L’atto di dolore e la novità del Rito del 1973. Un testo fantasma e la prova della interpolazione


Le affermazioni con cui papa Francesco ha preso una certa distanza dalla formula dell'”atto di dolore”, che in Italia ha avuto per decenni una certa fortuna, e di cui ho già discusso (qui) la “eterogeneità” rispetto al Rituale del 1973, ha però suscitato in me un nuovo interesse, ossia quello verso la “forma” storica dell’atto di dolore. Per capire l’interesse, cerco di spiegare bene da dove sorge la domanda. Come ho scoperto alcuni anni, quando fa ho confrontato la versione italiana con la versione tipica latina dell’Ordo Paenitentiae, la frase “perché peccando ho meritato i tuoi castighi” non è presente nell’originale latino. Da dove viene?

Alla domanda non è facile rispondere. Perché la ricerca sulle fonti risulta deludente e quasi fuorviante. Cerco di spiegarmi. Ci si potrebbe aspettare che il Rito della Penitenza, che ha trovato la sua forma attuale nel 1973 successivamente alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II, presentasse, nelle edizioni precedenti dello stesso rito, come parte del Rituale Romanum, a partire dal 1614, delle formule di espressione della “contrizione” anteriori a quella di cui ha parlato papa Francesco. Con una certa sorpresa, risalendo la storia dal 1600 ad oggi, non si trova alcun precedente nei rituali, fino all’ultimo, anteriore al Vaticano II: infatti anche nel rituale del 1952 la struttura della celebrazione del sacramento (che è chiamata “Ordo ministrandi sacramentum poenitentiae“) non prevede alcun “atto di dolore” recitato o pregato dal penitente. Anzi, con una espressione conservata tale e quale dal 1614, il testo del 52 parla di “dolore e contrizione” in questi termini:

“Udita la confessione, considerando la rilevanza e la frequenza dei peccati confessati dal penitente, secondo la loro gravità e la condizione del soggetto, offrirà le opportune correzioni e ammonimenti, in ragione di quando riterrà opportuni e con paterna carità, e si sforzerà di condurlo al dolore e alla contrizioni con parole efficaci, lo indurrà alla correzione della vita e ad una migliore revisione, comunicandogli i rimedi al peccato”.

In questo testo, che è stato normativo fino al 1973, è evidente che la contrizione e il dolore, come dimensione decisiva, ma invisibile del sacramento, è riferita alle parole esortatrici del ministro, non ad una dichiarazione del penitente. Potremmo dire: l’atto di dolore è un atto della coscienza, non un “atto verbale”. Così è, nei rituali, dal 1614 al 1972.

Resta però la questione: è del tutto possibile che il nuovo rituale del 1973 abbia ritenuto che la “contrizione” potesse avere una sua “manifestazione” e che il nuovo ordo ne abbia presentate ben 10 diverse. Ma come mai la versione italiana presenta come prima formula una versione che non è la traduzione della versione latina, ma non è neppure una versione di un testo precedente (visto che prima non vi era alcuna formula di espressione del dolore)?

Sulla elaborazione delle “formule dell’atto di dolore”, come nuovi elementi dell’Ordo Poenitentiae, è attestato un dibattito intenso nella fase di progettazione del nuovo rituale. A questa discussione ha partecipato attivamente anche papa Paolo VI (cfr. A. Bugnini, La riforma liturgica, Roma, 1997, 644-662). In particolare è proprio Paolo VI a insistere sulle formule di espressione del pentimento, rispetto alle quali esprime riserve sul Padre Nostro (che era stato proposto). Interessante è il fatto che tra le proposte, che sembrano venire da Paolo VI, vi sia quella di attingere alle preghiere che il Messale Romano tridentino dedica alla “preparazione alla messa”. Per formulare la “contrizione” non si attinge alla tradizione del rito penitenziale, ma a quella del rito eucaristico.

Resta però il mistero della discrepanza tra le 10 formule presenti nel nuovo Ordo latino e la formula “spuria” (e problematica) della versione italiana della prima versione. Qui sarebbe interessante sapere se il rituale spagnolo in uso in Argentina presenti una traduzione fedele al testo latino o abbia anch’esso la interpolazione con fonte non ufficiale (ma alla fine del testo potremo fare qualche ipotesi considerando le diverse versioni del Compendio del CCC: ma non anticipiamo).

Comunque sia, il testo attuale deve avere avuto una fonte propria e di certo non può essere considerato una “libera traduzione” dal latino. La fonte probabile viene da un percorso complesso, che possiamo ricostruire congetturalmente in tre passaggi:

a) In primo luogo viene dal Catechismo maggiore di papa Pio X (1905), che  non offre ancora una “formula” dell’atto di dolore, ma parla con giusta insistenza della decisività dell’atto di contrizione. Dal punto di vista sistematico è poi interessante notare che l’atto di dolore non è riferito in modo specifico al sacramento della penitenza.

Il catechismo, secondo una antica tradizione, fa della “contrizione” la parte più importante del sacramento. Ma non la traduce mai in una “formula”. L’atto di contrizione è un moto della coscienza, decisivo per il sacramento, che non può esteriorizzarsi direttamente e istantaneamente. Interessante è considerare la “descrizione” del rito della penitenza che è contenuta nel testo del Catechismo (“Del modo di confessarsi” ai nn. 762-769), nella quale si dice della contrizione:

“Compiuta l’accusa dei peccati, bisogna ascoltare con rispetto quello che dirà il confessore; accettare la penitenza con sincera volontà di farla; e mentre egli darà l’assoluzione, rinnovare di cuore l’atto di contrizione”.

