I timori di A.M. Valli e gli ideali di un cattolicesimo semplificato
Con bella sincerità, A.M.Valli ha scritto le sue perplessità sulle “aperture” di papa Francesco (cfr. http://www.aldomariavalli.it/2016/05/28/la-chiesa-e-la-logica-del-ma-anche/) fotografandole, sostanzialmente, come un pericoloso “cedimento alle logiche mondane”. Senza volerlo, in tal modo, Valli sembra schierarsi – sia pure con molta circospezione e con il beneficio del dubbio – con coloro che preferiscono una Chiesa autoreferenziale rispetto ad una Chiesa in uscita. Se esce, la Chiesa, rischia di infilarsi dritta dritta nella tana del lupo…mentre se si chiude a doppia mandata…
Credo che nelle parole di Valli si esprimano, con dignità e con equilibrio, alcuni pregiudizi storici della Chiesa cattolica di XIX e XX secolo. Dobbiamo considerarli e rispondere ad essi con altrettanta onestà e chiarezza, se ne siamo capaci.
Cerco di concentrare la mia attenzione sul cuore della argomentazione di Valli, che rileva giustamente il passaggio da una logica dell'”aut-aut” ad una logica del “et-et”, che tuttavia, a suo avviso, rischia di essere compresa come logica del “no, ma anche sì”. Mentre l’et-et salvaguarderebbe la complessità, integrando il nuovo, la logica del “sì, ma anche no” relativizzerebbe tutto, banalizzando tutto.
Qui, a me pare, si colloca il punto pregiudiziale del ragionamento di Valli. Siccome l’et-et può degenerare nel “sì, ma anche no”, allora, parrebbe cosa migliore restare nella “fortezza” dell’aut-aut. Qui sta il punto debole del ragionamento, in cui la inerzia della nostalgia e della presunzione, dalla quale tutti noi veniamo negli ultimi 30 anni, rischia di fatto di produrre una alleanza della paura e di creare una barriera difensiva alla accettazione della complessità.
Già il Vaticano II aveva indicato, con assoluta chiarezza, che quella via – che potremmo dire dell’antimodernismo – era ormai definitivamente preclusa. Far valere un “oggettivo” opposto al “soggettivo” non ha alcun futuro. Illude solo chi non ci crede. Non lo abbiamo ancora imparato, 50 anni dopo? Ci siamo lasciati persuadere dalle tattiche e strategie di immunizzazione dalla complessità, messe in campo negli ultimi 30 anni? Qui mi pare che Valli, di cui ammiro sinceramente la franchezza, resti vittima di un modello nostalgico e premoderno di Chiesa, che non affascina solo lui. evidentemente, ma dal quale mi era sembrato prendere le distanze, in diverse occasioni.
E’ ovvio che le letture di questa “novità” – che non è modernismo al posto dell’antimodernismo, ma è un altro modo di affrontare la questione – possano essere del tutto distorte e che il “mondo” se le cucini a modo suo. Ma questo dovrebbe forse farci esitare? Ci mette forse a disagio una lettura riduttiva della profezia? Se il Padre esce ad accogliere il figlio minore, siamo proprio costretti ad associare tutti allo scandalo del figlio maggiore? Ci sentiamo imbarazzati da un papa che prende sul serio il “soggetto”? Siamo proprio condannati ad avere schemi mentali che leggono il soggetto come soggettivismo, la libertà come liberalismo e il moderno come modernismo? Siamo ancora vittime di questi paradigmi elaborati più di un secolo fa e che già 80 anni fa erano in crisi?
Se il pontificato di Francesco, da più di tre anni, ha preso sul serio la complessità – al punto di chiamarla “meravigliosa complicatezza” – dobbiamo forse temere che questo ci complichi la vita e la testa? Non sarà forse che questa “semplificazione” della tradizione, alla quale ci siamo tanto legati, non corrisponda forse al nostro modo borghese di vivere la fede nel centro della Europa, turbati solo dai migranti all’assalto e dalle offerte speciali dei Superstores? Non sarà, forse, che la vigilanza debba essere esercitata non solo sul “ma anche”, ma sulla continua tentazione di rifugiarci nell’aut-aut dell’immobilismo e della paura? Perché non c’è niente di meglio che rifugiarci, nel nostro mondo eurocentrico, nella coscienza di una fede “totalmente altra”, che ci chiede “tutt’altro” e che affronta la nostra libertà, negandola, quasi violentandola, ma producendo solo fondamentalismo? Ecco, con questa riduzione della profezia al “totalmente altro”, possiamo consolarci con la nostra impotenza e ritagliarci forme di vita del tutto autosufficienti.
