I confini del Vetus Ordo. La normativa ecclesiale dopo “Traditionis custodes”.


missavetus

La pubblicazione del MP “Traditionis Custodes” (=TC) e della Lettera ai Vescovi di papa Francesco, che sostituisce 14 anni dopo il MP “Summorum Pontificum” (=SP) e la Lettera ai Vescovi di papa Benedetto XVI, riporta la condizione del VO alla sua originaria posizione: ossia di essere quella forma del rito romano che il Concilio Vaticano II ha deliberato di riformare. Questa condizione è rimasta inalterata fino al 1984 e poi al 1988, quando si è data facoltà ai Vescovi di concedere un “indulto” che permettesse, a particolari condizioni, di far uso della forma precedente del rito, solo in casi specifici.

Ciò implica che le condizioni di accesso al VO sono tornate oggi sostanzialmente a quanto concesso da Giovanni Paolo II nel 1988. Può essere utile costruire una breve “sinossi” per vedere che cosa era cambiato con SP e che cosa accade oggi con TC. In questo modo appare con chiarezza che una “teoria azzardata e contraddittoria” – l’idea che la stessa “lex credendi” potesse esprimersi in due “forme rituali parallele” – aveva causato una “incertezza del diritto” che ha portato confusione, divisione e conflitto nell’unica Chiesa.

a) SP all’articolo 1 diceva che le “due forme del rito romano” (ossia NO e VO) erano entrambe vigenti e lecite. TC 1 dice invece che vi è solo una lex orandi, che è quella del NO. La posizione classica è quella di TC, mentre SP aveva introdotto per 14 anni una lettura azzardata e confusa della tradizione. L’affermazione di SP, per cui “le due forme non porteranno in alcun modo ad una divisione della lex credendi della Chiesa” è priva di fondamento, apodittica e soprattutto è apparsa smentita dalla esperienza. Ciò che Benedetto XVI ha affermato come vero a priori, Francesco ha verificato come infondato a posteriori.

b) SP 2 stabilisce la libertà di ogni prete di poter celebrare “senza popolo” con NO o VO, senza dover rispondere né al Vescovo né alla Sede Apostolica. Per TC questa possibilità non può essere in alcun modo neppure considerata, essendo vigente e lecita solo la forma del NO, come ragione e tradizione comandano. Per questo TC 4-5 prevede per tutti i presbiteri che intendessero celebrare secondo il VO la necessaria autorizzazione da parte del Vescovo. SP 4 aggiungeva la possibilità, per singoli membri del popolo di Dio, di “essere ammessi” alle messe “senza popolo” celebrate secondo VO, in palese contraddizione con il principio generale di partecipazione attiva, stabilito dal Vaticano II.

c) SP 3 stabiliva la autonoma decisione di utilizzare saltuariamente o stabilmente il VO da parte dei superiori di Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica, senza altre condizioni.

d) SP 5 regolava la presenza di “gruppi stabili” nelle parrocchie, invitando il parroco e il vescovo alla accoglienza e ad evitare ogni discordia. TC 3,2 esclude che si possa celebrare con VO nelle chiese parrocchiali: questo è la conseguenza ragionevole del fatto che è vigente e lecito soltanto il NO, non il VO.

e) TC 3 provvede ad attribuire al Vescovo diocesano la cura delle possibilità di celebrazione in VO, avvalendosi di un prete incaricato che si occupi di celebrazione e cura pastorale, stabilendo giorni e luoghi specifici, verificando la necessità delle parrocchie personali già istituite per questo scopo e non autorizzando nuovi gruppi.

f) Secondo SP 5,3 al parroco poteva essere chiesta la celebrazione della messa VO anche in occasione di matrimoni, esequie o pellegrinaggi. Essendo esclusa la competenza del parroco in TC, anche la possibilità di queste richieste cade.

g) SP 9 prevedeva inoltre che il parroco, se lo ritenesse opportuno, potesse utilizzare il VO anche per i battesimi, i matrimoni, le confessioni o le unzioni dei malati; che il Vescovo potesse utilizzarle il VO per la confermazione e che i chierici potessero usare il breviario VO per la preghiera oraria. Nulla di tutto questo è più possibile.

Ovviamente, le questioni che scaturiranno in merito alla applicazione di TC non avranno più la interpretazione “speciale” che la Commissione “Ecclesia Dei” aveva assicurato per SP. Ricordiamo bene lo scandalo che fu vissuto nel 2011, quando la Istruzione “Universae Ecclesiae” aveva avuto la spudoratezza di definire “gruppo stabile” un gruppo di “almeno tre persone, anche appartenenti a tre diocesi diverse”. Era evidente che questi criteri non avevano nulla di realistico, ma miravano soltanto a “moltiplicare gli enti”: se tre persone, di tre diocesi diverse, potevano costituire un gruppo valido, allora in tre diocesi risultavano tre gruppi, costituiti sempre dalle stesse tre persone. Queste mistificazioni, che hanno segnato gravemente il corpo ecclesiale e le vite di comunità e di singoli, oggi non sono più possibili. La competenza della Congregazione per il Culto divino unifica l’unica “lex orandi” sotto una medesima autorità ed evita così di scadere in discipline caricaturali e fittizie.

La retorica ecclesiale, alimentata da alcuni uomini senza scrupoli, aveva fatto circolare l’idea che “il papa Benedetto” volesse che in ogni parrocchia ci fosse almeno una messa VO. Il papa non ha mai detto questa cosa, ma alcuni “amici” gliela mettevano volentieri sulla bocca. Oggi, finalmente, abbiamo capito che questo è semplicemente un grave errore teologico, ecclesiale, pastorale e spirituale. La tradizione cammina con l’unico rito comune, che merita di essere pienamente valorizzato. La ragionevolezza ha prevalso sulla astrazione irrealistica e sulla incauta convivenza contraddittoria tra fasi diverse e irreversibili del rito romano. SP, con una normativa contraddittoria, aveva portato il conflitto a causa della sua confusione. TC torna all’orizzonte che può promuovere la pace, per merito della sua lineare chiarezza. SP aveva reso marginale ed accessorio il Concilio Vaticano II, TC lo ristabilisce con evidenza nella sua irreversibilità.

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