Alcuni interventi sui temi sinodali: comunione e discussione


vignetta

Traggo dal Blog del Regno (Indice del Sinodo):

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/03/non-siamo-daccordo-anche-questa-e.html

Non siamo d’accordo. Anche questa è comunione

di Andrea Grillo
Il bel dibattito che questo blog del Regno sta alimentando da mesi ci ha offerto, di recente, due letture molto diverse delle questioni in campo, quella di mons. Vesco e quella di p. Maceri.
Da un lato vorrei sottolineare la lucidità e la pertinenza delle considerazioni avanzate dal vescovo di Orano (Algeria), mons. Jean-Paul Vesco, che comprende la novità delle condizioni delle famiglie contemporanee e che sottolinea l’inadeguatezza della disciplina attuale.
Dall’altro resto sorpreso dalla chiusura a ogni novità e dall’irrigidimento tradizionalistico di p. Francesco Maceri, che, analizzando apologeticamente il testo del discorso di papa Francesco a conclusione del Sinodo straordinario dell’ottobre scorso, sembra ignorare l’intenzione di fondo con cui il papa ha convocato il duplice Sinodo: ossia quella di ritrovare una “Chiesa in uscita” e non una mera autoreferenzialità difensiva di una Chiesa sprangata in casa, con sistemi di allarme e porte blindate, ma con l’aria viziata o lo sguardo spento.

La prima posizione, che con molta parresia e coraggio viene sostenuta da mons. Vesco, muove dalla costatazione di un’inadeguatezza sostanziale dell’assetto attuale: egli dice, apertamente, di considerarsi “ferito” da una disciplina ecclesiale dei divorziati risposati che non riesce a concepire un “nuovo patto matrimoniale”, trasformando l’indissolubilità, che resta l’ideale supremo della vita matrimoniale, in una ideologia violenta e disumana.

Assimilare all’”adulterio” ogni relazione successiva al divorzio è “parola terribile” che mette in contraddizione con la verità delle persone una dottrina che si pone autoreferenzialmente come oggettiva.

Viceversa, la seconda posizione, pur ripromettendosi un atto di discernimento delicato, sembra costruita in modo “settario”, difendendo in modo assoluto lo “stato della questione” così come acquisito con Familiaris consortio.

Insieme ad altri autori che si sono pronunciati negli ultimi mesi, anche Maceri sembra considerare le fragili e iniziali risposte di quel pur importante documento come la frontiera più avanzata e invalicabile della “dottrina ecclesiale”.
L’apertura sulla questione si manifesta, fin dalle prime righe, come unachiusura.

In particolare, trovo veramente singolare, almeno per un docente di teologia morale, che egli diventi il sindacalista di coloro che hanno deciso di “restare fedeli” al coniuge che li ha abbandonati. O di coloro che scelgono di vivere la seconda unione “come fratelli e sorelle”. E’ sorprendente che egli confonda la vocazione con la legge e che imponga a tutti la soluzione a cui alcuni si sentono, legittimamente, chiamati.

Questo assomiglia molto a quel fenomeno, insidiosissimo, con cui si confonde la grazia con la legge e la Chiesa con la setta.

La serietà del Vangelo non è “fuori dalla coscienza”, non è una “auctoritas estrinseca”, ma attraversa la coscienza e la storia dei soggetti. Quanto realismo, rispetto a questa ideologia, nelle parole con cui il vescovo di Orano dichiara il proprio disagio – e la propria protesta – di fronte all’inadeguatezza con cui la Chiesa chiama “adulteri” coloro che si sono legati formalmente a una seconda unione, dopo il fallimento della prima.

Un principio di realtà, del tutto assente in Maceri, illumina lo sguardo di Vesco: forse bisogna abitare in Algeria per vedere qualcosa in questo campo?

Confondere la fedeltà al Vangelo e al Signore Gesù con l’autoreferenzialità di una Chiesa che – in forma autoritaria – non conosce né storia di vita né coscienza del soggetto è un modo, neppure troppo sottile, di restare imbrigliati in una soluzione premoderna di fronte alle questioni tardomoderne.

La via lunga e tutt’altro che lineare con cui la Chiesa “esce da sé” presuppone, almeno inizialmente, una disponibilità critica e una attenzione al discernimento che mons. Vesco dimostra con chiarezza e che invece non si lascia scorgere in p. Maceri.
Mentre il secondo molte volte parla di discernimento, senza praticarlo, il primo non lo nomina mai, ma lo mette in pratica con profondità.

D’altra parte, il compito teologico non dovrebbe mai confondersi con il mestiere dell’avvocato. Difendere lo status quo, come se fosse l’unico modo per vivere il Vangelo, mi sembra una forma di “indurimento del cuore” che non aiuta la Chiesa a dialogare veramente con il mondo tardomoderno e ad intendere la profondità della propria tradizione.

La “difesa della indissolubilità” ha bisogno di una grande fatica di traduzione e di adattamento. Se non si è disposti a entrare in questo crogiolo, e si pretende semplicemente di ripetere ciò che già 35 anni fa era considerato come solo parzialmente adeguato, ci si condanna ad assistere alla storia, piuttosto che ad abitarla.

A me pare che la parresia di Vesco ci trasmetta speranza e fiducia, mentre dal testo di Maceri traggo quasi solo paura e diffidenza. Una pastorale del matrimonio basata sulla paura e sulla diffidenza è il frutto clericale della incomprensione del sacramento, proprio di quel sacramento che pretende, più degli altri, una approccio rigorosamente attento alle forme di vita dei soggetti. Approcciare il sacramento del matrimonio con un’ecclesiologia implicita da “societas perfecta” impedisce di riconoscere il primato della periferia e la condizione ecclesiale di “ospedale da campo”.
Per Maceri sembra che la Chiesa sia solo “centro” e che la periferia diventi irrilevante o preoccupante o disturbante. Vesco parte, invece, da uno sguardo periferico e questo gli permette un diverso realismo nei confronti del “campo profughi”.

I nostri due interlocutori, Vesco e Maceri, rappresentano due delle posizioni che compongono la “comunione ecclesiale”. Merito del Sinodo, così come impostato da papa Francesco, è stato quello di “favorire questa discussione”, non come lacerazione della comunione, ma come dibattito di comunione.

La Chiesa ha una esigenza vitale di riscoprire il dibattito come essenza della comunione, con cui sostituire le forme di omertà o di mormorazione, che spesso stanno sottotraccia rispetto a un consenso univoco, indifferenziato e falso.
Vesco e Maceri contribuiscono a costruire la comunione ecclesiale, precisamente con una diversa ermeneutica del sacramento e delle sue articolazioni ecclesiali e civili.

La mia impressione, tuttavia, è che con il primo la Chiesa possa convincersi della bellezza di uscire, di abitare le periferie, di confrontarsi con la molteplicità delle forme che il Vangelo assume oggi nella vita delle coppie, elaborando adeguatamente una logica da “campo profughi”; mentre con il secondo essa rischia di convincersi che l’unica soluzione sia di chiudersi nel passato, di contestare ogni novità, di fare dell’indissolubilità una verità metastorica, finendo per risolversi a considerare che la cosa migliore sarebbe di non metter piede fuori casa.

Per una “Chiesa in uscita” sarebbe proprio un bel paradosso potersi identificare soltanto con una “società di perfetti”!
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