La questione sollevata da Valli, pertanto, è fondamentale. Ma non riguarda i “rischi” dello stile pontificale di Francesco, ma anzitutto i rischi di un loro fraintendimento. Francesco ha reintrodotto uno stile autenticamente cattolico dell'”et-et”, riscoprendo il primato del tempo sullo spazio e della realtà sulla idea. Questo non significa affatto rinunciare né alle necessarie radicazioni né alle buone idee, ma pensarle e promuoverle nel contesto di una “società aperta”, senza idealizzare nemmeno questo tipo di società, ma riconoscendola apertamente come segnata, anche pesantemente, dalla “cultura dello scarto”.
Ciò che temo, nel discorso proposto con onestà da Valli, è che possa essere fondato su un equivoco: ossia sulla ipotesi che la Chiesa possa annunciare il Vangelo restando fuori dalla cultura contemporanea e guardandola, diciamo così, da fuori e dall’alto. Questa è la radice di ogni antimodernismo. Senza essere modernista, il Concilio Vaticano II ci ha insegnato a non confidare più in questa “soluzione antimodernista”. Per questo è stato accusato di “modernismo”, non solo da Lefebvre. Così oggi rischiamo di fare anche con Francesco. Siccome prende sul serio la sfida di una condizione culturale e sociale in cui la libertà dei soggetti e la coscienza dei singoli non possono essere aggirate, ci sembra che accondiscenda troppo alle logiche relativistiche e per questo non ci piace più. Sogniamo forse ancora una Chiesa in cui le relazioni sono semplicemente opzionali? O una autorità che semplicemente si impone?
Su questo punto, che è viscerale, il testo di Valli mi lascia perplesso e suscita una ulteriore domanda: che cosa avrebbe risposto Valli alla signora luterana? O alla coppia in seconda unione? E, infine, non stupisce che Valli citi un discorso di Benedetto XVI del 2010 sul tema della coscienza. Perché proprio in quel testo è evidente come ciò che per Benedetto è un problema, per Francesco è una opportunità. D’altra parte, il modo apologetico con cui Benedetto XVI usava le note – citando anche Nietzsche, ma solo per dimostrare che in una lettera alla sorella frantendeva il temine fede – e come le usa Francesco – avvalorando anche pensatori o film non cattolici – dimostrano un diverso approccio alla cultura contemporanea. Il primo prevalentemente diffidava, mentre il secondo ha anche sempre qualcosa da imparare…ecco una differenza su cui Valli non si sofferma, rischiando di restare vittima del pregiudizio antimoderno, che giudica il rapporto con la coscienza e con la libertà quasi in contumacia.
D’altra parte, il criterio con cui Valli ha scelto gli esempi, mi pare che dimostri precisamente questa difficoltà di fondo. Ciò che la sua ermeneutica interpreta come “no, ma anche sì” è la banalizzazione di un principio morale del discernimento, che forse si vorrebbe escludere, per rendere la realtà più “attendibile” e meno complessa. Se poi, accanto a questioni serie si affiancano questioni molto meno serie – come la coesistenza di un papa che esercita il ministero con un papa che ha rinunciato a tale esercizio – allora è evidente che proprio dalla serie degli esempi emerge la logica di fondo: la nostalgia per i bei tempi in cui i papi non rinunciavano, i cattolici e i luterani non si sposavano tra loro, i coniugi non divorziavano e le religioni si ignoravano o si combattevano. Quella sì che era una Chiesa seria, bianca o nera, tutta sì sì e no no!
