La fine della “riforma della riforma”: piccola storia di un delirio autoreferenziale


 lavandaFrancis

La combinazione di tre piccoli eventi, tra loro correlati solo in parte, ha determinato, negli ultimi giorni una importante evoluzione per la liturgia cattolica. Gli eventi sono, in ordine un Comunicato della Fraternità S. Pio X, del 29 giugno, una Conferenza del Prefetto della Congregazione del Culto, del 5 luglio, e una Nota della Sala Stampa della Santa Sede, dell’ 11 luglio. La sequenza dei tre eventi ha determinato una conseguenza in parte imprevedibile, anche se del tutto attendibile.

Ma andiamo per ordine.

I tre eventi in successione

Nel Comunicato di Fellay si legge la “fine di una stagione” e la “attesa del successore di papa Francesco”… Il disegno di riconciliazione, iniziato già sotto Giovanno Paolo II, che aveva trovato nuovo slancio con papa Benedetto, sembra arrivato al palo. In realtà, le richieste erano diventate sempre più alte e il riconoscimento del Vaticano II sempre più vago.

Parallelamente, nella conferenza di Londra del Card. Sarah, avveniva, pubblicamente, quello slittamento di temi che aveva caratterizzato tutta la fase di “apertura” verso i lefebvriani. Il desiderio di una più ampia comunione nella Chiesa – cosa altamente auspicabile – coincideva e si confondeva con il disegno di “riforma della riforma”. Si voleva profittare del riavvicinamento con i lefebvriani per “normalizzare” la liturgia (e la chiesa) conciliare. Nelle parole imprudenti del Cardinale Sarah appariva addirittura il disegno di “riorientare a oriente” tutti gli altari (e tutti i preti), a partire dal prossimo Avvento. Mai, a livello ufficiale, era stata tanto chiara la volontà di contraddire il disegno conciliare.

Da ultimo, nella Nota della Sala Stampa, vengono fissati tre principi decisivi: il desiderio di salvaguardare il valore della eucaristia deve procedere secondo quanto stabilito dal Concilio e dalla Institutio del Messale romano, che prevede “altari staccati dalla parete”. Questa deve essere la pastorale ordinaria della Chiesa, alla quale non può essere sostituita la “forma straordinaria”. Che infine è bene non usare la espressione “riforma della riforma”, che ingenera solo confusione. In queste tre affermazioni viene dato il colpo di grazia al sogno autoreferenziale di una Chiesa che voleva immunizzarsi dal Concilio Vaticano II e che lo viveva con non celato disagio.

Una piccola storia a lieto fine

E’ bene ricordare che questa espressione “riforma della riforma” ha caratterizzato una fase del dibattito ecclesiale, alimentata da periferie ben sostenute dal centro, con l’obiettivo di contrastare apertamente la riforma liturgica. Abbiamo avuto una serie di documenti che, senza mai usare questa espressione, sono stati usati per costruire il teorema autoreferenziale della “riforma della riforma”. Liturgiam Autenticam (2001), Redemptionis Sacramentum (2004) e Summorum pontificum (2007) sono gli anelli di una catena che ha potuto cercare di ridimensionare e talora di contraddire lo slancio conciliare verso la “actuosa participatio”. Va riconosciuto che in nessuno di questi documenti si usa la espressione “riforma della riforma”, ma in essi si pretende di creare un altro stile di “traduzione della tradizione”, di tornare ad un approccio alla eucaristia che fa prevalere la lotta all’abuso piuttosto che la formazione all’uso e di creare un pericoloso parallelismo tra rito ordinario e rito straordinario, con conseguenze ecclesiali, pastorali e formative molto problematiche. Su tutti questi documenti – bisogna riconoscerlo apertamente – c’è la “longa manus” prima del Prefetto Ratzinger e poi di papa Benedetto. E non si deve dimenticare che i testi che hanno poi interpretato questi documenti nei termini di “riforma della riforma” sono stati accompagnati, sostenuti, benedetti o introdotti da parole di prefazione o di recensione di J. Ratzinger. Basti ricordare i testi di A. Nichols, N. Bux, M. Lang o Alcuin Reid.

Con la Nota dell’11 luglio tutto questo ha trovato la sua fine. Si dice finalmente una parola chiara sulla questione. Direi che il “simbolo” di questo superamento può essere trovato in un gustoso parallelismo tra due espressioni. Mentre nel documento del 2004, dedicato agli abusi sulla eucaristia, si dice “si usino soltanto con cautela espressioni come ‘comunità celebrante’ o ‘assemblea celebrante’” (42) – assumendo ufficialmente un luogo comune dei sostenitori della riforma della riforma – nella Nota di alcuni giorni fa si censura invece l’uso della espressione “riforma della riforma”. Il cerchio si chiude. Il cammino conciliare può riprendere. Il teorema di una “riforma della riforma”, come idealizzazione aggressiva di una chiesa autoreferenziale e che si immunizza dalla storia e dalla esperienza, viene finalmente censurato a livello ufficiale.

Le conseguenze ecclesiali: Vescovi e Curia

Quali saranno le conseguenze di questa “nota”? Io credo che la logica che ha inaugurato il progetto di “riforma della riforma” – messo in piedi dalla fine degli anni 90 – ha provato a scavalcare progressivamente le competenze episcopali, raggiungendo il suo apice con il MP Summorum Pontificum, che di fatto esautora i Vescovi in materia liturgica.

Il recupero di competenza episcopale – che tutto il pontificato di Francesco mette in primo piano – dovrà ricevere normative chiare, che superino lo “stato di eccezione” introdotto da SP. Competenze sulle traduzioni, competenze sugli usi/abusi e competenze sull’uso della forma straordinaria.

Se i Vescovi torneranno a “governare” anche liturgicamente le loro diocesi, sarà inevitabile che la Commissione Ecclesia Dei perda gran parte dei poteri che le sono stati attribuiti da SP.

Il decentramento della curia procede anche liturgicamente.

Un buon commento in questa direzione, con riflessi inevitabili sulla Curia romana e sulle sue competenze, è venuto da Lorenzo Prezzi, che ragionando sul primo dei tre eventi, ha scritto acutamente:Quello che Fellay e i suoi non hanno capito è che la loro questione è stata, per un tratto, centrale ed ora è periferica. Il loro rientro poteva condizionare la Chiesa. Oggi e domani potrà condizionare solo le loro biografie”.Non sarebbe troppo azzardato estendere questo giudizio anche a qualche membro della Curia romana. Che magari si consolerà stendendo e/o firmando qualche libello antimodernista…

 

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