La penitenza e la Pasqua: piccola storia di luci e di ombre


Confessione donna (stampa Ottocento)

E’ noto che almeno a Pasqua molti cattolici sentono il dovere e provano anche il gusto di confessarsi. Una storia molto lunga associa la Pasqua alla Penitenza, ben prima della formulazione dell’obbligo universale di confessione pasquale, sancito dal Concilio Lateranense IV (1215). Ma proprio la associazione della penitenza alla Pasqua, legata ai catecumeni prima che ai penitenti, ci permette oggi di interrogare la tradizione con quella parrhesia di cui la tradizione stessa ha bisogno costitutivo.

I dati dai quali dobbiamo partire sono tre:

a) Il perdono del peccato è la grande esperienza che si realizza, in ogni uomo e in ogni donna, nel rapporto con Cristo, che battesimo, cresima ed eucaristia realizzano in modo efficace. Grazie a questo percorso di introduzione nel “corpo di Cristo” ogni uomo e ogni donna viene giustificato e salvato, nella fede, nella speranza e nella carità.

b) Mentre la eucaristia è per la ripetizione (annuale, settimanale o quotidiana) il battesimo e la cresima non si ripetono. Questo è un dato evidente e assai antico.

c) Se il cristiano, che ha già gustato la pienezza della giustificazione, cade in un peccato grave, trova la possibilità di recuperare la pienezza della comunione, mediante un procedimento penitenziale che ha assunto, a partire dal VI-VII secolo, la figura del sacramento che oggi conosciamo. Ma si deve ricordare che “penitenza” non indica solo il sacramento, ma anche la virtù, che il cristiano vive in base al suo battesimo.

Queste tre grandi verità esigono alcuni chiarimenti, perché non prevarichino una sull’altra. In particolare credo che debba essere approfondita la natura particolare e “differente” del IV sacramento, rispetto ai primi tre. Per evitare quello che è oggi il rischio maggiore: ossia la riduzione del sacramento della penitenza alla “ripetizione del battesimo”, ad un battesimo che si ripete.

Proprio su questo aspetto occorre fissare una serie di principi, che sfuggono alla percezione comune e talora anche alla pratica pastorale:

1. Il perdono, che in Cristo riceviamo una volta per tutte nel battesimo e che ci porta alla vita di comunione eucaristica, può entrare in crisi per i nostri comportamenti, che diventano esperienze amare di peccato e alterano il nostro rapporto con Dio, con il prossimo e con noi stessi.

2. Il dono gratuito, che abbiamo già sperimentato nella vita di comunione, può rinnovarsi ancora, ma solo a certe condizioni, che la tradizione ha identificato negli “atti del penitente”, ossia nella risposta del cuore, della bocca e del corpo del peccatore.

3. La differenza tra il battesimo e il sacramento della penitenza sta proprio in questa necessaria e libera risposta che il peccatore è chiamato a compiere nel sacramento del perdono. Nel battesimo vi è una esperienza della grazia operante, mentre nella sacramento della penitenza vi è, allo stesso tempo, grazia operante e grazia cooperante, azione di Dio e azione dell’uomo, come qualificanti il sacramento.

4. Perciò una riduzione del sacramento della penitenza a “ricevere il perdono” (ossia alla grazia operante) costituisce un problema, perché tende ad annullare ogni differenza tra battesimo e penitenza. Di fatto rischia di trasformare il IV sacramento nella ripetizione del primo. Ma questa è una via chiusa, fin dalle origini della Chiesa.

I quattro punti qui ricordati rimandano, come è evidente, ad una questione delicatissima, che non è semplicemente teologica (ossia la definizione sistematica del sacramento della confessione) ma pastorale. Se noi pensiamo che il sacramento della penitenza consista semplicemente nella “assoluzione di chi si è confessato”, cadiamo in un errore che viene facilitato dalla “formalizzazione” degli atti del penitente. Quanto più il “dolore per il peccato”, la “verbalizzazione del peccato” e il “lavoro di cambiamento di sé” vengono ridotti, sterilizzati e stilizzati, tanto maggiore diventa il problema della giustificazione teologica del sacramento. Se il dolore del peccato diventa “recitare l’atto di dolore”; se la confessione della colpa diventa “elenco dei soliti peccati”; se le opere penitenziali si limitano a “dieci avemarie”, di fatto il coinvolgimento laborioso del soggetto, che il sacramento richiede nella sua essenza, si svuota di ogni rilevanza (non solo antropologica, ma teologica!).

Sullo sfondo vi è la questione profonda, e che chiede molta cura, di identificare le “differenze” tra i sacramenti. In particolare le differenze tra sacramenti della iniziazione e tutti gli altri. Per capire questa differenza dobbiamo rileggere bene due testi della tradizione:

a) Il terzo canone di condanna del Concilio di Trento sui “sacramenti in genere” dice apertamente che è incompatibile con la comunione cattolica sostenere che tutti i sacramenti siano “della stessa dignità”, così salvaguardando la differenza della iniziazione cristiana da tutto il resto della esperienza sacramentale.

b) La norma del Laternanense IV, che prescrive non la celebrazione frettolosa del sacramento della penitenza il sabato santo per comunicarsi la Domenica di Pasqua, ma lo spazio di un cammino di penitenza in vista della pienezza della comunione eucaristica pasquale.

Se dimentichiamo il punto a) e riduciamo a norma positiva il punto b) rischiamo di svuotare la tradizione e di perdere la differenza tra sacramento della penitenza e sacramento del battesimo. Il “precetto pasquale” ha in sé, nella forma più intensa, questo rischio. Per questo il “modo” con cui si propone il processo penitenziale corrisponde alla verità di ciò che si presenta come atto di recupero di una iniziazione alla fede, che è il vero luogo di esperienza del perdono, del fare penitenza e del lavoro su di sé, senza i quali il sacramento della penitenza, secondo le classiche definizioni che la tradizione ne ha dato, rischia di ridursi soltanto ad un  flatus vocis.

Una accurata trasformazione della “puntualità dell’atto di assoluzione”, che si ripete in sé sempre uguale, alla “processualità di un percorso” che prende forma oltre se stesso nella relazione tra perdono e risposta, è il compito primario della teologia e della pastorale, per uscire da una visione burocratica e formalistica del sacramento della crisi e della guarigione.

Detto in una parola: il sacramento della penitenza non può né durare pochi minuti, né chiudersi all’interno del confessionale (e queste sono due delle caratteristiche classiche del “precetto pasquale” degli ultimi secoli). Il tempo opportuno e il luogo adeguato sono i simboli impegnativi di una grande opportunità e di un vero disagio: una accurata revisione dei tempi e dei luoghi è il primo passo per un recupero della grande tradizione penitenziale, della quale ha bisogno la vita degli uomini e delle donne, purché non si riduca alla garanzia astratta di una “macchina di assoluzioni formali”.

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