Il vero problema non è che il papa cammini secondo il Concilio Vaticano II, ma che nel popolo di Dio – ma soprattutto in coloro che dovrebbero interpretarlo – si legga l’et-et nella forma sgraziata di un confusissimo “no, ma anche sì”. Credo che Valli abbia fatto bene a dire apertamente la sua reazione. Non bisogna nascondere le emozioni. Non sarebbe male se le argomentazioni, che ha esposto con sincerità, fossero messe al vaglio della nostra tradizione e cultura comune. Che non è solo quella antimodernista del XIX e XX secolo. Se Dio vuole siamo figli di una storia molto più complessa, che non deve vergognarsi della sua “meravigliosa complicatezza”. Un cattolicesimo semplificato non aiuta a vivere. Anzi, talora, può arrivare persino ad aggredire la vita! Grazie a questa tradizione non semplificata – che comunque dopo il Vaticano II si è affermata, nonostante tutto – abbiamo potuto subito riconoscere Francesco come papa e – anche grazie a lui – possiamo ora discuterne, con libertà e rispetto, stili e linguaggi. Già questa discussione potrebbe attestare con efficacia che non ci siamo abbassati ad un “no, ma anche sì”, ma che stiamo risalendo da un “aut-aut” semplificato a un “et-et” inevitabilmente complicato.
[…] Pubblicato il 31 maggio 2016 nel blog: Come se non […]
In definitva BXVI rispetto a Bergoglio è un diffidente semplificatore che ha ingabbiato la Chiesa in schemi antomodernisti. Evinco questo dalla Sua lettura, o sbaglio?
Quanto alla domanda ” che cosa avrebbe risposto Valli alla signora luterana? “, non lo so. So però, che cosa, in coscienza, avrei risposto io. Con tutto il rispetto per il luteranesimo gli avrei ricordato la dottrina della transustanziazione. “Non so, fate voi” è solo confusione, non meravigliosa complicatezza. Schema semplice e per questo, di sicuro, da Lei non accettabile.
* le avrei ricordato
Caro Matteo
Sia pure con esagerazione non dici il falso. Prefettura e pontificato di Ratzinger sono stati una ripresa di antimodernismo postconciliare. Riscattato dalle dimissioni. Circa la eucaristia e l ecumenismo dovrai riconoscere che la meravigliosa complessità non è la transustanziazione ma la presenza del corpo di Cristo. Non confondiamo cosa e concetto. Sulla res la comunione può esserci.
Cioè, caro Grillo, nella “celebrazione eucaristica” luterana vi sarebbe la reale presenza di Cristo con il Suo Corpo ed il Suo Sangue? Risposta secca, please.
Come consustanziazione si
Allora ho capito tutto, grazie per aver sollevato il velo. E per favore, non mi cominci un ulteriore “pistolotto” sui miei pregiudizi e sul mio senso di superiorità: conosco bene la mia nullità e i miei peccati e non voglio dare alcun giudizio sulle scelte altrui. Rispetto il suo pensiero e quello dei luterani, ma la mia coscienza mi impone di non ascoltarLa più, perchè i suoi discorsi stanno diventando pericolosi; sono semplicemente eretici. Capisco che la parola “eresia” possa farLa sorridere, ma in fondo in fondo so che Le dà fastidio. Non si preoccupi: non c’è nessun rogo preparato. Ma ho solo avuto la conferma che la Chiesa sta andando alla deriva perchè la stiamo facendo andare alla deriva. A questo punto può solo intervenire nostro Signore per calmare i venti di tempesta, visto che abbiamo gettato tutto che avevamo dalla nave per liberarcene, con sommo diletto.
E credo di aver visto giusto: il prossimo e vero obiettivo di questo pontificato sarà la demolizione dell’Eucarestia, attraverso uno “sostanziale svuotamento delle forme”. Del resto ce lo siamo meritati: ormai non crediamo più al Vangelo, ma ad AL. Auguri, di cuore.
Caro Grillo, Bergoglio dovrebbe licenziare Müller e assumere lei come custode della fede, non c’è intervento “critico” che le sfugga.
🙂
Pe il resto alla casistica gesuitica segui la reazione di Pascal cerchiamo di non fare sempre gli stessi errori.
[…] professor Andrea Grillo, con un intervento pieno di spunti interessanti risponde alle mie osservazioni dei giorni scorsi sulla Chiesa del «ma anche». Lo ringrazio. Sia […]
Deduco solo una cosa: per difendere l’operato di un Santo Padre se ne offende un altro.
Mi si consenta una qualche perplessità.
Diciamo la verità e i nodi vengono al pettine. Le aperture nrcessarie ferivano da chiusure ingiustificate.
