“Dal profondo del cuore” è un “de profundis”. Ovvero il Concilio Vaticano II non è un optional


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Avevo sperato. Sì, lo avevo sperato. Le notizie che si erano susseguite sulla soglia della pubblicazione del libro mi avevano fatto pensare (e sperare) che gli ambienti intorno a J. Ratzinger, la sua piccola corte, e il cardinale temerario, lo avessero indotto a sottoscrivere testi altrui, testi fasulli, testi improvvisati. No. Nel libro questi testi ci sono, ma non sono i suoi. Invece, quello suo, quello che campeggia al centro del libro e che ne costituisce la unica ossatura, è proprio suo: lo stile, l’argomentare, la arditezza e la finezza sono le sue, inconfondibili.

Ma proprio questo è il dramma. In questo testo, certamente segnato anche dalla debolezza della età e dalla fragilità del corpo, appare però con immutata chiarezza una “teoria del sacerdozio” che, costruita indirettamente per difendere la centralità del celibato, in realtà imposta una visione della Scrittura, della liturgia e della Chiesa che viene argomentata senza il minimo riferimento alle grandi costituzioni del Concilio Vaticano II. Tutto il ragionamento, in tutti i suoi passaggi, avviene con gli strumenti concettuali e con le esperienze già disponibili negli anni 50: come se il tempo si fosse fermato e come se il Concilio non ci fosse mai stato. Ma cominciamo dall’inizio.

La Riforma liturgica resa opzionale: “Summorum Pontificum” (2007)

Le cose mi erano apparse avviate in questa stessa direzione già nel 2007. Nel luglio di quell’anno, infatti, leggendo il testo del Motu Proprio Summorum Pontificum, avevo già pensato che quel documento, che pretendeva di “riabilitare” di colpo tutta la liturgia preconciliare, potesse essere stato concepito solo in una visione “sospesa” della storia. Di fatto poteva essere recepito da una Chiesa che, ricominciando al celebrare con i riti precedenti alla riforma liturgica, non riuscisse più a cogliere, di quella riforma, tutta la esigenza e la autorità. Infatti, la riforma liturgica è stata la “prima” riforma scaturita dal Concilio Vaticano II, giustificata proprio da una nuova comprensione della Chiesa e del sacerdozio. La uscita da un modello tridentino di Chiesa come “societas inaequalis” e di “sacerdozio” come qualità differenziale del clero aveva richiesto di riferire l’azione liturgica alla intera assemblea, costituita da fedeli che nel battesimo sono riconosciuti tutti come profeti, sacerdoti e re.

Se, a un dato momento, a quasi 50 anni dal Concilio, un provvedimento pretendeva di rimettere in vigore proprio quei riti che il Concilio stesso aveva richiesto fossero cambiati, allora sorgeva il dubbio che quella mossa intendesse non solo “restaurare” il vetus ordo, ma anche la vecchia chiesa clericale e il vecchio sacerdozio esclusivo. Quelle parole di circostanza, che dicevano assolutamente confermata la riforma liturgica dentro un documento che la smentiva, sono risuonate oggi, in molti passi del libro di Ratzinger-Sarah, dove si parla di “obbedienza filiale” mentre si vuole soltanto ostacolare pesantemente il padre. Ma quando due vescovi parlano come Pinocchio, l’autorità è già scemata.

Il silenzio del Concilio nel testo di Ratzinger sul sacerdozio

Molti hanno già notato che la insistenza – caricaturale in Sarah, più insidiosa in Ratzinger – sulla qualità “ontologica” del celibato per il sacerdozio è apertamente in contrasto con un testo conciliare come Presbyterorum ordinis 16. Ma se fosse solo per questo, sarebbe ancora poca cosa, anche se il fatto che un Cardinale Prefetto di Congregazione del culto e un Vescovo emerito di Roma non citino mai il testo più autorevole sul “celibato” parlando del tema dovrebbe già preoccupare.

