L’analfabetismo conciliare del Cardinal Sarah: quattro domande di un teologo ad un Prefetto


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L’analfabetismo conciliare del Card. Sarah.

Quattro domande di un teologo ad un Prefetto.

Dopo l'infelice intervista del marzo scorso – che aveva suscitato più di qualche sconcerto e alla quale avevo già dedicato un post su questo blog (http://www.cittadellaeditrice.com/munera/signor-cardinale-che-bisogno-ha-di-sfigurare-il-vaticano-ii-il-prefetto-sarah-e-la-pace-liturgica/) - ecco che il Prefetto Sarah interviene nuovamente sul tema delicato del rapporto tra Vaticano II e liturgia (qui il testo). E, purtroppo, conferma una disarmante leggerezza di analisi e di giudizio, di fronte alla quale il teologo deve accuratamente portare alla luce tutte le lacune, esercitando la critica come richiesto dalla sua stessa funzione professionale, così preziosa per una Chiesa che voglia evitare di essere “autoreferenziale”.
Qualche anno fa mi era capitato di sollevare cinque domande all'allora Maestro delle Cerimonie Pontificie, Guido Marini, che si era avventurato sul terreno scivoloso della "riforma della riforma', con argomenti troppo deboli e contraddittori. 
Oggi rinnovo le mie domande al Prefetto Sarah, per le sue affermazioni troppo frettolose e imprecise. Per favorire una riflessione ecclesiale sulla liturgia che non ripeta ingenuamente – e con il crisma della “autorità” - luoghi comuni tradizionalistici, tanto falsi quanto infondati. Ecco le mie quattro domande, che corrispondono a quattro “stecche” del testo comparso sull'Osservatore Romano il 12 giugno u.s.:

1) La paura della comunità celebrante

Mi chiedo, innanzitutto: può essere mai che un Prefetto della Congregazione per il culto divino abbia paura di una “comunità celebrante”? Ma non dovrebbe essere primario compito di un servitore della Chiesa come il Prefetto del culto di incentivare quanto più possibile comunità “finalmente celebranti”, capaci di celebrare, con il gusto del celebrare, animate e vivificate dalle loro celebrazioni?
Invece no: secondo il vezzo assunto negli ultimi due decenni, sembra che un Prefetto del culto, per essere tale, debba mettere in guardia, se stesso e gli altri, da comunità che celebrano. Ma ciò che più deve essere apertamente censurato, è che un Prefetto, che voglia cedere a questa tentazione, si permetta di indicare nel Concilio Vaticano II la sua “fonte”. E no, signor Cardinale, questo non le è permesso: anche se porta il vestito rosso, lei non può permettersi di interpretare Sacrasanctum Concilium mediante Redemptionis Sacramentum. Piuttosto, dovrebbe provare a fare il contrario: provare a giustificare le parole timorose che vorrebbero limitare la “celebrazione comunitaria” alla luce del grande testo conciliare. E vedrebbe subito il divario incolmabile tra la altezza del testo della Costituzione del 1963 e la meschinità del testo della Istruzione del 2004. Il passaggio incauto con cui lei affida a questo testo minore la “vera” ermeneutica del Concilio assomiglia molto al tentativo di coloro che pensavano di affidare al CCC la ermeneutica più autorevole del Concilio, nell'anno della fede. Sono questi i piccoli tentativi con cui i burocrati cercano di far diventare il mondo (e la Chiesa) una sorta di schedario da museo. Per favore, signor Prefetto, resista alla tentazione di omologarsi, fin dai suoi primi mesi di servizio, alla pedanteria sterile di questi burocrati, che hanno paura di veri “segni di pace” o si oppongono a “traduzioni finalmente sensate”. 

2) Mediator Dei o Sacrosanctum Concilium?

Dal suo discorso, sembrerebbe che al centro vi sia un genuino interesse per il “testo conciliare”. Ma mi e le chiedo: è sicuro di avere in mano il libro giusto? Ha guardato la copertina? C'è davvero scritto “Sacrosanctum Concilium”, o, piuttosto, lei sta leggendo da “Mediator Dei”? Certo, molte cose sono simili. Ma proprio su un punto – quello decisivo – il testo nuovo apre una nuova via, mentre il testo vecchio resta in un orizzonte “chiuso”, irrimediabilmente. Non a caso, ancora quel documento che lei cita con tanta ingenuità, ossia “Redemptionis Sacramentum”, è apertamente un “rilancio” di Mediator Dei a scapito delle grandi intuizioni nuove di SC. Come può, un Prefetto di Congregazione, commettere una “svista” tanto grave? La “novità” di SC è proprio nel concetto di “partecipazione attiva” e nell'orientare la riscoperta della “liturgia” a questa idea decisiva, che Mediator Dei non ha ancora elaborato. Detto in altri termini: per SC i “riti e le preghiere” sono il linguaggio di tutta la Chiesa. Per questo auspica che, mediante una “riforma dei riti” si possa pervenire a “comunità celebranti”. Un Prefetto che tema queste comunità, inevitabilmente si rifugia nei limiti di Mediator Dei, e non riesce ad apprezzare il vero signiicato di SC. Come è possibile che questa “negazione di SC” venga proprio dal Prefetto della congregazione? E che essa raggiunga il suo apice quando – in modo tanto ingenuo quanto provocatorio  - il Prefetto propone di “allegare” al Messale Romano post-conciliare i riti di penitenza e di offertorio secondo il VO: a quale livello di incomprensione e di inutile provocazione vuole dimostrare di essere arrivato il nostro Cardinale? Pensa di avere a che fare con un mondo di ignavi, pronti a filtrare ogni moscerino, ma ad ingoiare il loro bravo cammello, se a proporglielo è un Cardinale? Crede che le “comunità non celebranti” sarebbero meglio disposte a questo?

