Sogno, coscienza e istituzione. Quale ecumenismo per l’eucaristia?


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Nella ripresa del dibattito intorno alla cosiddetta “intercomunione” – ossia la possibilità di una ospitalità eucaristica riconosciuta tra cattolici e luterani – occorre mettere a fuoco una serie di punti delicati, intorno ai quali si gioca la plausibilità e la difficoltà di uno sviluppo significativo. Non entro direttamente nella discussione che sembra intrecciarsi tra episcopato tedesco e Congregazione per la Dottrina della fede, ma mi limito a mettere in luce alcuni “limiti sistematici” che sembrano affliggere, contemporaneamente, l’una e l’altra parte.

1. Premessa sulla “pace ecumenica”

L’ecumenismo è un modo di ritrovare la pace. La pace si “fa” e si “riceve”. Nella pace non c’è solo l’ottimismo della volontà, ma anche il riconoscimento del dono. Se la differenza dell’altro posso scoprirla non solo come un problema, ma come una opportunità, comprendo che è possibile una “comunione nella differenza”. Ma questi passaggi non sono facili, perché ogni identità, quando èmaturata da un lungo conflitto, prova un bisogno invincibile di “mantenere il conflitto” per essere se stessa. Come si fa ad essere cattolici senza essere antiluterani? E come si fa ad essere luterani senza essere anticattolici? Il conflitto, una volta che si è istituzionalizzato, permette ai sogni e alle coscienze di muoversi, ma tende a bloccare le istituzioni, che “scandalizzano” non appena fanno un piccolo passo in avanti. E lo scandalo non riposa solo su “mentalità”, ma su “vite”, su “tragedie”, su “lutti”. E così anche la forza delle tradizioni ecclesiali e familiari tende a “tener duro”, anche solo per onorare la memoria dei nonni o del bisnonno! Ma il sogno del desiderio e la coscienza della giustizia sa che questo “dividersi nel battesimo” è un male, che deve essere superato. I sogni e le coscienze hanno una loro immediatezza che nessuna istituzione può anticipare. Ma da soli non ce la fanno. Guai se non ci sono. Ma guai se confidiamo solo in essi.

2. Premessa sulle mediazioni istituzionali

Si deve aggiungere un secondo punto in premessa. La tradizione cattolica e quella luterana si distinguono su diversi aspetti, ma uno di questi, analizzato con particolare larghezza e profondità, è il “ruolo delle mediazioni”. Non vi è dubbio, infatti, che nella tradizione cattolica la rilevanza della mediazione istituzionale costituisca una peculiarità alla quale difficilmente si potrebbe rinunciare. Guai se lo facessimo anche in questo caso. Ma occorre chiedersi, con molta franchezza, se proprio questa “passione istituzionale cattolica” non si sia un poco avvizzita e irrigidita, non sapendo elaborare la tradizione in modo pienamente efficace. Nella questione che stiamo esaminando – ossia la possibilità che la “comunione eucaristica” diventi, almeno parzialmente, condivisa tra soggetti di confessioni diverse – il nostro ragionamento, sia in positivo sia in negativo, mi sembra che rifletta sulla tradizione con strumenti concettuali troppo scarni e con figure istituzionali troppo povere. Se l’accesso alla eucaristia è garantito, istituzionalmente, solo da “dottrine coerenti” e da “uffici affidabili”, forse questo significa che non riusciamo ancora a comprendere che è l’eucaristia, come tale, l’elemento istituzionale primo. Se la Chiesa “vive” dell’eucaristia, ciò significa che la cena del Signore e la celebrazione eucaristica è un “primum” rispetto ai suoi contenuti dottrinali e alle sue funzioni ministeriali. Qui, evidentemente, utilizziamo nella discussione, strumenti giuridici e istituzionali che non sono del tutto all’altezza della questione e che finiscono con il ridurla ad una dimensione troppo bassa, che la sfigura. C’è stato un arcivescovo che ha proposto di “dare la comunione al luterano” solo dopo avergli chiesto, magari nella processione eucaristica, di fare l’atto di fede sul “primato del Vescovo di Roma”. Senza arrivare a queste forme caricaturali, qui si paga lo scotto di uno “sguardo distorto”. Recuperare uno “sguardo corretto” – ossia guardare l’altro non anzitutto come “soggetto di errore da emendare”, ma come “soggetto di differenza da valorizzare” – esige non solo di “sognare” e di “esaminare la coscienza”, ma di elaborare nuovi strumenti istituzionali. Perché se vuoi svitare una vite, non puoi usare il martello.

