Soldi


L’Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa e l’Università Cattolica, il 27 giugno a Milano nel centro congressi di Banca Intesa Sanpaolo, hanno presentato il rapporto L’educazione finanziaria in Italia: a che punto siamo?. Nell’introduzione Angelo Baglioni ricorda che educazione finanziaria «non fa riferimento solo alle conoscenze in campo economico e finanziario di cui sono dotati i cittadini, ma include anche i loro comportamenti e l’orientamento al lungo periodo delle loro scelte». «Secondo le rilevazioni dell’OCSE, l’Italia si colloca significativamente sotto la media dei paesi sviluppati sia per le conoscenze sia per i comportamenti. L’unico aspetto per cui siamo più virtuosi è il basso ricorso al debito. L’indicatore totale di competenza finanziaria ci pone al penultimo posto tra i paesi del G20» [n. 2/2019 dell’Osservatorio Monetario, p. 1]. Nel dibattito l’educazione finanziaria ha assunto rilevanza di scuola dell’obbligo, come l’italiano.
«Esattamente come il denaro, la parola acquista il suo valore solo entro un sistema, e nessuno – se non in piccolissima misura, e con la collaborazione d’innumerevoli altri – può far qualcosa per mutarlo. I sistemi in cui denaro e linguaggio assumono un valore sono sistemi sociali. Denaro e linguaggio compaiono nell’uomo (e solo nell’uomo), in virtù della sua (particolarissima) natura di ‘animale sociale’. Più esattamente, di animale che lavora in collaborazione; in una collaborazione che, attraverso denaro e parola, è augurabile divenga sempre più volontaria» [Vittorio Mathieu, «Denaro e linguaggio come strumenti di progetto», introduzione a Marc Shell, Moneta, linguaggio e pensiero, tr.it. il Mulino 1988, p. 9]. «La misura del valore dell’oro, come della carta, è la capacità di far lavorare. ‘Valere’ significa, infatti, aver efficacia, e né il denaro né il parlare hanno efficacia altrimenti che facendo agire» [ivi, p. 11]. «Se tutti, un giorno, cessassero di lavorare per gli altri, il denaro perderebbe tutto il proprio valore. Il portatore di quel titolo di credito, dunque, è in grado di rimetterlo in circolazione solo perché, intorno a lui, è presente un sistema che garantisce (fin dove una garanzia umana può valere) che quel credito è ‘moneta buona’, capace di farsi obbedire. Quando tale fiducia venisse meno, il denaro non avrebbe altro valore che quello di una lingua morta». «Il denaro agisce, non per una vis a tergo, bensì per una previsione, dunque per una rappresentazione di ciò che (ancora) non c’è, che può ben chiamarsi “idea” (nel senso non platonico, ma anglosassone della parola)» [ivi, p. 13]. «La fonte di ricchezza del linguaggio è inesauribile, più se ne versa e più ci si arricchisce. Sempre che non si giri a vuoto, che non si verbìgeri sul nulla. Le due facce della fantasia non si lasciano separare. Il gioco linguistico può essere produttivo o può essere elusivo, come il gioco in borsa» [ivi, p. 15] e «fa del linguaggio lo strumento della collaborazione per ‘comune accordo’, al pari del denaro; ed è una collaborazione senza paragone migliore di quella dello schiavo» [ivi, p. 16]. «Dissimulare o cercare di non vedere l’interiorizzazione della forma monetaria all’interno del pensiero e del linguaggio, come già allora Platone aveva suggerito, fa sì che essa diventi una malattia intellettuale i cui sintomi sono nascosti, e per questo ancora più pericolosi. D’altra parte rivelare la forma monetaria del pensiero, e affrontarla, trasforma spesso il pensiero in filosofia, come Platone aveva sostenuto, o lo spinge a superarla, come credono alcuni pensatori moderni. Dall’età dell’antico electrum alla contemporanea era elettronica, gli uomini hanno più volte tentato di liberarsi del denaro della mente, o di trasformarlo in un agente di liberazione» [Shell, cit., p. 227].
Facebook è il sintomo che ora denaro e linguaggio girano a vuoto. «Annunciando la creazione della ‘libra’, moneta virtuale per i suoi 2,5 miliardi di clienti, Facebook ha infranto un codice portante degli stati moderni: il monopolio della moneta». «Forte della diffusione senza precedenti in termini di persone e paesi, con questa nuova moneta Facebook annuncia l’era delle imprese divenute potenze universali. Gli atti di un recente colloquio di Cerisy mostrano che il denaro tende a colonizzare i punti di riferimento di valore, etica civile e mercantile, potere e solidarietà (Comment apprivoiser l’argent?, con la direzione di Jean-Batptiste de Foucauld, Hermann 2016). Contro queste derive, gli stati moderni hanno dovuto agire in difesa della ‘buona gestione’ dell’ordine pubblico. Hanno dovuto garantire i pagamenti dei debiti, regolamentare l’esercizio delle professioni, proteggere il valore dei beni e dei salari e, ancora, limitare l’esercizio del credito» [Armand Hatchuel, «Facebook ouvre l’ère des puissances universelles», Le Monde Éco&Entreprise, 27/6/2019, p. 18]. E non è tutto. Già vice-premier UK dal 2010 al 2015 e ora responsabile degli affari pubblici di Facebook, Nick Clegg ha annunciato, il 24 giugno a Berlino, la creazione di «un comitato di supervisione (oversight board), progetto di corte d’appello che il fondatore della rete sociale, Mark Zuckerberg, ha paragonato a una “corte suprema”». «“Vogliamo creare un’entità indipendente e rispettosa delle differenti culture, che sia capace di giudicare i conflitti sui contenuti”». «“La cosa è facile a dire, ma molto difficile a mettere in pratica”, ha sorriso Clegg. La struttura dovrà essere creata prima di fine 2019» [Alexandre Piquard, «Le vertigineux projet de cour suprême de Facebook», Le Monde Éco&Entreprise, 29/06/2019, p. 18].