3) La pace liturgica come pretesto per dar fiato a chi fa la guerra

Trapela di nuovo, anche in questo ultimo testo del Prefetto Sarah, un finto ragionamento, tratto dal “cappello a cilindro” dei diplomatici. “Bisogna fare la pace, non la guerra”. Certo, siamo d'accordo. Ma che cosa si intende, qui, per “pace liturgica”? Si intende “anarchia” protetta dall'alto. Forse, sembra adombrare il Prefetto, se riesco a far capire che da “questa mia altezza” - che nella Chiesa non è il massimo, ma neppure il minimo – io comunque “proteggo”, si potrà ancora “fare la pace”. In realtà qui non si tratta di pace, ma di “protezione” di chi non vuole stare al gioco. Dall'alto, dopo il 2007, si è deciso che la “pace” corrispondesse a “regolarizzare” chi non vuol stare al gioco del Concilio Vaticano II. Questo forse può avere un senso nella Curia romana, dove si trova più di uno di questi “resistenti”. E forse, proprio nella curia, una tale “indulgenza” può essere fonte di pace. Ma di pace “da curia”, intendiamoci, ossia della massima indifferenza! Ma “altrove”, Signor Prefetto, lei che è uomo di esperienza internazionale, come fa a pensare che “consentire la impunità a chi non vuol stare al gioco” possa generare pace? Questa scelta, forse lungimirante nella Curia romana, è del tutto cieca se applicata alle Chiese nazionali e alla Chiesa universale. Genera solo anarchia, insieme al sopruso del cardinale, che gira in Mercedes, col suo bravo codazzo, con tanto di carabinieri col pennacchio e celebra, a richiesta, rigorosamente in Vetus Ordo. Non faceva così anche il “piccolo Ratzinger”, suo predecessore? E non faceva così anche l'ex grande Burke? E lei, proprio lei, vorrebbe forse che questi abusi valessero come modelli? Certo, capisco che queste forme liturgiche le diano ampia garanzia di non suscitare mai “comunità celebranti”, ma non le sembra un po' pochino, come risultato, per edificare la “pace liturgica”? Io penso che, venendo lei da un continente tanto segnato dalla guerra, dovrebbe usare la parola “pace” in contesti e con significati decisamente meno “da salotto”. A meno che non voglia ridurre anche la sua carica ad un elemento del salotto.

4) Perché citare Francesco a sproposito?

Ad un certo punto del suo testo, ho avuto un soprassalto. Lei cita papa Francesco. E ho dovuto rallegrarmi per il coraggio con cui lei si è avventurato tra i testi di Francesco, per trovare un punto di appoggio al suo discorso liturgico. Mi sembra che proprio papa Francesco abbia esortato i diversi vescovi e cardinali a non abusare delle sue parole e a “pensare parole proprie”. Lei ha citato Francesco quando mette in guardia dalla liturgia “ridotta a spettacolo”. Ma lei, con un passaggio quanto meno poco chiaro, sembra ritenere che Francesco volesse mettere sotto accusa il “protagonismo prebiterale” e la “spettacolarizzazione del culto” come se fosse il frutto di una errata interpretazione del Vaticano II. Io le chiedo, invece: non ha mai pensato che il “protagonismo presbiterale/episcopale” sia soltanto il frutto di una sopravvivenza, nella nuova Chiesa inaugurata dal Concilio, di una lettura della liturgia come semplice “azione del prete”? Non sarebbe facile riconoscere che, alla radice di questa distorsione, non sta affatto la pretesa di una comunità celebrante, quanto piuttosto una lettura non equilibrata dell'unico soggetto che agisce “in persona Christi”? 
Non è la “comunità celebrante”, il problema, ma l'idea che sia “uno solo” a celebrare che altera irrimediabilmente le cose e distorce tutto. 

Per questo, signor Cardinale, il suo articolo sull'Osservatore Romano del 12 giugno mi sembra una ulteriore grave caduta di stile, non per lei, ma per la carica del Prefetto della Congregazione del Culto divino. Un Prefetto che voglia davvero servire un'autentica attuazione del Vaticano II, non scriverebbe mai neppure una riga di quanto è apparso con la sua firma. Questo è un fatto grave. Su cui un teologo, che voglia servire la Chiesa, non potrà mai tacere, in nessun caso.
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