3. In caso di morte e in caso di vita.

E’ del tutto inevitabile che, se si ragiona in modo istituzionale, si entri in relazione con la normativa vigente. E al suo interno, con la tecnica della interpretazione e della ermeneutica, è possibile trovare i “varchi” per poter elaborare strategie nuove. Ed è tipico delle istituzioni di “iniziare” da questi varchi. Ma in alcuni casi è la qualità del “varco” a risultare problematica. Infatti la argomentazione che autorizzerebbe una “comunione eucaristica” all’interno di una famiglia “mista” ragiona solo secondo lo”stato di necessità”, come se si trattasse di un “caso di morte”. Qui attingiamo ad una tradizione istituzionale troppo esile. Che non risulta aggiornata da due fondamentali acquisizioni, maturate nel corso del XX secolo e che non sono presenti, inevitabilmente, alla “mens” del codice, la cui struttura è stata elaborata nel 1917, anche se poi emendata nel 1983, ma in modo non così profondo. Che cosa manca alla “coscienza istituzionale cattolica” per affrontare efficacemente la questione della intercomunione? Provo a dirlo rapidamente in due punti:

a) L’eucaristia è una “istituzione centrale” della vita ecclesiale. Per questo “partecipare alla celebrazione” è più che semplicemente “fare o ricevere la comunione”. Vivere la dinamica eucaristica non è semplicemente “avere diritto (o possibilità) di ricevere il sacramento”

b) La famiglia non è semplice “recettore di comunione”, ma luogo di elaborazione e di messa alla prova della comunione. La famiglia è “soggetto” e “chiesa domestica”, anche quando è “mista”. Per questo può essere profezia di comunione ecclesiale: una famiglia mista annuncia una profezia di comunione ecclesiale. E’ una anticipazione della comunione eucaristica che la comunità forse può, o forse deve “riconoscere”.

Se lo sguardo che considera la questione non è arricchito da queste acquisizioni istituzionali, gira a vuoto, crea irrealtà e “casi limite” pensando la realtà solo “in negativo”. Non è solo la “salus animarum” il confine della istituzione, ma anche la “vita corporum”. Vi sono elementi delle “forme di vita” che costituiscono una profezia istituzionale, con una loro corposa e sensibile esteriorità, che esige forme nuove di riconoscimento.

4. L’eucaristia non solo come premio, ma come farmaco, anche sul piano ecumenico

Per valutare questo mutamento di “sguardo” – che è ben presente nella trama del pensiero magisteriale ed ecclesiale degli ultimi decenni – provo ad offrirne una “narrazione” forse inconsueta, ma credo pertinente. Fin da Pio X si è intuito che l’eucaristia era non solo “culto privato”, ma “istituzione ecclesiale”. Per questo aveva senso, allora, ai primi del 900, scommettere sulla “comunione frequente”, nella consapevolezza che “comunione eucaristica” non dovesse essere “premio semel in anno”, ma “farmaco quotidiano”. Una Chiesa che offre per secoli la comunione alla maggioranza dei fedeli “solo a Pasqua” e che decide che gli stessi fedeli possono comunicarsi non una volta, ma 365 volte l’anno, sta facendo una piccola rivoluzione, che riguarda il valore istituzionale della eucaristia e la relazione tra eucaristia e chiesa. Uno degli ultimi effetti di questo grande ripensamento, più di un secolo dopo, ma quasi con le stesse parole, è stata la “apertura eucaristica ai divorziati risposati” maturata in Amoris Laetitia. Una conseguenza ulteriore potrebbe essere la “ricaduta ecumenica” della consapevolezza che “la chiesa vive dell’eucaristia”.