La sua deduzione è infondata. Le responsabilità di Benedetto xvi sono apparse chiare nelle sue dimissioni…sono gli altri come lei a non volerlo riconoscere. E Francesco ha dovuto assumere la pesante eredità di quel progetto fallimentare di chiesa autoreferenziale…le offese sono state alla chiesa. Ma lei si preoccupa dei santini…
Condivido in toto le preoccupazioni di Valli…..
Caro Grillo, mi dispiace di trovarmi in profondo disaccordo con quanto dici in questo post, poiché avevo avuto l’impressione dalle nostre conversazioni che fossimo abbastanza sulla stessa lunghezza d’onda. Non è tanto questione di punti particolari, ma del tipo di retorica che vi impieghi, che evoca quella inaugurata da Cartesio, quando indicava nelle “idee chiare e distinte” il criterio di identificazione di ciò che è davvero sapere, probabilmente senza nemmeno rendersi conto che così dicendo implicava che, chi non fosse d’accordo con lui, doveva di necessità avere idee oscure e confuse. Invece delle cartesiane idee chiare e distinte c’è il coraggio di affrontare la complessità della “società aperta” di popperiana memoria, per cui ne seguirebbe che chi non fosse in linea con la tua lettura del magistero di Francesco (dico così, perché su quale sia questo magistero mi confesso confuso) non potrebbe esserlo avendo le sue buone ragioni, magari non valide ma almeno argomentabili. ma solo per “paura”. Allora, qualunque giudizio severo portato sui nostri tempi, come risultato di tendenze a lungo in gestazione negli ultimi secoli, sarebbe segno di paura? E chi in questi stessi secoli denunziava le implicazioni maligne di certi semi presenti nella cultura e nella politica che si è voluta “moderna”, era forse un pauroso? O non piuttosto un veggente? Non parlo per me, che conto poco, ma ti chiedo: era forse pauroso quel grande apologeta di Chesterton, o C. S. Lewis, quando ne “L’orribile forza” denunciava le le possibili deviazioni di quell’università che conosceva così bene dall’interno? Ma penso soprattutto, risalendo un po’ indietro, al mio amatissimo Antonio Rosmini: non c’è nello spaziare del suo pensiero segno alcuno di paura, ma totale fiducia nella Provvidenza, eppure non esitava a dire pana al pane, ed “empietà” a “empietà”. E, a proposito di Rosmini, mi sorprende sentirti parlare di un “primato del tempo sullo spazio e della realtà sulla idea”. Nell’et-et rosminiano non si può parlare di primato di idea o di realtà, oggettivo e soggettivo, perché sono sensi dell’essere che pur distinti stanno intrinsecamente insieme (tralascio la questione di tempo e spazio, perché ci porterebbe troppo lontano). Mi dirai, non è a questi pensatori e scrittori che penso, ma alla difensività del Sillabo di Pio IX e della enciclica Pascendi di Pio X. Vero, erano sulla difensiva, ma questo non vuol dire che non vi fosse in quei loro pronunciamenti qualcosa a cui vale la pena di prestare attenzione, senza apprensione ma con sollecitudine per il bene della chiesa e dell’umanità. In fondo, e su questo penso che siamo d’accordo, è un peccato che la chiesa possa essere percepita dai suoi stessi membri, fino al più qualificato tra essi, come “autoreferenziale”. Non nego che una tentazione in questo senso esiste, ma solo mostriamo di esserne stati liberati se chi ci guarda non è noi che vede, nel nostro arrabattarci in mezzo alla complessità, ma, per dirla con san Paolo, Cristo che vive in noi.
Caro Giorgio,
la nostra discussione continua. Ciò che sta al centro di questo testo, tuttavia, non è la discussione con la complessa esperienza ottocentesca della Chiesa, ma la sua riduzione ad una “proposta difensiva” che qualcuno vorrebbe rivendere come nuova oggi. Io ho sembra ammirato una proposta intelligente di “sopravvivenza” di ragioni apologetiche. Ma tra quello che dici tu, in questo commento, e quello che leggo in Valli, con la pretesa di attingere a un “senso comune cattolico”, mi pare che ci stia una distanza grande. Una riflessione seria sulla gerarchia e sulla “regalità” non ha nulla a che fare con una ricostruzione “di comodo” del pontificato di Francesco, che non si può affatto ridurre ad un “cartesianesimo per i poveri”.
Ti saluto di cuore e ti ringrazio.