Ma la preoccupazione maggiore è che, nel parlare di celibato, si descrive il sacerdozio, si propone esegesi biblica, di delinea il senso del culto, si configura lo spazio ecclesiale. E in tutto questo si procede “come se il Concilio non fosse mai stato celebrato”. Si propongono ermeneutiche bibliche del tutto arbitrarie, pretendendo di non tener conto dei risultati di decenni di studi circa il senso del rapporto tra sacrificio e sacerdozio, come se Dei Verbum non avesse mai parlato. Si procede ad una identificazione della “relazione con Cristo” come se fosse lo “specifico presbiterale” e non il “comune battesimale”, come se Lumen gentium non avesse riletto la esperienza ecclesiale anzitutto come “comunione del popolo di Dio”, come “corpo di Cristo”, come “tempio dello spirito”. Si ragiona sull’atto di culto come se l’azione rituale fosse una questione a tu per tu, tra il prete e Cristo, e non coinvolgesse, originariamente, l’assemblea radunata, essendo caratterizzata da quella “partecipazione attiva” che Sacrosanctum Concilium colloca al centro della dinamica rituale.

Insomma, il libro, non tanto nelle sguaiate parole del Cardinale Sarah, quanto nelle più studiate espressioni del teologo Ratzinger, appare l’ultima conseguenza di un “dispositivo di blocco”, di una “rimozione” e di una negazione. Il Concilio Vaticano II, nel libro, è citato solo una volta, ma, come sempre nell’ultimo Ratzinger, solo come motivo di preoccupazione. Per usare le metafore che il 12 ottobre del 2012 egli utilizzò, dalla finestra su Piazza S. Pietro: il Concilio fu associato, in contrasto alla “nuova Pentecoste”, al “peccato originale”, alla “zizzania”, al “vento contrario”, ai “pesci cattivi”. Anche in questo testo il Concilio non c’è. Tace. Anzi è esplicitamente e clamorosamente smentito. Il celibato ontologico è figlio di un sacerdozio clericale che genera liturgia antica e chiesa tridentina. Ogni alternativa sembra “menzogna” o “corruzione”.

Padri e figli, nostalgia e profezia

Chi non ha capito, o non vuol capire, ha parlato di “una tempesta in un bicchier d’acqua”: che cosa c’è di strano se sul celibato si discute nella Chiesa? Come sempre, le posizioni possono essere diversificate, anche su un tema delicato come il celibato. Ma se si utilizza un tema marginale, facendolo diventare tanto centrale, che dalla definizione del celibato discende una visione del sacerdozio, del culto e della Chiesa che nega tutto ciò che il Concilio Vaticano II ha affermato, e chiude tutto ciò che il Concilio ha aperto, allora è chiaro che a questa nostalgia aggressiva va posto un limite: la negazione sistematica del Concilio deve essere apertamente e autorevolmente impedita.

Un padre può arrivare a scandalizzarsi a tal punto del figlio, che giunge persino a ripudiarlo. Così, mi pare si debba dire di J. Ratzinger, che si vergogna a tal punto del suo figlio “vaticano2” – perché il Concilio è e resta suo figlio – che non ne parla più. Anzi, fa di tutto per smentirlo e per infangarlo. Ma il Concilio, nonostante questo ripudio, è stato a sua volta padre, e ha generato tanti figli. Tra cui c’è anche Jorge Mario Bergoglio. Che del Concilio è figlio contento, felice e sorridente. Così, tra i due papi, il rapporto non è diretto. Tra i due sta il Concilio Vaticano II. Di cui Benedetto è stato padre, pieno di rimorso, mentre Francesco è figlio, pieno di entusiasmo.

Rispettiamo le biografie, certo: il rapporto di paternità non è mai lineare. Ma la Chiesa deve camminare. Il sacerdozio comune dei fedeli, la liturgia partecipata e celebrata dalla assemblea, la Chiesa come popolo di Dio sono la irreversibilità dello Spirito. La nostalgia non è mai stata capace di magistero. La profezia, invece, è vivace e non si riesce a fermarla. Tanto meno può essere arrestata dalla ostentazione ipocrita di una falsa obbedienza di figli al padre, quando si tratta solo di padri che non vogliono a nessun costo riconoscere i loro figlio e il loro nipote: ossia il Concilio dalla indole pastorale e il papa che viene dalla fine del mondo. Avendo manifestato nel modo più chiaro questa viscerale volontà di ripudiare il Concilio Vaticano II, il volume “Dal profondo del nostro cuore” si rivela come un “de profundis” per questo disegno ostile, davvero poco filiale.

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