La tradizione e i “metodi immorali” per custodirla. La Nota “Gestis Verbisque” e i compiti del Dicastero per la fede


Nel luglio scorso, al momento in cui veniva nominato il nuovo Prefetto, papa Francesco scriveva una lettera di accompagnamento alla nomina, che illustrava una ricomprensione importante della funzione del Dicastero. Tra le altre cose scriveva quanto segue:

Il Dipartimento che presiederai in altri tempi è arrivato ad usare metodi immorali. Erano tempi in cui, più che promuovere la conoscenza teologica, si perseguitavano eventuali errori dottrinali. Quello che mi aspetto da te è senza dubbio qualcosa di molto diverso.

…ti chiedo come Prefetto di dedicare più direttamente il tuo personale impegno allo scopo principale del Dicastero che è “custodire la fede”. Per non limitare il senso di questo compito, bisogna aggiungere che si tratta di “accrescere l’intelligenza e la trasmissione della fede a servizio dell’evangelizzazione, perché la sua luce sia criterio per comprendere il senso dell’esistenza, specialmente di fronte alle questioni poste dal progresso della scienza e dallo sviluppo della società”. Questi temi, accolti in un rinnovato annuncio del messaggio evangelico, «divengono strumenti di evangelizzazione», perché permettono di entrare in dialogo con «l’attuale contesto in quanto inedito nella storia dell’umanità».

Abbiamo bisogno di un pensiero che sappia presentare in modo convincente un Dio che ama, che perdona, che salva, che libera, che promuove le persone e le chiama al servizio fraterno.[…]

Nell’orizzonte di questa ricchezza, il tuo compito implica anche una cura speciale per verificare che i documenti del Dicastero stesso e di altri abbiano un adeguato supporto teologico, siano coerenti con il ricco humus del perenne magistero della Chiesa, e al tempo stesso accolgano il Magistero recente.

Di fronte a queste parole dobbiamo riconoscere, in modo molto oggettivo, che Gestis verbisque si colloca proprio su quel versante di “presa di parola” che possiamo chiamare, in senso lato, “metodo immorale”. Vorrei provare a spiegare in che senso mi pare necessario parlare di “immoralità del documento”. In che cosa consiste la sua immoralità?

1. Come se il Concilio non ci fosse mai stato

Il Concilio Vaticano secondo, che è paradossalmente citato nel titolo, ma solo nel titolo del documento, è anzitutto un “evento linguistico”: ci ha insegnato da 60 anni a “parlare diversamente” per dire la medesima tradizione, ma con parole diverse, nuove, fresche, bibliche, patristiche, esperienziali, narrative. Di questo insegnamento, che è diventato patrimonio ecclesiale da ormai tre generazioni, nel testo della Nota non vi è traccia. Si parla come se il Concilio non ci fosse mai stato, se non come documenti da citare senza averli capiti e come se si potesse semplicemente continuare ad interessarsi, curialmente, degli “abusi” su forma, materia e ministro. Nessuno ha mai spiegato ai membri della Plenaria, che sembrano gli estensori del testo, che concentrarsi sugli abusi non garantisce affatto di poter recuperare gli usi? Sono tutti loro così ingenui da pensare che la semplice “sanzione contro gli abusi” garantisca la Chiesa di stare salda e fedele negli usi? Si sono mai chiesti che cosa capita quando un battesimo, perfettamente privo di abusi, del tutto regolare quanto a necessità, possa durare 30 secondi, senza lasciare alcuna traccia di sé né nel bambino né nella chiesa che lo circonda? Si sono mai chiesti se le quantità richieste di parole e di autorità corrispondono ad una goccia d’acqua, a un cotone inumidito di olio, ad una veste bianca ridotta a bavaglino e ad una candela accesa con l’accendino?

Una fedeltà ecclesiale, che demonizza la creatività su formula e materia, e non vede la domanda di creatività sul resto del linguaggio verbale e su tutti i linguaggi non verbali appare decisamente immorale. Questo lo grideremo dai tetti finché leggeremo documenti così vuoti e che applicano, direi alla perfezione, quel volto “meschino” della Chiesa che Amoris Laetitia fotografa perfettamente al n. 303. E’ meschino pensare di salvare la tradizione sul piano delle “formule” e della “materie”. Senza tener conto che le formule evolvono e che negli ultimi 100 anni abbiamo conosciuto un cambiamento sia della formula della eucaristia, sia della formula della ordinazione, sia della formula del matrimonio. Quando si ha la memoria corta si fanno diventare grandi le cose piccole e piccole le cose grandi. Questa è la prima immoralità su cui dobbiamo lavorare.

