Quando si vede bianco, ma si crede nero: le “analogie imperfette” del ministero ordinato


Come è noto, Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali, tra le «Regole per sentire con la Chiesa» scrive un testo divenuto quasi proverbiale:

«Tredicesima regola. Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti, noi crediamo che lo Spirito che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso in Cristo nostro Signore, lo sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo stesso Spirito e signore nostro che diede i dieci comandamenti» (I. di Loyola, Esercizi spirituali, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005, 215 [n. 365]).

Sulla famosa espressione con cui S. Ignazio ha espresso la fedeltà al papa e in generale alla “chiesa gerarchica” è interessante notare non soltanto la formula con cui viene comunicata, con la differenza tra “vedere” e “credere”, tra visibilità e invisibilità, ma anche la argomentazione portante che sorregge la affermazione.

L’orizzonte della riflessione è quello “sponsale”. Ma di quali nozze si tratta? Può essere interessante identificare bene come funziona la metafora nell’uso di Ignazio. Cristo sposo della Chiesa sposa, diventa, nelle sue parole, Cristo sposo della Chiesa gerarchica. Nella tradizione abbiamo avuto, però, anche un diverso uso della metafora: il Vescovo sposo della Chiesa sposa. Questo doppio uso della metafora permette di costruire un “sistema” in cui, con due passaggi, si ottiene una duplice configurazione:

– Cristo sposo della Chiesa gerarchica

– Il vescovo sposo della chiesa non gerarchica

Un altro testo di Ignazio che va nella stessa direzione suona così:

«Deposto ogni giudizio, dobbiamo tenere l’animo disposto e pronto per obbedire in tutto alla vera sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa madre Chiesa gerarchica.» (I. di Loyola, Esercizi spirituali, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005, 212 [n. 353]).

Qui, come è evidente, l’uso della “metafora sponsale” corre il rischio di una grande equivocità. Come fa un vescovo (o il papa) ad essere, contemporaneamente, sposa di Cristo e sposo della Chiesa?

Con giusta precisazione, papa Francesco ha provveduto a chiarire non poco l’uso disinvolto di queste metafore, che creano di volta in volta campi di istruttiva chiarezza e campi di singolare oscurità. Nella esortazione apostolica Amoris Laetitia mette in guardia dall’utilizzo disinvolto della metafora sponsale definendola “analogia imperfetta”. Leggiamo questo testo:

“Benché «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» sia una «analogia imperfetta», essa invita ad invocare il Signore perché riversi il suo amore dentro i limiti delle relazioni coniugali” (AL 73).

Qualche riga sopra aveva scritto, in modo analogo:

“Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale” (AL 72)

D’altra parte non è cosa nuova che si utilizzino con precisione e con cautela le diverse accezioni del termine “nozze” nel linguaggio teologico. Papa Innocenzo III aveva scritto, ai primi del XIII secolo, un breve trattatello sulla “Figura quadripartita delle nozze”, articolandola secondo i quattro sensi della scrittura, che individuani nozze storiche, nozze allegoriche, nozze tropologiche e nozze anagogiche, corrispondenti al rapporto uomo-donna legittima, Cristo-Chiesa santa, Dio-anima giusta e Verbo-natura umana.

Proviamo ora a leggere in parallelo il testo di Ignazio, che utilizza al limite della contraddizione la “metafora sponsale”, e l’uso che ne fa il magistero per escludere la ordinazione sacerdotale della donna. Notiamo subito che, quando la metafora viene applicata non al matrimonio, ma al ministero ordinato, subisce allo stesso tempo una complicazione virtuosistica e una semplificazione disarmante:

Nell’uso di Ignazio, Cristo è Sposo della Chiesa gerarchica, che è sposa. Ma Ignazio non pretende affatto che la metafora sponsale conduca alla conclusione che, quindi, la gerarchia, per essere sposa del Cristo, debba essere femminile. Sa bene, e fa bene a saperlo, che l’uso della metafora è compatibile con la “sessuazione maschile” della Chiesa gerarchica.

Diverso, invece, è il modo con cui Inter Insigniores nel 1976 (e poi una Nota a del 2018 della Congregazione per la Dottrina della fede) ragionano intorno alla stessa metafora:

Il sacerdote, infatti, agisce nella persona di Cristo, sposo della Chiesa, e il suo essere uomo è un elemento indispensabile di questa rappresentazione sacramentale (cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Inter insigniores, n. 5).

L’impiego di una “analogia imperfetta” sembra dover aspirare alla “perfezione” solo quando si riferisce al genere sessuale dei soggetti. Abbiamo potuto sopportare senza battere ciglio, anche senza essere gesuiti, l’ardita metafora impiegata da Ignazio: se Cristo è sposo della Chiesa gerarchica sposa, il sesso maschile dei vescovi non ci turba, forse perché l’azione “in persona ecclesiae” non sembra richiedere il sesso femminile. Viceversa se rappresentiamo la funzione del ministro ordinato di fronte alla sua comunità, pretendiamo che sia “di sostanza” il sesso maschile, perché la sponsalità non sia svuotata nel suo senso “storico”: abbiamo perso così ogni percezione del senso allegorico, tropologico e anagogico delle nozze. Così l’ “analogia” perde ogni imperfezione e il segno diventa improvvisamente univoco. Forse applicando al ministero ordinato la medesima “imperfezione analogica” di cui siamo consapevoli per il matrimonio, potremmo affidare minore autorità alla interpretazione letterale di una metafora e riconoscere maggiore autorità alle persone delle donne come a quelle degli uomini. Ogni ministro ordinato agisce, allo stesso tempo, in persona Christi e in persona ecclesiae. Se interpretassimo la “metafora sponsale” sempre in modo rigido, e pensassimo che “agere in persona” significa “impersonare”, dovremmo escludere che gli uomini maschi possano agire in persona ecclesiae, e che le donne possano agire in persona Christi. Ma siccome da sempre pensiamo che l’uomo maschio possa agire anche in persona ecclesiae (pur non essendo donna), nulla impedisce di pensare che la donna possa agire “in persona Christi”, pur non essendo maschio. Dovremmo arrenderci al fatto che la consapevolezza di far uso di una “analogia imperfetta”, con tutte queste importanti conseguenze, ha valore non solo per la teologia del matrimonio, ma anche per la teologia del ministero ordinato. Anzi, dovremmo forse ammettere che se la analogia del rapporto Cristo-Chiesa con il rapporto marito-moglie appare “imperfetta”, non sarebbe azzardato pensare che “più imperfetta” dovrebbe risultare sia l’analogia tra Cristo-Chiesa e Cristo-Vescovo, sia quella tra Cristo-Chiesa e Vescovo-Chiesa. Da questo punto di vista, per passare da bianco a nero occorre una analogia meno imperfetta.

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