Sintonia tra magistero pastorale e magistero magistrale: sotto esame lo “stato di eccezione liturgica” di “Summorum Pontificum”


Summorum

Una notizia è apparsa ieri pomeriggio su agenzie statunitensi, e presto si è diffusa in tutti gli ambienti ecclesiali. Si riferiva ad una “indagine” intorno alla applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, chiesta direttamente da papa Francesco, e realizzata subito mediante un Questionario, destinato a tutti i Vescovi e accompagnato da una lettera della Congregazione per la dottrina della fede. Nel documento si pongono ai Vescovi di tutto il mondo nove questioni intorno agli effetti della “forma straordinaria” nella vita delle diocesi.  Appare così confermata, anche se maturata per via totalmente autonoma, la preoccupazione sollevata da 180 teologi, studiosi e studenti, in seguito alla presentazione a fine marzo dei Decreti di riforma del Messale del 1962. In sostanza, il dato rilevante, e per certi versi sorprendente, è che una comune preoccupazione caratterizza il vertice e la base della Chiesa cattolica. Dopo 13 anni, Summorum Pontificum non solo non ha affatto ottenuto il risultato di pacificazione con i lefebvriani che si era ripromesso, ma in compenso ha causato lacerazioni, divisioni, ha incoraggiato separazioni e conflitti interni alla Chiesa. Fino a diventare, apertis verbis et factis, un supporto identitario esplicito ad ogni opposizione contro la riforma della Chiesa, contro i segni dei tempi, contro lo stesso papa Francesco.

Mi sembra importante ricordare le tappe di questa presa di coscienza ecclesiale. Vi è stata una “maturazione teologica” che nel corso di questi anni ha mostrato le gravi lacune teologiche, canoniche, ecclesiologiche, liturgiche e spirituali che la soluzione proposta da SP aveva posto alla esperienza ecclesiale. Ma è stata proprio la “pandemia” e lo “stato di eccezione civile” ad aver aperto gli occhi di molti, con una urgenza quasi irresistibile, su questo “stato di eccezione liturgica” che nella Chiesa si protrae ormai da 13 anni e con esiti sempre più preoccupanti. Vorrei ricordare una serie di interventi, che hanno animato il dibattito nelle ultime settimane: anzitutto la “Lettera aperta sullo “stato di eccezione liturgica”, che è stata firmata da 180 nomi qualificati, con alcuni tra i più noti teologi e liturgisti italiani, francesi, tedeschi, svizzeri, americani, brasiliani, spagnoli, Ma poi questa lettera, oggetto di discussione e di un primo dibattito, è diventata una petizione pubblica, che ha già raccolto più di 400 firme. Alla lettera ha risposto, seccato e polemico, Markus Graulich, Sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, cui ho risposto punto per punto. E già a questo punto un primo dato appare evidente, come risulta anche da dialoghi e scambi con colleghi: il MP Summorum Pontificum è privo di fondata giustificazione teologica. La teoria che vorrebbe dare ragione di “due diverse forme” dello stesso rito non regge ad un esame serio. Di questo si sono resi conto non solo teologi, sotto diverse angolature, ma anche canonisti come Pierluigi Consorti, Pierre Vignon e Umberto Del Giudice, o filosofi, come Andrea Ponso. Ma ora si scopre che, in forma del tutto autonoma, come attesta la data della lettera della Congregazione (7 marzo 2020), anche la Curia romana, su iniziativa di Papa Francesco, ha messo in moto un tempo di riflessione e consultazione episcopale, che durerà fino al 31 luglio, data ultima di consegna dei “questionari” distribuiti in questi giorni nelle curie di tutto il mondo. Ma esaminiamo anzitutto il questionario.

Le domande del questionario

Consideriamo le domande del questionario, cui faremo seguire una breve considerazione di carattere teologico:

1. Qual è la situazione all’interno della Sua diocesi riguardo la forma straordinaria del Rito Romano?
2. Se vi è celebrata la forma straordinaria, ciò è dovuto a una necessità pastorale reale o è promosso dall’iniziativa di un singolo sacerdote?
3. Secondo Lei, esistono aspetti positivi o negativi dell’uso della forma straordinaria?
4. Le norme e le condizioni del Summorum Pontificum sono rispettate?
5. Ritiene che all’interno della Sua diocesi la forma ordinaria abbia adottato elementi della forma straordinaria?
6. Per la celebrazione della Messa, Lei usa il Messale promulgato da Papa Giovanni XXIII nel 1962?
7. Oltre alla celebrazione della Messa nella forma straordinaria, vengono fatte altre celebrazioni (per esempio il Battesimo, la Confermazione, il Matrimonio, la Penitenza, l’Unzione degli Infermi, l’Ordinazione, l’Ufficio Divino, il Triduo Pasquale, i riti funerari) seguendo libri liturgici anteriori al Concilio Vaticano II?
8. Il motu proprio Summorum Pontificum ha influenzato la vita dei seminari (il seminario della diocesi) e di altri istituti di formazione?
9. Tredici anni dopo il motu proprio Summorum Pontificum, qual è il Suo giudizio sulla forma straordinaria del Rito Romano?

