La tentazione della “societas inaequalis” e la sfida sinodale.


“…v’ho detto ch’era umile,

non già che fosse un portento d’umiltà.

N’aveva quanta ne bisognava per mettersi

al di sotto di quella buona gente,

ma non per istar loro in pari

A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 38

La chiesa ha vissuto per molti secoli nella convinzione che la “disuguaglianza” rispondesse all’ordine voluto da Dio, al punto da identificare con Dio la differenza stessa e da percepire che la negazione della diseguaglianza fosse negazione di Dio stesso. La nuova società, originata dalle rivoluzioni industriali e politiche, ha fatto della eguaglianza e della libertà il proprio principio, almeno sul piano formale. Questo ha proiettato immediatamente una luce negativa sulla difesa della autorità e della disuguaglianza, che caratterizzava il mondo precedente e al suo interno anche la chiesa. In questo scontro avveniva però un passaggio complesso, che con Ch. Taylor possiamo chiamare trasformazione paradigmatica dalla “società dell’onore”, basata sulla differenza, alla “società della dignità”, basata sulla eguaglianza.

a) Magari sotto, ma non alla pari

Un testimone che ha vissuto diremmo “in diretta” questo passaggio, e che lo ha fatto con tutta la partecipazione e la passione possibile, è stato Alessandro Manzoni. Il suo grande romanzo è una riflessione profonda e accorata su questo “passaggio tra mondi”. Con il vantaggio di un distanziamento costruito con la finzione letteraria, Manzoni delinea il disagio prodotto dalla “società dell’onore” di fronte al sorgere dei primi segni di una “società della dignità”. Proprio alla fine delle peripezie del romanzo incontriamo la descrizione del nuovo “potente”, il Marchese, subentrato a Don Rodrigo, del quale Manzoni tratteggia una caratteristica saliente:

“v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari”. (cap 38)

Questa impossibile “parità”, sottolineata da Manzoni tra il 1825 e il 1847, ancora 60 anni dopo era una preoccupazione centrale per la Chiesa cattolica, che avvertiva la necessità di affermare la propria identità come “societas inaequalis”, fondata sulla differenza di Dio, che doveva riprodursi nella differenza tra la guida dei chierici e la obbedienza dei laici.

b) La capanna dello zio Tom e il “diritto divino” sugli schiavi

In singolare consonanza con questa passione per la “disuguaglianza”, ancora nel 1853, su “La civiltà cattolica”, apparve una recensione ad un libro che rischiava di essere “messo all’indice” in quegli anni, La capanna dello zio Tom(“La schiavitù in America e la Capanna dello zio Tom”, La Civiltà Cattolica, 1853, IV, 2, 2, 481-499), dove si leggono una serie di pesanti considerazioni a proposito della “servitudine”. Il libro, pur essendo giudicato “non cattivo”, sollecitava questi giudizi terribili:

“Lo schiavo negro o di altra tinta che non sia bianco è, come il mancipio presso i pagani, strettamente non persona ma cosa, benché (si capisce) cosa viva e semovente… una razza, diciamo, che, collocata nell’infimo grado dell’umana specie, nella carnagione nera da disgradarne l’ebano, nel crine lanoso e velluto, nella faccia schiacciata e stranamente ottusa, nell’occhio che, quando non è stupido, o è feroce o ti rivela un’astuzia volpina, nelle facoltà intellettuali lente, circoscritte, inertissime… Così in essi la condizione di schiavi pare venuta a confermare ciò che avea disposto la natura; e la ripugnanza che le altre razze trovano ad avvicinarlesi sembra condannarli ad un eterno servaggio. Or vede ognuno che somiglianti differenze non si tolgono via cogli articoli dei codici. Sia in uno Stato della Confederazione ammessa o no legalmente la schiavitù, sarà sempre vero che un Bianco non si assiderà in eterno alla stessa mensa con un uom di colore, non vorrà con essolui entrare nel medesimo cocchio od avere comune il banco, non che nel teatro, ma fino nel tempio…”. La societas inaequalis non faceva sconti!

Allo stesso modo, un’istruzione della Congregazione per il Sant’Uffizio di tredici anni dopo (1866), stabiliva quanto segue:

“Nonostante che i Pontefici Romani non abbiano nulla lasciato di intentato per abolire la schiavitù presso tutte le genti, e a questo si debba principalmente il fatto che già da diversi secoli non si trovino più schiavi presso molti popoli cristiani, tuttavia […] la schiavitù, di per sé, non ripugna affatto né al diritto naturale né al diritto divino, e possono esserci molti giusti motivi di essa, secondo l’opinione di provati teologi e interpreti dei sacri canoni. Infatti, il possesso del padrone sullo schiavo, non è altro che il diritto di disporre in perpetuo dell’opera del servo, per le proprie comodità, le quali è giusto che un uomo fornisca ad un altro uomo. Ne consegue che non ripugna al diritto naturale né al diritto divino che il servo sia venduto, comprato, donato. Pertanto i cristiani… possono lecitamente comprare schiavi, o darli in pagamento di debiti o riceverli in dono, ogni volta che siano moralmente certi che quei servi non siano né stati sottratti al loro legittimo padrone né trascinati ingiustamente in schiavitù… perché non è lecito comprare, senza il permesso del proprietario, la roba altrui, sottratta con il furto”.

c) La salvezza dalla “societas inaequalis”?

