Modello trentino e modello tridentino: dimmi che concorso vuoi e ti dirò chi sei


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Le reazioni allarmate alla notizia della “firma della intesa” tra CEI e Ministero della Istruzione inducono ad una riflessione più ampia e più generale sull’assetto dell’Insegnamento della Religione cattolica nelle Scuole pubbliche italiane. In un certo senso, la forma istituzionale che assume il concorso rivela la comprensione della cultura e della Chiesa che possiamo condividere nel nostro paese. E le posizioni polarizzate – di chi pensa che la scuola laica non possa prevedere alcuna formazione teologica e di chi pensa che la scuola pubblica debba invece garantire una “riserva indiana” in cui poter fare catechismo – non conducono ad una soluzione vera. Perché la presenza di una “cultura teologica” nella “formazione del cittadino” possa essere considerata una opportunità per tutti – credenti e non credenti – senza essere imposta ad alcuno, dipende anche dalla forma con cui pensiamo il concorso con cui viene assicurata una presenza autorevole e responsabile di docenti IRC nella scuola pubblica italiana. Dunque, dimmi che concorso vuoi e ti dirò chi sei. Voglio precisare che il gioco di parole tra “trentino” e “tridentino” mi è stato suggerito dalla lettura di un secondo testo, elaborato da Pieggi e Ventura, al quale rimando: https://re-blog.it/2020/07/01/prof-di-religione-quale-concorso. In quel testo, infatti, si trova espressa, in modo lineare, la perplessità verso la impostazione di un concorso “ordinario”, rispetto al quale la via trovata a Trento, nel 2014-2018, sia pure in modo contorto e macchinoso, e con ripensamenti grandi, rappresenta una ipotesi diversa e più promettente. Così mi è venuto spontaneo chiamare “tridentino” il primo modello, e “trentino” il secondo. Vediamo in che cosa consiste la differenze e perché potrebbe essere giusta denominarla in questo strano modo, senza perdere la ammirazione per quello che a Trento si è fatto quasi 500 anni fa, ma utilizzando il termine “tridentino” più per indicare lo “stereotipo” formalista che non la vera realtà storica originale, irriducibile a questa caricatura.

a) Il modello tridentino

Che cosa vi è di “tridentino” nel modello proposto dal Ministero, e che sembra risultare gradito all’Ufficio Scuola della CEI? Io potrei dirlo così: la qualificazione dell’insegnante risulta meramente “formale”. Da un lato lo Stato non si preoccupa di tutelare – con parità di trattamento – il profilo giuridico degli insegnanti IRC, ma li discrimina apertamente e spudoratamente rispetto ai colleghi. E la Chiesa, sorprendentemente, sembra sopportarlo bene, quasi senza notarlo. Questo perché, da parte sua, anche la visione ecclesiale appare disinvolta nel favorire, indirettamente, la condizione precaria dell’insegnante. Se il lavoro di formazione culturale del docente IdR fosse ritenuto davvero rilevante, non si accetterebbe la sua irrilevanza per il Concorso. Si preferisce forse un catechista obbediente ad un professore formato, critico e stabile? Proprio concedendo tanto spago alla posizione ministeriale, la visione dei responsabili CEI sembra poco abituata a pensare laicamente. Pur di non pensare laicamente, accetta una lettura irrispettosa. La stabilizzazione dei professori nella scuola pubblica, se deve essere un valore culturale comune, deve basarsi non sul formalismo di un concorso che valuta solo “disposizioni giuridiche e nozioni docimologiche”, ma sulla formazione teologica, biblica, sistematica, storica, ecumenica dei candidati. Un modello di concorso “formale” è il riflesso di una mancata distinzione tra il catechista e il docente. E la confusione sul concorso nasconde, io credo, un lettura nostalgica del rapporto tra Chiesa e Stato. In questa visione la Chiesa, talora distratta nel formare i propri docenti, affida allo Stato di fare la selezione, ma una selezione operata non “in re”, ma su criteri formali rispetto alla disciplina in questione: questo sarebbe un grande pasticcio in cui si alleano ingenuità e presunzione, laicismo indifferente e tridentinismo altrettanto indifferente.

b) Il modello trentino

Diversa è la prospettiva che voglia accettare, per la Chiesa, una diretta responsabilità nella formazione dei docenti. Usciamo dalla rappresentazione tridentina di una idoneità che istituisce, quasi sacramentalmente, il docente nella sua competenza. Non è così. La idoneità, con la sua autorevolezza episcopale, è un atto di servizio alla cultura comune: riconosce una vocazione alla docenza, che si costruisce nell’ascolto della parola, nella riflessione sulla storia, nei cammini di confronto con la cultura contemporanea, nella meditazione sulla tradizione dottrinale, sacramentale, liturgica e spirituale. Tutto questo non potrebbe essere verificato da nessun concorso pubblico, fino a che la teologia sarà considerata “esterna” e/o “irrilevante” rispetto alla vita accademica italiana. Solo la accettazione di una “sfera di responsabilità ecclesiale” per la cultura comune può aprire la via, teorica oltre che pratica, ad una differenziazione tra il concorso ordinario e il concorso straordinario. Accettare un concorso straordinario significa, anzitutto per la Chiesa, uscire da una sorta di cattività antimodernista. Significa mettere in comune la propria cultura. Significa scoprire di avere una responsabilità sulla cultura comune, alla quale poter contribuire “in scienza e coscienza”. Se vuoi stare nella scuola, ci stai nel rigore scientifico e nel confronto culturale. Non sei a scuola per proselitismo, per fare catechismo, per fondare un movimento o un monastero, ma per un atto formativo radicale, di fedeltà all’uomo che supera infinitamente l’uomo.

La scuola, la religione e la cultura comune

Il modello tridentino di concorso è, in sostanza, una concorrenza “tra stati autoreferenziali”. Il modello trentino accetta che lo stato abbia bisogno della chiesa e che la chiesa abbia bisogno dello stato. Questa seconda ipotesi sa che si dà un sapere comunicabile che riguarda Dio e la fede. Su questo sapere si può studiare, si può crescere,  scientificamente e pedagogicamente. Questo sapere arricchisce chiunque sia disposto a considerarlo seriamente. Una scuola laica può prendere a cuore la formazione teologica dei propri studenti. Una Chiesa lungimirante mette a disposizione della cultura pubblica i monumenti di pensiero e di azione, di sensibilità, di retorica e di estetica  di cui vive. I rapporti tra teologia e altre discipline non può essere ridotto a battute, né da una parte, né dall’altra. I. Kant, che è considerato uno dei maestri dell’Illuminismo, riconosceva che la teologia è la prima delle facoltà. E sapeva che le altre facoltà, nel rendere un servizio alla teologia, non necessariamente debbano seguirla reggendole lo strascico, ma possono e devono precederla, reggendo una candela. Per una presenza significativa della religione nella scuola – evidentemente cattolica, ma anche cristiana e non cristiana – una responsabilità culturale delle chiese è una condizione della laicità. Né laicismo né fondamentalismo potrebbero sopportare docenti di religione veramente formati, veramente stabili, e perciò liberi, modesti, critici e gioiosi. Proprio a simili figure di docenti  guarda il futuro comune della scuola e il cammino singolare della chiesa.

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