Facebook ha capito che «esattamente come il denaro, la parola acquista il suo valore solo entro un sistema» [Mathieu, cit]. Ha influenzato le elezioni USA e UE vendendo i dati personali di clienti che sono sempre più inconsapevoli sudditi della sua utopia neoliberista: «concezione immaginaria di un governo e di una società ideali; in senso lato concezione, idea, aspirazione fantastici e irrealizzabili», nonché «voce dotta tratta da Tommaso Moro, dalle due parole greche ôu ‘non’ e tópos ‘luogo’» [DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli 1999, p. 1776]. La vittima del non-luogo neoliberista è la cittadinanza, sostanziale e giuridica, asfissiata dal vuoto di inclusione (costitutiva della società) e partecipazione (costitutiva della politica) prodotto negli ultimi decenni. Giorno dopo giorno sono stati moltiplicati esclusi, emarginati, migranti e stabilite di fatto e di diritto cittadinanze di diverso calibro, corrompendo la politica e soffocando la partecipazione. Un’idea sempre più esclusiva e oligarchica ha prodotto e produce cittadini di seconda, terza, ennesima categoria, tributari di un pugno di privilegiati fantasiosi e impuniti, i nuovi legislatori.
Il fenomeno non è nuovo. La cittadinanza si costruisce e esercita nel qui e ora dello spazio-di-luoghi politico che interagisce con lo spazio-di-flussi economico, oggi un’economia di mercato abbandonata a se stessa in una regressione di civiltà inscindibilmente economica e territoriale, preconizzata nel 1974 da Carl A. Gerstacher, presidente Dow Chemical: «Ho sognato a lungo di acquistare un’isola che non fosse di proprietà di alcuna nazione […] e di stabilire, sul suolo davvero neutrale di quest’isola, la sede centrale mondiale della Dow, esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione e società. Se ci trovassimo sul suolo davvero neutrale di quest’isola, potremmo allora realmente operare negli Stati Uniti come cittadini americani, nel Giappone come cittadini giapponesi, e in Brasile come brasiliani, invece di essere governati innanzi tutto dalle leggi degli Stati Uniti […]. Saremmo persino in grado di ricompensare generosamente gli abitanti del luogo perché si trasferiscano altrove» [citato in Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, tr.it. il Saggiatore, 2014, pp. 92]. Detto fatto, i trasferimenti sono sempre più massicci, in forma di espulsioni e migrazioni senza alcuna ricompensa e tantomeno generosità, con l’epifenomeno USA degli sfratti per morosità all’origine della crisi finanziaria del 2008, più grave di quella del 1929.
La ciclica supremazia del potere economico su quello politico (dello spazio-di-flussi sullo spazio-di-luoghi) è antica e conosciuta: «“È stato inventato da’ Genovesi un nuovo cambio, ch’essi chiamano per le fiere di Bisenzone, ove da principio si andava; ora si vanno a fare in Savoja, in Piemonte, in Lombardia, a Trento, alle porte di Genova, e ovunque voglion essi; talché assai meglio Utopie, cioè fiere senza luogo s’avriano da chiamare”» [ivi, p. 93].
Quell’utopia sfruttava, precisa Arrighi, la crisi di transizione dagli spazi-di-luoghi di morenti città-stato a quelli di emergenti stati-nazione, e la temporanea preminenza degli spazi-di-flussi economico-finanziari genovesi. Nell’economia-mondo di Fernand Braudel, Arrighi individua quattro cicli storici di questa ricorrente utopia, inclusa l’attuale neoliberista, anch’essa caduca e irrealizzabile, legata alla crisi di transizione dai morenti stati-nazione alle emergenti unioni-tra-stati, il cui modello è l’UE col precedente USA nati nella guerra civile concomitante con l’abolizione della schiavitù, eredità politica dell’Europa che nella Parigi rivoluzionaria del 1794 aveva già abolito la schiavitù nelle colonie, con voto unanime della Convenzione. Con la sostanziale differenza di essere terra di origine e non di conquista, dopo innumerevoli guerre anche civili e due mondiali, è sorto lo spazio-di-luoghi UE, primo frutto del patto che nel 1929 a Parigi bandì la guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali, e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che nel 1948 a New York bandì l’ineguaglianza come strumento di sovranità su sudditi divenuti cittadini.