Tuttavia non è difficile cogliere come la forza di questa logica istituzionale della eucaristia sia facilmente argomentata con il ricorso alla “coscienza” (e al foro interno). Questo costituisce sicuramente un apertura del sistema, ma offre una soluzione che di fatto resta priva di profilo istituzionale.

La forza istituzionale dell’eucaristia non si lascia chiudere soltanto nei “sogni” o nelle “coscienze”. Esige il riconoscimento di esteriorità di bene, per quanto imbarazzanti. Finché la Chiesa non trova il coraggio di un “riconoscimento istituzionale” – della comunione dei divorziati risposati o delle famiglie confessionalmente “miste” – resta in mezzo al guado. Per farlo, tuttavia, deve elaborare categorie nuove. Non può farlo soltanto sottoponendo a nuova pressione le categorie vecchie (ad es. della nullità del vincolo o del “caso di morte”). Metodologicamente a questa via lunga non c’è alternativa.

5. La breccia di porta Pia e “I have a dream”

In qualche modo questa difficoltà “istituzionale” discende dall’irrigidimento che, sul piano istituzionale, giuridico e amministrativo, la Chiesa cattolica ha comprensibilmente subito dalla “breccia di Porta Pia”. La risposta istituzionale più alta a quel trauma – il Codice del 1917 – ha sperato di poter “blindare” la Chiesa in un codice “universale e astratto”. Una idea ipermoderna – proprio l’idea di legge universale astratta – ha fatto da supporto ad una operazione istituzionale grandiosa, ma dai piedi di argilla. Perdendo la secolare “duttilità istituzionale”, la Chiesa cattolica ha rischiato di impiccarsi ad un modello rigido, identificandosi con le forme ottocentesche di reazione alla modernità. Anche la gestione delle questioni ecumeniche rischia di risentire di questa riduzione della “istituzione” alla sua norma generale e astratta. Guai se pensassimo con queste categorie troppo rozze la comunione eucaristia, il culmine e la fonte della nostra identità, che è “il fine”, ma anche “la fine” di tutte le nostre brave normative: eucaristia non è anzitutto un “bene da amministrare”, ma un “bene che ci amministra”. Ora, rispetto al “sistema” la coscienza che discerne e l’inconscio che sogna ci fa respirare, ma non cambia il sistema.

Non è un caso che, anche su questo tema delicato della intercomunione, una delle espressioni più giustamente famose di papa Francesco, abbia fatto riferimento alla “coscienza dei coniugi” come “summa lex”. Questo è già molto, non basta. Dobbiamo dare “forma istituzionale” a questo “primato eucaristico” che non è solo “intimior intimo meo”, ma anche “exterior extremo meo”. La cura per la potenza istituzionale dell’eucaristia significa “arrendersi alle nuove evidenze”. Alla evidenza per cui una coppia di “divorziati risposati” vive una vera comunione familiare ed ecclesiale. Alla evidenza per cui una coppia di coniugi appartenenti a confessioni cristiane diverse vive la comunione familiare ed ecclesiale in modo esemplare. Le forme di vita anticipano il cammino ecclesiale. Per questo sono “istituzioni” da riconoscere.

Il sogno ecclesiale e le nuove evidenze della coscienza attendono la faticosa traduzione istituzionale, aperta, chiara, riconoscente. Il reverendo King, che “aveva un sogno”, ha preparato la crescita civile degli USA e si chiamava Martin Luther. Il padre gesuita Bergoglio, che ha sognato la famiglia, la Amazzonia e la terra secondo un ordine più giusto, prepara la Chiesa a forme istituzionali e giuridiche nuove, ed è Vescovo di Roma e Papa.

L’eucaristia istituisce nuove forme di comunione. La teologia può interpretarle solo assumendo un nuovo sguardo. Ma noi guardiamo solo ciò che sappiamo nominare e pensare in modo adeguato. Questa distanza e prossimità tra sguardo, parola e pensiero è lo spazio nel quale al magistero dei pastori la tradizione affianca il magistero dei teologi. La istituzione eucaristica ha bisogno di entrambi, perché nulla della sua incontenibile profezia vada perduto o sia sfigurato.

 

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