Il bisogno urgente di contesti di salvezza. Perché non possiamo rinunciare alla mediazione liturgica. (di Mauro Festi)


Assemblea-liturgica

La “emergenza” non è solo la risposta ad un problema sanitario, ma anche la occasione perché possa emergere, a tutto tondo, la nostra difficoltà a riconoscere che la liturgia è mediazione originaria del rapporto tra Cristo e la sua Chiesa. In questo testo Mauro Festi pone la questione della inadeguatezza delle risposte per ora avanzate di fronte al “divieto di assembramenti”. La medicina ha saputo adeguarsi alla emergenza, la Chiesa no. Che ne è dunque della liturgia come “linguaggio comune”? (ag)

 

Il bisogno urgente di contesti di salvezza.

Perché non possiamo rinunciare alla mediazione liturgica.

di Mauro Festi

«Dicono che in questo tempo non possiamo incontrarci tutti. Tolleriamo i contatti familiari, ma anche questi li viviamo a una certa distanza. Avvertiamo la sofferenza di questa distanza, della “posizione innaturale” da assumere. E poiché questa sofferenza ci raggiunge in modo acuto, strappandoci di mano le sicurezze su cui ci siamo basati fino ad ora, non riusciamo del tutto a reggerla, e allora cerchiamo di aggirarla. Immaginando che la vita stia nell’evitarla, invece che nel provare a lasciarci afferrare da quel grido che emerge al cuore di questa sofferenza che non può essere messa a tacere».

Questa frase, profondamente vera in questo nostro oggi così duro, potrebbe essere pronunciata sensatamente anche a riguardo della presente mancanza di celebrazioni liturgiche partecipate. La risposta che è stata data fino ad ora alla situazione di emergenza ha relegato la liturgia ai suoi “contatti familiari”, rischiando di mediare un orizzonte simbolico di profonda gravità, come se fosse ancora possibile immaginarla dominio dei ministri ordinati, come se potessimo immaginare che il Signore convochi solo alcuni, come se la sporgenza che questi alcuni garantiscono nella celebrazione non sia esattamente perché chi ne partecipa ne faccia esperienza. Abbiamo enfatizzato per secoli la dimensione oggettiva della celebrazione liturgica, il suo essere dono di grazia, senza essere, in fondo, riusciti a recuperare la consapevolezza che essa è tale, dono di grazia, soltanto se è anche mediazione capace di ripresentarti all’evento di salvezza, rendendoti in grado di percepire che il Signore Dio ti sta chiamando a sé per immergerti nella sua salvezza. Questa esperienza non la può fare il ministro ordinato da solo, e non possono farla i fedeli da soli. Al cuore di questa frattura c’è un grido acutissimo, una sofferenza inconscia di chi, da un giorno all’altro, si trova a non poter più accedere ai “luoghi” certi e comuni dell’esperienza di salvezza.

L’assenza di celebrazioni partecipate: un grido profondamente umano

Questo grido, pochi sanno ascoltarlo, e ancor meno interpretarlo.

Non poter celebrare non è semplicemente un problema di ordine giuridico: a chi spetta questa decisione, o chi deve sottomettersi a chi? Non è neanche soltanto un problema di ordine etico: sono consapevole che compiendo o non compiendo l’azione celebrativa, agisco sulla realtà, e ne sono responsabile? Non è neanche solamente un problema ecclesiologico: possiamo risolverlo facendo celebrare alcuni per tutti? È certamente tutto questo. Ma è molto di più. Celebrare o non celebrare è anzitutto un problema antropologico: se io, uomo-donna, non riesco mai da solo ad attingere al principio della mia vita, al suo fondamento, se non è nelle mie mani né il suo inizio, né la sua fine, e in un tempo di fragilità come questo ne ho la percezione certa, come posso fare esperienza di non essere abbandonato alla morte? Di non venire dal nulla e non sparire nel nulla? Come posso avere la speranza certa che la morte non è né la prima né l’ultima parola sulla vita, e sulla mia vita? Perché di questo, oggi, abbiamo bisogno più che mai. Ne abbiamo bisogno sempre. Ma oggi il nervo è scoperto, la morte incombe, e il suo odore acro e nauseante ci raggiunge. Non ci raggiunge, però, la speranza di alcuna unzione preziosa e profumata. Abbiamo bisogno di elaborare la morte, sempre. Oggi ne abbiamo bisogno di più. E da quando l’uomo è uomo, forse anche prima, conosce la forza delle azioni rituali e dei linguaggi simbolici per permettere alla morte di non schiacciarlo, e per ospitare questa speranza nella forma di un Volto promettente e affidabile, che proprio lì si rivela e ci afferra.

