Arte, ‘capacità di inventare il modo di fare facendo’


Un’amica, di ritorno delle vacanze in Sardegna, mi segnala lo struggimento per la nostra perdita del senso della misura, nel dar forma ai luoghi di vita, che ritrova invece, con rinnovata sorpresa ogni anno, nelle chiese dell’isola e negli spazi liberi che le circondano. La scoperta riguarda in particolare le chiese romaniche, ma in qualche caso anche quelle moderne.
Le rispondo che il nostro paese è ricchissimo di luoghi che ancora ci offrono la possibilità di percepire forme armoniose, ben compaginate e insieme ‘non accademiche’, non rispondenti a regole rigide, forme antiche e nuove consonanti con le proporzioni del nostro corpo. Occorre tempo e riposo, armonia con se stessi e con il proprio corpo, per scoprire questi luoghi che troppo spesso l’avida volontà di sfruttare il suolo ingloba in agglomerati non consonanti con essi.
Visitando, in momenti di serenità e calma come quelli delle vacanze, i luoghi che stanno al margine del vortice delle trasformazioni urbane contemporanee, capita dunque di poter accogliere, come un dono inaspettato, una rasserenante distensione psichica e spirituale. Essa consente l’emergere dell’armonia del nostro corpo con i luoghi nei quali ci troviamo. Si percepisce una freschezza eccezionale e normale al contempo, una sapienza elaborata e non pesante, non faticosa, ci si sente accolti, partecipi di una ‘forma’ che non è solo esteriore a noi, è anche interiore, ricca di risonanze intime.
Ci struggiamo allora perché vorremmo non perderne mai la memoria. Temiamo infatti che il ristoro provato non possa divenire fattore esistenziale permanente. Ci pare impossibile la sua stabilità, eppure abbiamo in noi stessi la sua genesi e il suo processo formativo.
Formare è certamente atto artistico, ma innanzi tutto è un atto umano. “Se dovessi dare una rapida definizione del ‘formare’ – ha scritto il filosofo Luigi Pareyson (1918-1991) in Teoria dell’arte. Saggi di estetica – non ne troverei una migliore di questa: formare significa fare, ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare. Si tratta di fare, senza che il modo di fare sia predeterminato e imposto, sì che basti applicarlo per far bene; lo si deve trovare facendo, e solo facendo si può giungere a scoprirlo sì che si tratta, propriamente, di inventarlo”.
Paresyon invita qui a cogliere la dinamica della formatività nel suo libero farsi in ogni processo umano, poiché: “non c’è occupazione umana, per quanto umile, tenue e insignificante, che non richieda, in chi vi attende, arte, e cioè la capacità di inventare il modo di fare facendo, e in nulla si riesce se il modo di fare non si fa inventivo oltre che produttivo, figurativo oltre che esecutivo, immaginativo oltre che realizzatore. Ecco allora l’intera attività umana popolarsi di una molteplicità di arti”.
Per chi accoglie questa lezione, il formare è sviluppo di attitudine assecondata, affermazione di autocoscienza, rischio di libertà, elaborazione di cultura: in sintesi lavoro pienamente umano. Per chi intende esplorare, o perseguire, la dimensione d’arte, nell’architettura come in tutte le altre arti visive, tale formare deve essere, come precisa lo studioso torinese, intenzionale. Allo scopo occorre una strumentazione, una dotazione di competenze e di saperi, ma anche, e persino ancora di più, il coinvolgimento totale di sé, l’impegno dei propri ideali, vale a dire tutta la propria umana positività.
Per chi si occupa di architettura, in particolare, esso chiama in causa la complessità dei fattori personali, sociali, costruttivi, ambientali, che consentono di affrontare la comprensione del problema abitativo in tutti i suoi aspetti, nella ricerca di risposte adeguate. L’architettura è infatti arte ad alto livello di socialità. La bellezza di un luogo è dunque sintesi di tante volontà e, nella maggior parte dei casi, di molti voleri espressi in più fasi storiche. Le costruzioni infatti sono generalmente realizzate per durare per più generazioni.
L’acquisto critico fondamentale, che il richiamo al pensiero di Pareyson ci ha qui consentito, può essere così sintetizzato: per dar luogo a un’educazione alla bellezza e alla cittadinanza attraverso l’architettura, occorre far emergere, nel contesto educativo, la peculiarità formativa, umana e artistica, che ne costituisce la genesi. Lo stesso educare è, nel suo senso pieno, formare. Ciò che ha forma, d’altro canto, educa, se i suoi significati interpellano la mentalità di chi incontra e coinvolge.
L’architettura pertanto non è solo questione di esperti o di tecnici; ci riguarda tutti come uomini. É di essenziale importanza averne coscienza, come uomini e come cittadini, come comunità e come individui. Per questa ragione i momenti di recupero dell’esperienza di consonanza tra sé e un contesto fisico in cui ci si immerge sono essenziali e sono esperienze alle quali tutti hanno diritto.
Sta a noi dunque, ai nostri processi educativi, ai nostri ritmi di vita, anche alle nostre scelte di riposo, recuperare di continuo quella capacità di dar forma che può investire la realtà in cui viviamo, anche quella più sconvolta e traumatizzata. I luoghi dicono chi siamo e cosa vogliamo, davvero impietosamente e in termini di una solidarietà ormai planetaria. Chiedono una corale partecipazione, una condivisione ‘dal basso’.

Perché, d’altro canto, non sperare o non credere che da una comunità di uomini, attenti a dar forma a gesti di positivamente umana vita quotidiana, possano emergere artisti, architetti, ingegneri, amministratori, tecnici, capaci, se partecipi della stessa dinamica collettiva, di dar forma ancora oggi a luoghi vivibili in armonia?

‘Fare inventando il modo di fare’, per riprendere Pareyson, è agire rispondendo a un ‘modo’ cercato, inventato secondo fini precisi, secondo scopi espliciti, è operare immaginando qualcosa che risponde a idee comunicabili e comprensibili, condivise e partecipate.

Si tratta di un lavoro che accomuna l’uomo e l’artista, l’uomo comune e il genio, rendendoli reciprocamente indispensabili.

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