Rinnovare “di cuore” non vuol dire, necessariamente “recitare”.

b) Una prima formulazione, ma diversa da quella che entrerà nella traduzione italiana del rituale del 1973, scaturisce dalla versione più breve del Catechismo di Pio X, redatta nel 1912, che trasforma in “formula” l’atto di contrizione e pone le premesse di quella formulazione che dominerà il traduttore del 1973, portandolo a trasformare arbitrariamente il testo latino in un testo non rituale, ma devozionale e senza alcuna fondata e tradizionale autorità liturgica.

In effetti nella edizione del 1912 compare l’atto di dolore come una delle “formule” che aprono il catechismo (dopo l’atto di fede, di speranza e di carità), ma più avanti questo atto è presentato come formula della preghiera della sera, come atto da compiersi sia sulla soglia del sacramento della penitenza, sia al suo interno. Eccone la descrizione in una delle appendici al Catechismo (che potrebbero essere anche successive al 1912).

1. Si faccia con diligenza l’esame dei peccati commessi in pensieri, in parole, in opere ed omissioni, contro i comandamenti di Dio, i precetti della Chiesa e i doveri del proprio stato.
2. Si consideri il gran male commesso offendendo gravemente Dio, nostro Signore e Padre, il quale ci ha fatto tanti benefizi, ci ama tanto e merita infinitamente di essere amato sopra ogni cosa e
servito con ogni fedeltà. Si ripensi che la Passione del Nostro Signor Gesù Cristo fu cagionata dai nostri peccati. Si rifletta alla perdita della grazia e del paradiso e al castigo meritato dell’inferno.
Poi si reciti con molta compunzione l’Atto di dolore.
3. Presentandosi al confessore, il penitente s’inginocchi, faccia il segno della Croce e chieda la benedizione; poi si confessi umilmente.
4. Dopo, ascolti docilmente gli avvisi del confessare, accetti la penitenza, e, al momento dell’assoluzione, rinnovi d’Atto di dolore.

La formula è “recitata” sia prima sia durante il sacramento.  Ma il testo dell’Atto di dolore proposto al n.12 del Catechismo del 1912 non corrisponde al testo che cerchiamo. Suona infatti così:

12 ATTO DI DOLORE.
Mio Dio, mi pento con tutto il cuore de’ miei peccati, e li odio e detesto, come offesa della vostra Maestà infinita, cagione della morte del vostro divin Fígliuolo Gesù, e mia spirituale rovina. Non
voglio più commetterne in avvenire e propongo di fuggirne le occasioni. Signore, misericordia, perdonatemi.

c) Resta l’ultima questione: dove possiamo trovare il precedente diretto della terminologia usata nella traduzione italiana del rituale del 1973? E’ forse la invenzione di un redattore del post-concilio?

Il testo che ancora ci manca compare nel Catechismus Catholicus curato dal card. Pietro Gasparri e pubblicato con grande solennità nel 1930. Il testo si presenta con la pretesa di essere un nuovo “catechismo universale” e da esso traspare non solo una solida competenza sistematica dell’autore, ma anche il prevalere di una sistematica giuridica rispetto al sapere della tradizione liturgica e teologica. Questa interpretazione istituzionale della tradizione ha influenzato anche le formule proposte all’inizio del volume. Tra queste formule si trova infatti:

XVI. Actus Contritionis. Deus Meus, ex toto corde poenitet me omnium meorum peccatorum, eaque deterstor, quia peccando non solum poenas a Te iuste statutas promeritus sumi et praesertim quia offendi Te, summum bonum, ac dignum qui super omnia diligaris. Ideo firmiter propono, adiuvante gratia Tua, de cetero me non peccaturum peccandique occasiones primas fugiturum.

Questa mi pare la fonte più probabile di una vera e propria interpolazione tra “azione rituale” e “pratica di devozione”, che realizza una pesante interferenza tra atto rituale, immaginario giudiziale e devozione del culto.  Facilmente l’uso pastorale, profondamente segnato sia dal Catechismo di Pio X, sia da quello del Gasparri, ha assunto di fatto come “parte del rito” un uso devoto. Possiamo dedurne, con fondata argomentazione, che la formula alla quale ha fatto riferimento Francesco non sia più antica del 1930; certamente non è mai comparsa nei rituali della penitenza fino al 1973 e, quando vi è entrata, ciò è avvenuto non ufficialmente, ma attraverso una “interpolazione” italiana del testo latino, che forse meriterebbe di essere verificata nelle altre traduzioni oggi in uso nella pratica ecclesiale nei 5 continenti.

Da parte sua il Catechismo della Chiesa Cattolica non presenta alcuna formula dell’atto di dolore, mentre il Compendio, con unilateralità, presenta come unica formula la prima nella versione interpolata, senza alternative. Ma non basta, se si controllano le altre versioni, si scopre come la interpolazione risulti, ora, patente. La versione spagnola, quella nota anche a P. Francesco, non solo presenta la versione interpolata, ma offre anche un “originale latino” che è quello di Gasparri, non quello originale della Riforma liturgica. Ma non è finita. Anche le versioni Inglese e tedesca del Compendio offrono una versione clandestina dell’atto di dolore. Il testo tedesco, e quello portoghese, addirittura, ne offrono solo un “originale latino” che risulta falso.

Ecco perché il papa fa bene a prediligere la formula “senza castighi”: è l’unica prevista dal rito latino, che molte lingue parlate (con l’unica eccezione del francese) hanno disinvoltamente aggirato.

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