La logica zoppa di SP e le sue lacune teologiche, ecclesiologiche e liturgiche

Le domande del questionario sono chiare e non generiche. Saranno i Vescovi a rispondere, secondo le loro competenze territoriali e pastorali. Qui vorrei solo mettere in luce alcuni aspetti di questa “normativa eccezionale” che vorrebbe pretendere di passare per “normale”. Si tratta in realtà della introduzione nella Chiesa di uno “stato di eccezione liturgica” che sottrae ai vescovi la autorità liturgica somma. Lo stato di eccezione deve finire, almeno per 4 motivi:

a) L’autorità del Concilio Vaticano II: il presupposto negato

Uno dei “cortocircuiti” di Summorum Pontificum è la ambigua relazione con il Concilio Vaticano II. Va detto che il problema non è solo, come vedremo, nell’uso del testo, ma nel testo in quanto tale. Poiché di fatto esso consente una prassi, e lo fa a livello universale, che contraddice una esplicita domanda del Concilio Vaticano II (in particolare di SC) quando ha non solo prospettato, ma preteso la riforma del rito romano. Se un Concilio domanda una riforma, e un Motu Proprio, dopo 40 anni, rimette in vigore quell’Ordo che il Concilio ha chiesto di cambiare, la contraddizione è “in re”. Ma c’è di più. SP, che conosce il proprio difetto, chiede perciò a chi vuole far uso della “forma straordinaria” di affermare formalmente la sua non opposizione e la sua fedeltà alla forma ordinaria. Curiosamente, proprio quando si è diffusa la notizia del questionario inviato ai Vescovi dalla Congregazione, una delle prime reazioni di un sito che è “portavoce” dei nostalgici ha scritto: “Una nuova minaccia incombe su quanti amano la liturgia tradizionale col rischio che si vedano costretti ad accettare tutto l’impianto dottrinale, liturgico e disciplinare del Vaticano II, che a quella liturgia è palesemente alieno”. Il punto è proprio questo: “accettare l’impianto dottrinale del Vaticano II” sarebbe il presupposto per poter usare della forma “straordinaria”. In realtà, come è evidente, la “forma straordinaria” è diventata, fin dal 2007, la trincea di resistenza al Concilio Vaticano II. Questo è semplicemente incompatibile con la comunione ecclesiale e deve essere superato.

b) La inconsistenza teologica e giuridica della teoria delle “due forme dello stesso rito romano”

Il secondo punto “maggiore” di contestazione della logica di SP è il suo “impianto teologico” che è contraddittorio e privo di fondamento. La teoria secondo cui il “rito romano” – come lex orandi della Chiesa cattolica ed espressione della sua lex credendi – si presenterebbe in due forme (ordinaria e straordinaria) che esprimerebbero la medesima fede, è un dispositivo teorico che permette (e promette) di configurare lo spazio potenziale di una grande riconciliazione, ma lo fa al prezzo troppo alto di una totale astrazione, senza radice nella realtà e nella storia. Essa, infatti, astrae dalla storia complessa e controversa, che ha generato, dopo una “forma straordinaria” del rito romano (1570-1962), una “forma ordinaria” (1969). Questa successione non è avvenuta per un “gioco di società” o “come in una scoperta geografica”, ma per una urgenza pastorale inaggirabile. La astrazione, che si paga a caro prezzo, è l’ oblio pesante e sordo che in tal modo viene fatto calare sulle ragioni che hanno portato da una forma all’altra. Perché non si tratta di due forme che, autonomamente siano sviluppate, una a Milano e l’altra a Roma, una in Italia e l’altra in Ispagna, una per tutti e l’altra solo per i domenicani, per i francescani o per i gesuiti. No, è lo stesso medesimo rito romano che da una forma precedente è stato autorevolemente riformato, per la volontà di più di 2000 vescovi, nella forma successiva. Anche la terminologia della aggettivazione – ordinario/straordinario – contribuisce ad alimentare questo rischioso oblio sulla storia. Si dimentica che la “diversità” del rito straordinario è la ragione che ha fatto sorgere quel processo che ha prodotto, dopo anni di accurata elaborazione, il rito ordinario. Sistematicamente, dunque, la distinzione tra le due “forme” è il tentativo di traduzione sincronica di una storia di mutamento urgente e qualificante, nel quale un Concilio ecumenico ha giocato il futuro della Chiesa. Di questa storia non si può tacere la realtà, ma anche i passaggi traumatici e necessari.