Soldi, dal XIII secolo danno il nome ai soldati di mestiere. Roma, progetto e non utopia, assegnava invece «attraverso i bottini, guadagni a chi aveva rischiato la vita in battaglia, ma, attraverso la distribuzione della terra conquistata anche ai ceti subalterni (i nullatenenti esenti dal servizio militare), forniva loro i mezzi per conseguire la capacità patrimoniale sufficiente a renderli, a loro volta, abili all’arruolamento» [Giovannella Cresci Marrone, «La guerra in Roma. Discorsi ai soldati e discorsi dei soldati», in A. Bonandini, E. Fabbro, F. Pontani, Teatri di guerra, Mimesis 2017, p. 158]. «Per lungo tempo, a cementare il rapporto tra vertici e basi dell’esercito, nonché tra questo e la società nel suo insieme, permase la condivisione dei valori che costituivano il tessuto connettivo della comunità» [ivi, p. 170]. Come scrive Mathieu, «denaro e linguaggio compaiono nell’uomo (e solo nell’uomo), in virtù della sua (particolarissima) natura di ‘animale sociale’. Più esattamente, di animale che lavora in collaborazione; in una collaborazione che, attraverso denaro e parola, è augurabile che divenga sempre più volontaria». Ma tutto crolla se si manipolano denaro e linguaggio, come nella ‘piramide di Ponzi’, dal nome dell’italo-americano che, col miraggio di forti guadagni, raccolse fondi sempre più cospicui, usati in parte per remunerare prestatori sempre più numerosi, piramide di avida dabbenaggine finanziaria che infine si capovolse e crollò quando inevitabilmente i creditori soverchiarono i nuovi sottoscrittori. In politica la piramide di Ponzi fa leva sulla violenza, spettacolo quotidiano, e promette non ricchezza ma potere (di fare ciò che si vuole), dandone dimostrazione contro i più deboli e indifesi, meglio se riconoscibili per colore lingua costumi. Ma anche qui il rapporto di forze inevitabilmente si capovolge perché l’utopia neoliberista moltiplica deboli e indifesi e quando si arriva alla guerra le armi bisogna averle e saperle usare. In una trimestrale di un paio d’anni fa, James Dimon, presidente e CEO di JPMorgan Chase (la maggiore delle maggiori quattro banche americane) tra i punti critici USA lamentava il vuoto educativo dei giovani a fronte di armi tecnologiche sempre più sofisticate. Già valutatore degli effetti dei bombardamenti economici sulla Germania e atomici sul Giappone nella seconda guerra mondiale, Jacob Bronowski, matematico, scrive che «nella nostra cultura la verità non gode dell’appassionato consenso dei valori intimi. Noi viviamo presi dai legami umani, e ci è più caro che gli altri condividano le nostre idee piuttosto che esse siano vere. Così una certa falsità – ed anche una certa tendenza all’inganno – non hanno l’aria di un’offesa personale quanto, mettiamo, la slealtà; forse, pensiamo, si tratta solo di un errore. Siamo pronti a trattare una bugia nella vita privata come un atto gentile, e nella vita pubblica come un atto politico» [tr.it. L’identità dell’uomo, Comunità 1968, p. 116]. «Non è sufficiente nella scienza o nella società moderna convenire che gli altri hanno diritto alle loro opinioni. Dobbiamo credere che le opinioni degli altri sono interessanti in se stesse e meritano il nostro rispetto anche quando pensiamo che sono sbagliate. Nella scienza e nella vita moderna sbagliare può essere tragico, ma non diabolico» [ivi, pp. 118-9]. «Ho intitolato questi saggi l’Identità dell’uomo perché volevo mettere in luce le due metà che lo costituiscono: la macchina e l’Io. Per nascita l’uomo è una macchina, ma diventa un Io con l’esperienza. E il carattere specifico dell’Io giace nell’esperienza che egli ha non della natura, ma degli altri Io». «La tragedia del nostro tempo è che temiamo la macchina che è nell’uomo, sebbene essa sia non meno nobile dell’Io; e siamo giunti a dubitare che essa voglia lasciarci un Io. Non crediamo che quel che la macchina impara e insegna – una conoscenza scientifica – possa rafforzare la nostra etica, che ora langue in una serie di casuali fedeltà» [ivi, p. 123]. Le casuali fedeltà oggi evidenti in Brexit e nei cosiddetti sovranismi degli stati di Visegrad e dell’Italia, da sempre anomali in Europa, in Italia con le storiche eccezioni del Risorgimento e della Resistenza, che intrapresero una politica di responsabilità europea in luogo della secolare, e di nuovo attuale, faziosa e vana ricerca di protettori internazionali dei suoi contrapposti interessi particolari [Alberto Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Resoconto di un disfatta, Einaudi 2019, p. 251].

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