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