 Rito ritualistico e interiorità immediata: l’inadeguatezza delle risposte

La risposta più diffusa, tra quelle più sensate, cioè tra quelle che non si limitano a proporre l’assistenza via schermo ad una celebrazione priva del necessario, fa appello alla meditazione della Parola, e ad una revisione di vita mediante l’esame di coscienza. Pratiche importantissime per la vita ordinaria del cristiano. Ma in contesto straordinario, come quello attuale, emerge urgente il problema, segnalato dal costante ricorso, a sostegno dell’esortazione, alla vacuità di riti che non toccano la vita.

Per cogliere quanto una simile affermazione sia problematica, faccio un parallelo azzardato, ma che mi sembra pertinente. È possibile invocare l’interiorità e l’immediatezza della relazione con Dio nella Parola solo a partire da un atteggiamento analogo a chi può scegliere di disobbedire alle norme sanitarie. Mi spiego. Non lo sai, non sei consapevole che puoi fare questi pensieri e puoi compiere questi gesti solo perché, in realtà, hai esperienza dell’esistenza di contesti vitali che te lo consentono. Tu sai che quel testo scritto è Parola di Dio perché da quando sei cristiano lo hai ricevuto nella forma della celebrazione e della testimonianza, sai che davanti a te c’è un Tu, perché da un tu ecclesiale l’hai ricevuto, e sempre lo ricevi ogni volta che celebri, e lì sai di essere dentro ad un contesto che ha la forza di trasformare la realtà. Garantendoti di essere nelle mani di un Dio che salva. Così come puoi disobbedire alle norme sanitarie, perché hai esperienza certa del contesto pubblico che si chiama Servizio sanitario nazionale, e si chiama cultura italiana profondamente solidale e umanistica, che è disposta a indebitarsi pur di non abbandonare alla morte i singoli che compongono la propria collettività, i “fratelli d’Italia”.

 L’importanza dei contesti vitali per l’esperienza di salvezza

Nel grido che emerge al cuore di questa frattura abbiamo l’occasione straordinaria di cogliere che senza i nostri contesti vitali noi non possiamo vivere. Ma se viviamo la sospensione della liturgia con risposte inadeguate, compiamo l’atto più pericoloso con cui possiamo servire non la Chiesa, ma il suo disperdersi, se è vero che la Chiesa non solo si manifesta nella liturgia, ma anche è realizzata come tale partecipandovi. Rispondere all’impossibilità di celebrare spostando tutto il peso sul piano dell’interiorità, e motivando la sensatezza e la opportunità di questo spostamento con una interpretazione ritualista dei riti è un’azione analoga, mutatis mutandis, all’impedire al personale sanitario di compiere i loro atti per custodire la nostra vita. Mi spiego. Il ritualismo è la perversione del rito, come l’esercizio della professione sanitaria per la morte invece che per la vita è quanto un medico sa di non dover e non poter fare, la perversione della professione sanitaria, che pure può accadere. Ma è una possibilità, che non ne motiva la denigrazione tout court, né ci induce ad abbandonare questo contesto vitale, solo perché in alcune sue forme ha realmente manifestato problematicità, anche gravi. La medicina, come forma mediata di cura per la vita, mostra in questo tempo di avere profonde analogie con la liturgia, forma mediata altra di cura per la vita. Ora, il contesto vitale “medicina” è stato in grado in questo tempo di rielaborare e riconfigurare i suoi luoghi, i suoi tempi, le sue persone, le sue energie, le sue priorità, i suoi atti, le sue emozioni, le sue visioni, per continuare ad essere mediazione di vita. La Chiesa non è riuscita a fare questo con il suo contesto vitale “liturgia”. Che pertanto, oggi, non è messa nelle condizioni di mediare altrimenti la cura della vita, cioè di garantire la percezione certa di essere non solo nelle mani degli uomini, ma ancora più radicalmente nelle mani di Dio, e di un Dio dal volto affidabile. Di questo, anche di questo, si muore. Oppure si risorge, scegliendo di cogliere questa occasione, dura come la morte, per muovere a tentoni qualche piccolo passo possibile in quella strada maestra che non abbiamo ancora avuto seriamente il coraggio di percorrere, che si chiama adattamento della liturgia alla realtà delle comunità celebranti. Che oggi sono le famiglie chiuse in casa. Possiamo farlo, però, solo se scegliamo di ridare credito alla mediazione rituale.

