La recezione di “Amoris Laetitia” (/8): I dubbi dei 4 cardinali, come Bacci e Ottaviani nel 1969


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In un bilancio di più ampio respiro, a fine anno, una riflessione intorno alla lettera con cui 4 cardinali sollevano dubbi su AL non può non cogliere una sorprendente analogia con quanto accaduto quasi 50 anni fa, dopo la chiusura del Concilio Vaticano II e la elaborazione del nuovo Ordo Missae. Oggi i 4 cardinali, come allora 2 cardinali (Bacci e Ottaviani), cadono nella stessa trappola di un grave fraintendimento, che capovolge il senso della dottrina ecclesiale.

Vorrei provare ad offrirne un rapido parallelo, spero utile alla coscienza comune:

a) un paralogismo di fondo: AL e il Vaticano II come “cause” e non come “effetti”

Tra le forme più evidenti di errore dobbiamo anzitutto considerare il “giochetto” di confondere la causa con l’effetto. Come hanno fatto allora Bacci e Ottaviani, e come alla loro scuola hanno ripetono da decenni Messori e Bux, De Mattei e Langone, ora anche i 4 cardinali capovolgono cause ed effetti. Allora e oggi si diceva: prima del Vaticano II c’era una chiara esperienza ecclesiale della messa e del prete, mentre con il Concilio ha rovinato tutto questo e lo ha compromesso gravemente; prima di AL c’era una chiara dottrina sulla famiglia, dopo AL c’è dubbio e confusione…

Qui troviamo in atto un errore storico e un pregiudizio ideologico. Il Concilio 50 anni fa e il Sinodo negli ultimi tre anni hanno affrontato una situazione che viveva da decenni una profonda crisi, della Chiesa e della famiglia. La crisi è stata la causa e non l’effetto: Concilio e Sinodo sono effetti di una crisi, non cause di una crisi. Può permettersi di capovolgere causa ed effetto sono chi vive senza alcun rapporto con la realtà, immerso in una gelosa autoreferenzialità. Concilio e Sinodo rispondono a questioni preesistenti. Possono diventare non risposte, ma “problemi”, solo per chi ignora tali questioni preesistenti.

Per questo è singolare notare la somiglianza tra i dubbi di Bacci e Ottaviani nel 1969 e quelli di Burke e Caffarra nel 2016. Le passioni tristi di questi cardinali dimenticano che il loro oggetto di dubbio è la risposta a condizioni ecclesiali e familiari che da decenni sollevavano dubbi reali, questioni profonde e disagi inaggirabili. I “dubia” presuppongono una evidenza aproblematica che esiste solo come “pregiudizio”. E idealizzano un passato che non è mai esistito. Come ha detto papa Francesco, anche in AL, in ogni idealizzazione si nasconde una aggressione. E il dubbio diventa aggressivo: non verso il papa, ma verso la realtà.

b) la incapacità di valorizzare i percorsi conciliari e sinodali

Il secondo punto di vicinanza singolare tra lo stile cardinalizio di oggi e quello di 50 anni fa sta nella indifferenza – e nella insofferenza – verso gli stili conciliari e sinodali. Un Concilio e un Sinodo non sono considerati in alcun modo come luoghi autorevoli. Il principio di autorità, che anima le parole e i gesti anche clamorosi dei cardinali di oggi assomiglia alla mancanza di riconoscimento che Ottaviani e Bacci riservarno, nel 1969, al lungo e accurato lavoro conciliare e post-conciliare sulla liturgia eucaristica. Assemblee plenarie, commissioni, confronti, dibattiti, mediazioni: tutto viene ridotto al “sì” o “no” alla tradizione, irrigidito in una logica quasi referendaria. La “fedeltà alla tradizione” diventa così tradizionalismo quando risulta ormai incapace dell’arte del tradurre, al servizio di nuove esperienza di culto e di famiglia. Questo dobbiamo riconoscere come un errore tipicamente tardo-moderno. Se si dice – in modo forzato e caricaturale – che esiste solo la “messa di sempre” e la “famiglia di sempre”, ci si trova immediatamente al di fuori della lunga e articolata tradizione ecclesiale, che ha assicurato, con mille mediazioni, uno “sviluppo” della tradizione eucaristica e familiare, fatta di tante piccole e grandi traduzioni, tra culture diverse, tra lingue diverse, tra teorie diverse, al fine di assicurare alla Chiesa la autorità di poter parlare ancora agli uomini di questo nostro tempo.

c) la negazione “antimodernistica” della autorità ecclesiale

In terzo punto in comune tra antiche e recenti esitazioni dubbiose sta nella matrice “antimodernistica” della lettura proposta dai cardinali: ogni novità viene percepita e vissuta come scacco, smentita, perdita di evidenza e arretramento della tradizione cristiana. Qui tocchiamo un punto particolarmente delicato: esso tiene insieme due aspetti che di solito pensiamo non solo separati, ma opposti. Ossia la “lotta al modernismo” e la “negazione della autorità”. Nella lettera del 1969 e in quella del 2016 appare invece chiaramente la pretesa verso uno “stile magisteriale” in cui, al fine di combattere le “scivolate modernistiche” si arriva a paralizzare totalmente la autorità della Chiesa. A loro avviso, per essere autorevoli si può solo ripetere il passato. In questo modo, la “fedeltà alla tradizione” viene identificata con la immodificabilità dei dettagli disciplinari ricevuti dalla prassi recente. Perciò l’altare verso oriente nella celebrazione eucaristica o la definizione del matrimonio del codice del 1917 diventano “articuli stantis aut cadentis ecclesiae”. I cardinali, di allora come di oggi, sono talmente spaventati dalla evoluzione della tradizione che sono disposti a negare la autorità della Chiesa – del papa, del Concilio o del Sinodo – pur di restare attaccati alle loro tranquillizzanti abitudini, teoriche e pratiche.

I veri dubbi che queste “buone abitudini” sollevano da decenni nel popolo di Dio agli orecchi dei cardinali non hanno parola, mentre essi danno voce col megafono soltanto alle difficoltà certo sinceramente avvertite, ma da uomini di chiesa irrigiditi nelle loro pratiche autoreferenziali. Una scrivania bene ordinata – o una pratica bene protocollata – vengono confuse con la obbedienza alla volontà di Dio. Il nuovo anno, che sarà anche l’anno anniversario del primo Codice di Diritto Canonico nella storia della Chiesa, dovrà indurci a riflettere su queste analogie, per liberarci dai fantasmi del passato. Come ha detto Francesco, facendo gli auguri alla Curia romana il 22 dicembre scorso, occorre che la Curia romana sia caratterizzata da “modernità (aggiornamento), ossia dalla capacità di leggere e di ascoltare i segni dei tempi”. Proprio questo sembra mancare nelle lettere cardinalizie del 1969 e del 2016. Solo con la speranza di questa attenta lettura dei segni del nostro tempo potremo evitare quella presunzione e quella disperazione, che sono precisamente i due vizi opposti: vizi proprio perché di speranza non hanno più alcun bisogno.

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