La bellezza è negli occhi di chi guarda


 

Madonna Sistina, di Raffaello Sanzio, inizio XVI sec.

Madonna Sistina, di Raffaello Sanzio, inizio XVI sec.

Mi affascina la lucida denuncia del senso della condizione umana da parte di scrittori vissuti in tempi e in aree del mondo segnate dai più tragici fenomeni sociali del XX secolo: nazismo e stalinismo. Svela qualcosa di essenziale che occorre recuperare nella nostra vita, persino nell’esperienza che abbiamo di un’opera d’arte, qualcosa che tendiamo a seppellire sotto coltri sentimentali, dotte e banali, opprimenti. Invito per questo a leggere due testi di W. Grossman: Madonna Sistina e Il bene sia con voi.

Nel 1955 il governo sovietico restituisce alla Germania la tela di Raffaelo denominata Madonna Sistina, Grossman ha occasione di vederla a Dresda. Esplode in lui una folla di pensieri sorprendenti: “quella tela è immortale” scrive, perché nella maternità e fragilità della ragazza, quasi una bambina, nella grazia e soavità del suo volto, emerge la forza della vita, la sua espressione umana, una forza tutta terrena, atea, come afferma di essere il visitatore.

La donna e il bambino dai gravi occhi tristi, “che vedono il destino”, sono emblema “dell’umano nell’uomo, che ha resistito su tutte le croci sulle quali è stato inchiodato, in tutte le prigioni in cui è stato torturato”. Per questo essi sono immortali, per questo la tela dice quanto è bella e preziosa la vita. Per questo la Madonna “siamo noi”, suo figlio “siamo noi”, volti di tutti coloro che sono passati nel campo nazista di Treblinka o nel gulag sovietico. Per questo insorge in Grossman una terribile domanda: “Terrore, vergogna, dolore: perché ci è toccata una sorte così atroce? Non sarà anche colpa mia, colpa nostra?” È domanda, dice, alla quale solo i morti possono rispondere; ma essi tacciono. L’uomo vivo invece, lancia in lui questa testimonianza del XX secolo al tribunale del passato e del futuro: “… non abbiamo lasciato morire l’umano nell’uomo … Che vivrà in eterno, e vincerà”.

L’affascinante e terribile speranza si Grossman si addolcisce, si conferma anzi nel secondo racconto, splendido resoconto del suo viaggio per lavoro in Armenia nel 1961, omaggio a un popolo testimone di una bontà che non ha ragioni se non nella stessa umanità dell’uomo, popolo martire come molti ebrei e russi del secolo XX.

Nel continuo risorgere degli angusti nazionalismi non può non scrivere: “É davvero ora di riconoscere che siamo tutti fratelli”, “Il carattere nazionale esiste, certo, ma non è il fondamento della natura umana, bensì il suo colore, il modo con cui essa risuona”. Persino la bellezza dell’Armenia, la sua natura imponente, le sue pietre, le sue molte chiese e i molti straordinari monasteri, la nobiltà aristocratica del suo clero, non sono sufficienti a testimoniare l’attualità di un credo umano divino nell’uomo. Grossman, mi pare, cerca Dio ma non in una trascendenza dalla condizione umana dell’uomo; è sua esigenza insopprimibile che Dio sia nell’uomo. Lo trova in un semplice armeno che gli insegna: “Vuoi il bene per te? Auguralo anche agli altri!”, a chiunque altro.. La fede di quest’uomo e della sua famiglia “non esiste al di fuori della vita che conducono, … quella fede si è mescolata al borsc da cucinare, al bucato da lavare, alle fascine di legna raccolte nel bosco!”.

Che sfida in queste parole per la nostra fede, per il nostro ateismo banale di occidentali estetizzanti, che non vedono sfide nella bellezza della Madonna Sistina e non colgono che la luce di un bene per sé che sia bene di tutti! Che sfida per la nostra povera ricerca di bellezza, anch’essa insopprimibile in noi!

 

Il termine bellezza evoca oggi un’esperienza soggettiva collegata a gusto individuale e a matrici culturali che possono accomunare un numero più o meno ampio di persone, a un insieme dunque di fattori di intelligenza e di esercizio dei sensi, a pensiero e sguardo si potrebbe dire di natura intrinsecamente instabile. Ci capita tuttavia di riconoscere bella un’esperienza perché vera, esistenzialmente carica di una verità non contingente. La stessa storia dell’arte ci trascina spesso in questa polarità che implica, non solo un rapporto di autenticità tra esperienza dell’artista e qualità della sua realizzazione, ma anche il nostro riconoscimento, e quindi la nostra condivisione, di qualcosa che in essa si esprime come ‘verità’, ‘realtà’, ‘oggettività’.

Riteniamo abbia significato soggettivo la formula “La bellezza è negli occhi di chi guarda”?

E stata questa la risposta lasciata da un visitatore anonimo all’uscita di un’esposizione del 2014 alla National Gallery di Londra sui maestri del Rinascimento tedesco, per la quale gli organizzatori aveva chiesto: “Che cosa rende bella un’opera d’arte? Cos’è la bellezza? É un concetto assoluto o tende a cambiare a seconda dei contesti e delle sensibilità che mutano nel tempo e variano nello spazio?”[1]. La formula, più volte ripetuta nella storia europea, fu pronunciata per la prima volta da Platone con tutt’altro significato. La bellezza, segnala il filosofo Givone, era infatti per il filosofo greco “cosa dell’anima”, “un’evidenza prima, assoluta, che non ha neppure bisogno di essere definita. Quando c’è, c’è, e come non riconoscerla?” Ma, prosegue Givone, “riconoscerla significa ridestare dal profondo della nostra anima le immagini cariche di verità che di ogni cosa del mondo dicono che cosa essa è veramente”; pertanto “grazie alla bellezza l’uomo partecipa a quello che Platone chiama la ‘generazione dell’eterno’ ” [2].

Ha ragioni da vendere, dunque, Grossman: la Madonna Sistina è immortale se vista con lo guardo semplice di chi crede nell’uomo.


[1]A. Scafi, Chissà se la bellezza esiste. La provocazione di una mostra alla National Gallery, in: “L’Osservatore romano”, mercoledì 2 luglio 2014, p. 44.  Si fa riferimento alla esposizione Strange Beauty: Masters of the German Renaissance.

[2]S. Givone, La grande avventura dell’anima, in: “Vita e pensiero”, n. 6, nov.-dic. 2014, p. 28.

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