La coesistenza impossibile: una parola chiara del Cardinal Kurt Koch sull’unica forma del rito romano


Summorum

Anche il Card. Koch, come attesta l’agenzia di stampa dei vescovi tedeschi, ha riconosciuto finalmente la “questione sistematica” che molti teologi hanno sottoscritto in una “lettera aperta” del 27 marzo scorso, che auspicava il “superamento dello stato di eccezione liturgica”. Tanto più importante appare la chiara dichiarazione del Cardinal Koch, se viene confrontata con le diverse opinioni che lo stesso cardinale, 9 anni fa, aveva espresso in un Convegno romano, nel quale aveva sostenuto che Summorum Pontificum poteva “diventare un ponte ecumenico veramente solido soltanto se esso venisse innanzitutto percepito e recepito come una speranza per tutta la Chiesa”. Ma quale speranza di unità può venire alla Chiesa da una teoria della “duplice forma parallela” dello stesso rito romano? Questa domanda, che riposa su una questione davvero vitale per la chiesa, 9 anni dopo riceve una considerazione alquanto diversa. Ciò che prima sembrava una acquisizione tutto sommato positiva, ora appare, anche agli occhi del Card. Koch, come una minaccia.  Poiché la centralità della esperienza eucaristica non può sopportare che al suo interno si dia un “conflitto fra forme diverse”. Così è necessario uscire da questa condizione innaturale e ritornare quanto prima ad una “unica forma” del rito romano. Lo stato di eccezione, che il Motu Proprio aveva introdotto nel 2007, non ha più ragion d’essere. “Al posto di due forme diverse, occorre tornare ad una forma unica, come sintesi”.

Mi sembra importante che un nuovo segnale di disagio di fronte a Summorum Pontificum giunga con chiarezza proprio dai palazzi vaticani. Non solo è in corso una indagine presso tutti i vescovi, sull’impatto ecclesiale, liturgico e spirituale di SP, voluta direttamente da Papa Francesco. Ma anche un capo dicastero dice esplicitamente che questa forzatura, che ha condotto ad una “coesistenza conflittuale” tra due forme diverse dello stesso rito romano, deve essere apertamente riconosciuta come una “non-soluzione”.

Chiediamoci, dunque: dove sta il punto cardine della debolezza di questa “non soluzione”? Riepiloghiamone i punti essenziali:

a) Papa Giovanni XXIII, nel 1960, valutando il da farsi, aveva esitato: doveva dar corso alle riforme che Pio XII aveva già preparato, oppure doveva aspettare lo svolgersi del Concilio, che aveva già convocato? Decise di procedere alla revisione del Messale tridentino, in forma provvisoria. Il Concilio avrebbe fissato gli “altiora principia” sulla base dei quali si sarebbe fatta la riforma. E così nacque il testo provvisorio del Messale del 1962.

b) Il Concilio, esplicitamente,  ai numeri 47-58 di Sacrosanctum Concilium, fissa le linee fondamentali della riforma dell’Ordo Missae, che verrà realizzato e approvato nel 1969. E chiede, per questo, di modificare profondamente, di integrare largamente, di implementare e arricchire strutturalmente il rito del 1962.

c) Paolo VI, all’entrata in vigore nel Novus Ordo ribadisce quello che il suo predecessore e il Concilio avevano detto. Il nuovo testo sostituisce il precedente, a causa dei limiti rituali, teologici, pastorali e spirituali del testo precedente.

d) Nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, Benedetto XVI cerca di favorire la “riconciliazione” nella Chiesa e concede un più largo uso del “messale del 1962″, costruendo una ipotesi sistematicamente assai discutibile e argomentata con il sofisma della “covigenza” di un rito ordinario e di un rito straordinario. Come disse Camillo Ruini, alla uscita di SP: “speriamo che un gesto di riconciliazione non diventi un principio di divisione”.

e) In questi 13 anni la presenza del “rito straordinario”, con la sua equivoca ufficialità, ha dato forza a tutte le forme di chiesa “anticonciliare”. Non era nelle intenzioni di Benedetto XVI, ma è stato negli effetti. Questo rito “antico” ha coagulato intorno a sé volti della reazione ecclesiale e civile, passatisti di varia stoffa, aristocratici decaduti, snob rampanti e anche qualche soggetto poco equilibrato. Nel frattempo, la Commissione Ecclesia Dei conduceva trattative di accordo con i lefebvriani in cui non si capiva mai da quale parte del tavolo ci fossero i veri nemici del Concilio Vaticano II. Di amici, se ne vedevano sempre pochi.

f) Da ultimo, la Commissione, avendone combinate di troppo grosse, è stata soppressa. Ma forse si è semplicemente trasferita all’interno della Congregazione per la Dottrina della Fede?

Poniamo ora la questione vera, che non è di carattere liturgico, o giuridico, ma sistematico. Sul piano della teologia sistematica tutta questa operazione è una mistificazione senza possibilità di scampo. Dire che sono vigenti contemporaneamente due riti, di cui il secondo è nato per correggere, emendare e rinnovare il primo, è un sofisma che fin dall’inizio ha alterato le competenze liturgiche nella Chiesa cattolica. Ma è un sofisma sistematico che non riesce a convincere e che soprattutto non funziona. Tanto che, dal 2007, non solo i Vescovi delle diocesi non possono sovrintendere alla liturgia nella loro diocesi, ma ora è chiaro che anche la Congregazione del Culto non può esercitare il discernimento in materia liturgica, perché una “liturgia straordinaria” viene controllata e modificata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.

Di questa condizione distorta e profondamente deviante, che deve essere modificata con urgenza, ora parla apertamente anche il Card. Koch, che è Prefetto del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani: questa è una buona notizia che non resterà priva di effetti.

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