Signor Cardinale, che bisogno ha di sfigurare il Vaticano II? Il Prefetto Sarah e la pace liturgica


concvat21

L’esercizio della autorità, nella Chiesa romana, è una cosa seria. Ha bisogno di una duplice condizione: si ha autorità se si è incaricati di un ministero, ma si ha autorità solo se si esercita il ministero con autorevolezza. Non perché si parla con autorità si è cardinali, ma non perché si è cardinali si è dotati, automaticamente, di una parola autorevole. Se un semplice battezzato avesse pronunciato la frase con cui si apre la recente intervista rilasciata dal Card. Sarah (http://www.aleteia.org/it/religione/interviste/intervista-cardinale-sarah-5223283679035392?) , potrebbe essere semplicemente considerato come frutto di leggerezza, di pressapochismo e di superficialità. Ma se è il Prefetto della Congregazione del Culto a dire queste parole, allora la questione diventa molto seria. Ascoltiamo questa “stecca” iniziale, che sta proprio al principio della intervista:

“Il Concilio Vaticano II non ha mai chiesto di rifiutare il passato e di abbandonare la Messa di San Pio V, che ha generato numerosi santi, né di lasciare il latino, ma allo stesso tempo bisogna promuovere la riforma liturgica voluta da quel Concilio.”

Di fronte a un inizio di questo genere, non si possono non rilevare due errori irrimediabili:

a) l’idea che il Concilio Vaticano II non abbia chiesto di abbandonare la Messa di San Pio V

b) che questa presunta intenzione non sia in contraddizione con il “ promuovere la riforma liturgica”.

Se il Prefetto della Congregazione del culto non riesce a cogliere la interna contraddizione tra queste due affermazioni – oltre che la falsità della prima – questo fatto diventa un problema rilevante per la stessa attuazione della Riforma Liturgica. Se il Concilio ha voluto la “riforma liturgica” è perché il rito tridentino appariva – già 50 anni fa – carico di limiti e di difetti, che dovevano essere accuratamente superati. Se il Concilo non avesse voluto abbandonare la Messa di Pio V, non avrebbe previsto esplicitamente una Riforma della stessa. Ma come si può immaginare un Concilio che riforma un testo rituale per poterlo conservare tale e quale? In quale mondo capovolto potrebbe esistere una tale condizione? E quanti cardinali dovremo ancora vedere arrampicarsi sugli specchi per difendere un tale “monstrum” logico e pastorale? Ci si renderà conto, prima o poi, del ridicolo a cui ci si espone?

Papa Francesco ha chiarito, in modo pienamente equilibrato, che sul piano liturgico il Concilio Vaticano II è un “evento irreversibile”. Non ci vuole altro che buon senso e assenza di pregiudizio per capire che Il Concilio Vaticano II non può essere per nulla compreso se si assume – in modo del tutto arbitrario – che non abbia voluto modificare il “rito tridentino”. Il centro della Costituzione SC è precisamente quello di far avanzare la condizione del “rito romano” da un paradigma ad un altro, mediante una riforma del rito. In questa trasformazione la continuità del rito romano è assicurata soltanto da una discontinuità. E’ il testo stesso di SC ha chiarire inequivocabilmente come occorra profondamente modificare il modo di celebrare, di ascoltare la parola, di pregare per tutti, di fare l’omelia, di usare le lingue moderne, di creare unità tra parola e sacramento, di concelebrare, di accedere alla comunione sotto le due specie. Questo è il dettato esplicito di SC e sta sotto gli occhi di tutti i cristiani: come fa non un semplice credente, ma addirittura il Prefetto della Congregazione del Culto – ossia il massimo responsabile del culto nella Chiesa cattolica – ad ignorarlo e addirittura a contraddirlo? E’ forse compatibile con la sua autorità questa completa mancanza di autorità?

Ma non basta. L’equivoco, fondamentale, è quello che viene presentato come il “fine” di tutta questa distorta riflessione: ossia la “pace liturgica”. Creare le condizioni per una “pace” dipenderebbe, secondo il Card. Sarah, da un nuovo parallelismo tra rito antico e rito nuovo. Ed è qui, io credo, il punctum dolens, che già caratterizzò il MP Summorum Pontificum, anch’esso intenzionato a “portare la pace” e che, invece, ha generato solo ulteriore discordia. Ma Sarah, imprudentemente e ingenuamente, svincola la logica del MP dalla sua originaria giustificazione – ossia la pace con il lefebvriani – e pretende di farne diventare la regola di una “pace” interna all’intera “universa ecclesia”.

Anche sulla vicenda del MP il card. Sarah esprime un parere quanto meno azzardato:

“Purtroppo non è stato un successo totale perché gli uni e gli altri sono “aggrappati” al proprio rito escludendosi a vicenda. Nella Chiesa, ciascuno deve poter celebrare in base alla propria sensibilità. È una delle condizioni della riconciliazione”.

Dire di un fallimento che “non è stato un successo totale” è già una bella forma di mistificazione. Ma il vero problema è che il sig. Cardinale tende ad equiparare sullo stesso piano chi segue il Concilio e chi lo nega: sarebbero solo “sensibilità diverse”, parimenti legittime. Questo è un altro errore irrimediabile, soprattutto per un Prefetto di Congregazione. Sia chiaro: se un cardinale vuole la pace, questo è certo una cosa buona. Ma se per realizzare la pace aizza ancora di più la confusione, questa non è cosa buona, ma cosa pericolosa e imprudente.

D’altra parte, è bene ricordarlo, se un Cardinale è titolare di una autorità, è bene che la eserciti e merita massimo rispetto nell’esercizio di tale autorità. Ma se giustifica la propria autorità con delle argomentazioni, tali argomentazioni risulteranno forti non perché sostenute da un cardinale, ma solo per il loro valore intrinseco e per la loro autorevolezza. In questo caso le premesse del ragionamento cardinalizio sono false – il Concilio ha voluto esplicitamente superare il rito tridentino e non il contrario – e le conseguenze sono illusorie – la pace non si genera facendo confusione, ma con un deciso orientamento alla Riforma.

Queste conseguenze paradossali permettono solo a frange marginali e nostalgiche della Chiesa di vedersi protette da esponenti di Curia privi di senso della realtà e di vero contatto con le comunità vive. In verità, vivendo sempre negli uffici di curia, questi bravi cristiani si immaginano una Chiesa che non c’è e trascurano quella che c’è. Diceva un Segretario di Congregazione, qualche anno fa: “Ovunque vado, trovo seminaristi che mi chiedono il rito antico…” Ma dove andava? Dove viveva? A chi si riferiva? A chi dava credito? Illudersi e illudere non è mai una virtù…

E’ piuttosto la malattia della “autoreferenzialità”, che papa Francesco ha giustamente indicato come criterio generale delle 15 malattie della Curia romana, nel suo Discorso alla Curia del dicembre 2014. Un Prefetto autoreferenziale è una autorità priva di autorità. Per recuperare il terreno perduto, sarebbe opportuno che in futuro, prima di rilasciare interviste, ci si preoccupasse di studiare un poco la materia di cui si intende parlare, per poter sperare di conservare almeno un briciolo di vera autorevolezza.

Share