Pio X la afferma ancora nel 1906 (Vehementer nos), ma anche oggi molti fedeli sono convinti che la chiesa cattolica possa esistere solo come “societas inaequalis”. Tuttavia la chiesa cattolica, quando si è interpretata come società inaequalis, ha creduto di salvare la differenza di Dio mediante la salvaguardia di due differenze strutturali per la società dell’onore: quella tra chierici e laici e quella tra maschi e femmine. È interessante notare che sulle soglie della ordinazione, ossia tra la acquisizione di autorità e la condizione di obbedienza, stavano, per la tradizione, una serie di impedimenti, che impedivano al soggetto di accedere alla autorità. Ma se alla incapacità, alla schiavitù, all’omicidio, alla condizione di figlio naturale o di disabile vi era rimedio o emancipazione, di fronte al sesso femminile no. La societas inaequalis vive di due differenze incontestabili: quella tra maschio e femmina e quella tra laici e chierici. La prima è considerata “naturale”, mentre la seconda è “istituzionale”.

La resistenza su queste differenze non è terminata con la fine della societas inaequalis, col superamento della schiavitù e della società classista. Non è un caso che il progetto di riscoperta di una dimensione “sinodale” della Chiesa cozzi proprio contro queste due resistenze strutturali: da un lato la differenza tra chierici e laici, e dall’altro quella tra maschi e femmine. Il progresso in una chiesa, che condivida in modo più strutturale una compartecipazione al governo della Chiesa, implica una profonda revisione delle due opposizioni che hanno caratterizzato teologicamente almeno l’ultimo millennio. Questa non è affatto una impresa semplice. Perché da un lato i “laici” sono caratterizzati precisamente per il fatto di “non avere la autorità dei chierici”; e dall’altro le “donne” sono caratterizzate per il fatto di “non avere la autorità dei maschi”. Se lasciamo in piedi questa duplice differenza “ontologica”, ogni parola sul Sinodo risulta mera retorica e chiacchiera senza frutto.

d) Servizio e fraternità nella società della dignità

Una duplice curiosa conseguenza discende da questo presupposto: da un lato la pretesa che, per comprendere e giustificare queste differenze, non si ragioni in termini di autorità o potere, ma in termini di “servizio”. Dall’altro che la riscoperta, urgentissima, della fraternità, possa in qualche modo contestare la libertà e la eguaglianza. Esaminiamo brevemente questo duplice e istruttivo paradosso.

– Da un lato la sostituzione del “servizio” al “potere” non risolve molto, né nel modo di pensare la differenza tra laici e chierici, né nel modo di concepire la differenza tra uomini e donne. L’esercizio della autorità nel servizio è una discriminante che esclude ancor oggi, di fatto, una gran parte di soggetti dalle decisioni ecclesiali. In ordine a questa prospettiva dire autorità, potere, ministero o servizio cambia poco.

– Non dobbiamo dimenticare che la “fraternità” ha potuto integrare in senso positivo la ingiustizia prodotta dalla illibertà e dalla diseguaglianza. Non è sorprendente che un mondo che ha scoperto la universale dignità e libertà di tutti gli uomini e di tutte le donne, abbia per un certo tempo messo come tra parentesi la logica fraterna. Sebbene questa, come Fratelli tutti denuncia apertamente, sia una illusione, si deve riconoscere che la fraternità nella società della dignità non è più una valvola di scarico per le ingiustizie prodotte dalle differenze, ma deve trovare nuove ragioni e nuovi ideali perché la società non cada nella indifferenza.

Tra le maggiori sfide che il cammino sinodale ci chiede di affrontare c’è proprio quella di un superamento convinto e non ideologico della struttura “di onore” della ecclesia, per scoprire come, nella “società della dignità”, sia possibile riconoscere la grandezza della libertà e della eguaglianza di tutti gli uomini e le donne, guadagnando una nuova evidenza dell’essere “fratelli e sorelle”, non come il correttivo delle ingiustizie sociali, ma come la fonte più autentica, e umanamente meno rischiosa, dell’essere liberi grazie alla diversità e dell’essere uguali grazie alla differenza. Come il marchese successore di Don Rodrigo, poter star sopra o poter star sotto, ma mai alla pari: questa resta una questione decisiva anche per l’autointerpretazione che la Chiesa dà di sé e per superare la pretesa e/o presunzione di potersi identificare come “societas inaequalis”.

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