c) La Riforma liturgica negata

Il rito del 1962 è l’ultima versione del rito tridentino, ed è il frutto di una piccola e provvisoria riforma compiuta da Giovanni XXIII a partire dal 1960. Giovanni XXIII si era limitato a pochi fondamentali interventi, proprio perché sapeva che di lì a poco si sarebbe tenuto un grande Concilio, che lui stesso aveva già convocato, e che tale Concilio avrebbe stabilito gli “altiora principia”, in base ai quali si sarebbe proceduti ad una grande riforma del rito romano. Che fu effettivamente compiuta negli 8 anni successivi, mediante l’iter di elaborazione dei nuovi riti. Se si analizza serenamente questa storia, si capisce immediatamente che la logica di questo processo non può approdare in nessun caso a “due forme dello stesso rito”, bensì “allo stesso rito in una (sola) forma nuova”. Perciò, proprio sul piano sistematico, risulta del tutto fuorviante parlare di “due forme dello stesso rito”. E sorprende che anche teologi competenti siano rimasti così passivi di fronte ad una formula tanto debole. Bisogna parlare, piuttosto, dello stesso rito che passa da una forma inadeguata (giudicata tale esplicitamente dal Concilio Vaticano II) ad una forma adeguata. Chi mai potrebbe credere che la Chiesa abbia celebrato un Concilio ecumenico, abbia istruito commissioni, abbia elaborato documenti, stilato e approvato nuovi ordines, solo per poi teorizzare che alla nuova forma adeguata il singolo prete e anche comunità, a certe condizioni, avrebbero potuto sempre sostituire la forma inadeguata? Le parole giuste, per descrivere le due forme sul piano storico, sono: è lo stesso rito romano, prima nella forma inadeguata e che poi viene riformata nella forma adeguata. Qualsiasi teorizzazione di un possibile parallelismo tra forma inadeguata e forma adeguata deve far dimenticare questa genealogia e tenta di mettere sullo stesso piano ciò che non può stare sullo stesso piano. Come se leggessimo la biografia di una persona come un “accumulo” di forme, e non come un “passaggio” tra forme. L’espressione “forme diverse dello stesso rito” acquisisce il suo giusto significato solo sul piano storico, ma diventa un sofisma vuoto se si pretende di assumerla sul piano sincronico. Al centro di Summorum Pontificum vi è, dal punto di vista sistematico, un sofisma astratto, senza fondamento storico e senza praticabilità effettiva. Esso poteva essere giustificato, come lo è stato, come tentativo di favorire una profezia di comunione contro le logiche di uno scisma. Ma si è rivelato, invece, fallimentare, a causa di questa sua debolezza sistematica originaria, dalla quale non ha mai potuto emanciparsi.

d) Desiderio di pace e lacerazione ecclesiologica e pastorale

Proprio nel cuore di SP la ragione sistematica, che regge tutta la impalcatura disciplinare del testo, appare singolarmente debole. Una astrazione, che ha voluto essere profezia di comunione, si dimostra, a causa di questa sua originaria astrattezza, come un motivo di divisione e di lacerazione ecclesiale. Una analisi accurata a livello sistematico esibisce le ragioni che impongono la fuoriuscita da questo dispositivo di emergenza, che non risponde più – e forse non ha mai risposto – alle esigenze per cui è stato creato. Bisogna riconoscere che il Card. Ruini, nel giorno successivo a quello in cui SP fu pubblicato, apparve facile profeta quando scrisse, sull’Avvenire dell’8 luglio 2007, che bisognava evitare “il rischio che un Motu Proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla”. A distanza di 13 anni, questo timore può diventare parola chiara dei teologi e azione risoluta degli ufficiali. Mettiamo fine a questo stato di eccezione che genera illusione e divisione. Mediante un rigoroso ripensamento della tradizione, che non si lasci depistare da concetti ambigui e da visione astratte, la Chiesa può finalmente dire a se stessa: “Fa’ la cosa giusta”. E può farla subito, uscendo da discipline giuridiche aberranti e da sintesi sistematiche astratte. Ora, su questo processo complesso e profondamente distorto, si è aperta una giusta fase di riesame e di riconsiderazione, ricollocando la questione al suo livello originario: ossia restituendo la parola ai Vescovi, che Summorum Pontificum aveva arbitrariamente fatto tacere.

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