 Prepariamo la Pasqua

È davvero possibile che non ci sia un minimo di celebrabilità realizzabile nelle nostre case, e che questo minimo realizzabile non valga lo sforzo di ripensare i nostri tempi, luoghi, persone, energie, visioni, atti…per poter fare Pasqua? La probabilità che la “clausura” continui è alta, e forse vale la pena prepararsi all’idea di una Pasqua non comunitaria, ma familiare e domestica. E questo passaggio va promosso, accompagnato, preparato. Se in un contesto così carico di morte non celebriamo la vita, consegniamo alla Chiesa del dopo pandemia l’eredità gravissima dell’avvallamento dell’irrilevanza della liturgia per la fede e per la vita della Chiesa. E consegniamo alla Chiesa della pandemia in corso di dover lottare nudi e soli contro la morte. Non perché tali, perché certamente Dio non resta a guardare. Ma perché noi in misura ridottissima potremo farne esperienza.

La tradizione ebraico-cristiana ci insegna che la Scrittura ha bisogno di contesti vitali per diventare Parola. Il sacrificio, i luoghi, i ministri possono cambiare nelle loro forme, ma per essere efficace il testo deve farsi racconto, in un contesto di comunità, con gesti simbolici e rituali. Nuda, la Scrittura resiste, perché sa di poter essere facilmente manipolabile, in senso ideologico, moralistico, in fondo idolatrico. Ho bisogno di una alterità perché la Scrittura si faccia per me Voce e quindi Parola, e ho bisogno di un contesto in cui l’esperienza di questa alterità si dia nella percezione di una vicinanza senza possesso, libera perché liberata da ogni presa.

Abbiamo dalla nostra parte la storia e la tradizione di una Pasqua che nasce domestica per Israele e ri-nasce domestica per il nuovo Israele che è la Chiesa. Può rinascere domestica, allora, anche oggi, per essere per noi mediazione di salvezza.

Occorre elaborare, e occorre farlo ora, le condizioni piccole, ma reali e concrete, di celebrabilità della Pasqua nelle nostre case, unico contesto vitale ecclesiale che possiamo realmente abitare in questo momento. Certamente la complessità dell’azione liturgica ci mette a dura prova, e non apre alla possibilità di pensare a soluzioni uguali per tutti. I contesti domestici sono profondamente diversi, e quindi diversamente in grado di ospitare azioni rituali e processi simbolici. Ma possiamo almeno provare a dirci la logica con cui tentare di pensare il possibile, il paradigma di azione liturgica dentro il quale collocare i nostri tentativi. Poter celebrare la Pasqua vale questo processo inedito ma non estraneo, creativo e al tempo stesso tradizionale. Facciamolo insieme.

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