Alcuni interventi sui temi sinodali: comunione e discussione
Traggo dal Blog del Regno (Indice del Sinodo):
http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/03/non-siamo-daccordo-anche-questa-e.html
Non siamo d’accordo. Anche questa è comunione
La prima posizione, che con molta parresia e coraggio viene sostenuta da mons. Vesco, muove dalla costatazione di un’inadeguatezza sostanziale dell’assetto attuale: egli dice, apertamente, di considerarsi “ferito” da una disciplina ecclesiale dei divorziati risposati che non riesce a concepire un “nuovo patto matrimoniale”, trasformando l’indissolubilità, che resta l’ideale supremo della vita matrimoniale, in una ideologia violenta e disumana.
Viceversa, la seconda posizione, pur ripromettendosi un atto di discernimento delicato, sembra costruita in modo “settario”, difendendo in modo assoluto lo “stato della questione” così come acquisito con Familiaris consortio.
In particolare, trovo veramente singolare, almeno per un docente di teologia morale, che egli diventi il sindacalista di coloro che hanno deciso di “restare fedeli” al coniuge che li ha abbandonati. O di coloro che scelgono di vivere la seconda unione “come fratelli e sorelle”. E’ sorprendente che egli confonda la vocazione con la legge e che imponga a tutti la soluzione a cui alcuni si sentono, legittimamente, chiamati.
La serietà del Vangelo non è “fuori dalla coscienza”, non è una “auctoritas estrinseca”, ma attraversa la coscienza e la storia dei soggetti. Quanto realismo, rispetto a questa ideologia, nelle parole con cui il vescovo di Orano dichiara il proprio disagio – e la propria protesta – di fronte all’inadeguatezza con cui la Chiesa chiama “adulteri” coloro che si sono legati formalmente a una seconda unione, dopo il fallimento della prima.
Confondere la fedeltà al Vangelo e al Signore Gesù con l’autoreferenzialità di una Chiesa che – in forma autoritaria – non conosce né storia di vita né coscienza del soggetto è un modo, neppure troppo sottile, di restare imbrigliati in una soluzione premoderna di fronte alle questioni tardomoderne.
D’altra parte, il compito teologico non dovrebbe mai confondersi con il mestiere dell’avvocato. Difendere lo status quo, come se fosse l’unico modo per vivere il Vangelo, mi sembra una forma di “indurimento del cuore” che non aiuta la Chiesa a dialogare veramente con il mondo tardomoderno e ad intendere la profondità della propria tradizione.
La “difesa della indissolubilità” ha bisogno di una grande fatica di traduzione e di adattamento. Se non si è disposti a entrare in questo crogiolo, e si pretende semplicemente di ripetere ciò che già 35 anni fa era considerato come solo parzialmente adeguato, ci si condanna ad assistere alla storia, piuttosto che ad abitarla.
I nostri due interlocutori, Vesco e Maceri, rappresentano due delle posizioni che compongono la “comunione ecclesiale”. Merito del Sinodo, così come impostato da papa Francesco, è stato quello di “favorire questa discussione”, non come lacerazione della comunione, ma come dibattito di comunione.
La mia impressione, tuttavia, è che con il primo la Chiesa possa convincersi della bellezza di uscire, di abitare le periferie, di confrontarsi con la molteplicità delle forme che il Vangelo assume oggi nella vita delle coppie, elaborando adeguatamente una logica da “campo profughi”; mentre con il secondo essa rischia di convincersi che l’unica soluzione sia di chiudersi nel passato, di contestare ogni novità, di fare dell’indissolubilità una verità metastorica, finendo per risolversi a considerare che la cosa migliore sarebbe di non metter piede fuori casa.