2. Come se la questione fosse il “delitto contro il sacramento”

Il secondo aspetto è interpretare il Dicastero come un “tribunale speciale”. Che lotta contro gli abusi e lo fa mediante la comminazione di “sanzioni”. Ci sono, però, abusi e abusi. E sappiamo bene che il Dicastero ha competenze importanti, appunto come un Tribunale speciale, sugli abusi per i quali c’è maggiore attenzione da parte della opinioni pubblica ed ecclesiale. Qui, però, si parla di “abusi contro i sacramenti”. Che è una espressione abbastanza curiosa e sulla quale dovremmo riflettere. Ma un minimo di esperienza dovrebbe consigliare di impostare le questioni, sollevate da fatti recenti, in un modo meno formale e anche meno artificioso. Se accadono comportamenti irregolari, che minano in profondità la autenticità delle pratiche sacramentali (e di questo non c’è ragione di dubitare) la risposta ufficiale deve tener conto non solo della entità del problema, ma anche della gestione delle conseguenze. In altri termini, occorre ri-pensare la descrizione della fattispecie del “reato” e la forma concreta e articolata della “sanzione”. Su questo piano, mi pare, si resta in una condizione pre-moderna sia nel modo di pensare la azione (con le formalità astratte di “formula”, “materia” e “ministro”) sia nel modo di pensare la sanzione, dove i livelli di reazione riguardano o la “invalidità” dell’atto o la “qualifica” del soggetto ministeriale. I soggetti dei sacramenti – che da 60 anni concorrono alla celebrazione – sono trattati come meri “sudditi”, che patiscono le conseguenze degli abusi dei ministri. Focalizzare l’atto soltanto sulle parole formali dette dall’unico ministro sulla materia è la prospettiva limitata e immorale con cui si pensa di affrontare e risolvere il problema. Questa è la seconda immoralità.

3, Come se la “perdita di potere” si trasformasse in un “potere assoluto”

Il documento insiste, dall’inizio alla fine, con un “luogo comune” che negli ultimi decenni è stato usato fino alla nausea. Ossia che il Dicastero, proprio per evitare che qualcuno possa “manipolare” il sacramento, deve essere inflessibile sui suoi profili “oggettivi”: ossia sulla formula, sulla materia e sul ministro. In questo modo tutto questo intervento disciplinare vorrebbe farci credere che è soltanto al servizio della “ars celebrandi” (espressione che si usa del tutto fuori contesto e con una dose notevole di spudoratezza), addirittura per la maturazione di una visione equilibrata del sacramento. In realtà, irrigidendo il sacramento nel suo profilo formale-oggettivo, se ne snatura la realtà, trattandolo come se si trattasse di un “negozio giuridico”. La perdita di potere, che ogni sacramento dovrebbe realizzare, si affida soltanto alla “letteralità della formula e della materia”, trascurando totalmente tutto il resto del linguaggio verbale e tutti i linguaggi non verbali. Come può la Nota non notare che, con questo modo di parlare, fa credere, erroneamente, che il sacramento consista essenzialmente nella ripetizione di una formula sulla materia da parte del ministro? Come può non notare che questo “potere” non si può più descrivere in questo modo feudale?

Forse gioverebbe ai membri del Dicastero soffermarsi sulle vicende che i sacramenti hanno incontrato nell’ultimo secolo. Due grandi teologi come Guardini e Jungmann hanno parlato di “forma fondamentale” per comprendere l’eucaristia, e i nostri signori cardinali si trastullano con le questioni intorno alla “formula”? Siamo sicuri che la “formula” tradotta dal latino nelle lingue parlate, sia ancora la stessa formula? Siamo sicuri che nel matrimonio la formula sia davvero la espressione del consenso e non sia in rapporto con la preghiera di benedizione? Siamo sicuri che la “formula di assoluzione” possa scavalcare la mancanza di materia nella assenza di atti dei penitente? Questi sono i veri problemi. Dedicare una lunga Nota ad una questione secondaria e non parlare per nulla delle questioni più importanti mi pare immorale. Posso dirlo? Ormai l’ho detto. Dove ci sono comportamenti illeciti, si deve provvedere. Ma la impalcatura sistematica e il tenore linguistico con cui si provvede, più che un rimedio all’abuso, a me pare un abuso peggiore. A meno che non vogliamo suggerire che la Lettera al Prefetto di papa Francesco, con le belle prospettive che apre, sia ritenuta uno di quei “problemi” che le burocrazie sanno sempre come risolvere: lasciandola invecchiare nel fondo di un cassetto, come ogni altra “difficoltà” finirà per risolversi da sé.

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